LA PIZZA
La pizza che, insieme al Vesuvio, al pino, a Santa Lucia Luntana, a San
Gennaro, alla fenesta a Marechiaro, fa parte della più tradizionale
oleografia su Napoli, e ricorda la città in ogni parte del mondo, dalle
Americhe al Giappone, all'Austrialia e, grazie alla dieta mediterranea,
persino in Lapponia, a Napoli é arrivata da qualche altra parte del
mondo, non si sa bene quale. Per alcuni sarebbe di origine ellenica (dal
greco
Secondo il "Nuovo Dizionario Etimologico della Lingua Italiana" edito
dalla Zanichelli, la parola pizza, già in uso nel 997 nel latino
medioevale di Gaeta e poi ritrovata a Penne D'Abruzzo nel
1195, proviene dalla Germania. Nell'alto tedesco bizzopizzo - nel
tedesco di oggi Bissen - significava morso, pezzo di pane, focaccia. Nel
XII secolo pizzo diventa femminile e indica "un piccolo pane rotondo e
tenero" tipico dei paesi longombardi. Sicuramente però la pizza
napoletana "verace" a quel tempo non poteva esistere perché il pomodoro,
ingrediente fondamentale, é giunto in Europa dopo la scoperta
dell'America e a lungo venne guardato con diffidenza per la sua
parentela con altre solanacee nocive quali il tabacco, la mandragola e
la belladonna. La prima notizia sicura della pommarola come condimento è
del 1733. Pizza e Pizzeria sono le parole italiane più diffuse nel
mondo.
La prima pizzeria di New York venne aperta nella Little Italy da Gennaro
Lombardi nel 1895; nel 1984 ve ne erano, negli USA, 26.417. In
Inghilterra è arrivata all'inizio del nostro secolo. Ultimi a conoscerla
sono stati i giapponesi, che però l'hanno immediatamente apprezzata
moltissimo diventandone forti consumatori. Le modificazioni delle
ricette della pizza nei diversi paesi sono innumerevoli, talvolta
raccapriccianti; sulle pareti di molte pizzerie il Vesuvio è stato
sostituito dalla Torre pendente, dal Colosseo o dal Canal Grande:
inutile sottilizzare; il mandolino lo si ritrova dappertutto. Francis
Ferrari è l'inventore della pizza surgelata. L'idea gli venne, spinto
dal desiderio di mandarne una al fratello che era coi marinesa
Iwo Jima. Aveva un vivissimo senso commerciale; oggi, col fratello
reduce, ha un'industria fiorentissima. A Dean Martin fece cantare:
"Quando la luna è in cielo come una grande pizza, questo è amore". Oltre
alle innumerevoli "pizze house", negli USA c'è oggi anche la "pizza al
telefono": si fa un numero e si dice che tipo si vuole; entro un'ora
arriva dovunque. Gli americani con la pizza bevono Coca Cola, in gran
parte d'Europa birra, ma la più antica casa vinicola di Ischia produce
il "Pizzavino" con un gusto asprigno di marasca, che è considerato la
bevanda ideale. Per i raffinati la bevanda che meglio si addice alla
pizza è lo spumante brut metodo champenois.
UN PIATTO UNICO E IDEALE
Per
imparare a fare una pizza passabile ci vuole almeno un anno, afferma
Antonio Nobile, pizzaiolo per predestinazione oggi libraio per
disposizione naturale, nella prefazione al recente libro "Pizza", edito
da IdeaLibri. E ci vuole scuola. In gioventù il suo maestro gli disse:
oggi sei diventato un fornaio professionista, domani proverai a fare la
pizza.
"Il maestro mi iniziò alla conoscenza del forno, racconta, insegnandomi
a riconoscere dal colore più o meno scuro delle mattonelle le
temperature all'interno della cupola. Presto acquistai abilità nel
manovrare le pale, in particolare quella di legno, che deve entrare e
uscire dal forno come la lingua nelle bocca di un serpente, senza
diventare un tizzone atro. Con la pratica appresi a fermare la giusta
tonalità di rosso, indice di buona cottura, sul bordo rigonfio della
pasta". Gli inizi furono disastrosi, ma dopo un anno sapeva controllare
che la pizza cuocesse omogeneamente, rigirandola in continuazione,
avvicinandola e allontanadola dalla fiamma, spostandola nei punti più o
meno caldi del forno. In giro ci sono troppi pizzaioli autodidatti,
improvvisati, senza scuola: la pizza nasce come un quadro, con la stessa
cura e continui ritocchi: per fare un buona pizza occorre vocazione,
attitudine, occhio acuto, virtuosismo manuale. Pochi possiedono tutte
queste qualità, come diceva l'evangelista, molti sono i chiamati, pochi
gli eletti. La pizza è un capolavoro di gastronomia e un modello di
dieta: " 'Stu piatto ch'è primmo, sicondo, ch'è terzo, ch'è frutta, ch'è
tutto! Ch'è cena, ch'è pranzo, ch'è culazione; 'stu piatto ch'è o piatto
d' 'è ricche barone, d' 'à povera gente, d' 'e diavole e sante, d' 'e
grande scienziate, artiste, studiente", scriveva il poeta Cicala, ed
aveva pienamente ragione. In epoca di fast food la pizza, circa
cinquecento calorie razionalmente ripartire in proteine, idrati di
carbonio e grassi, sono il piatto unico ideale, a condizione che non si
mangi nient'altro oltre ad un pò di frutta e, se fa piacere, ad un buon
caffè alla napoletana, come si faceva in passato.
LA PIZZA MARGHERITA
La tradizione
vuole che la pizza più diffusa, la "Margherita" fatta con pomodoro,
mozzarella, basilico o origano, sia nata in omaggio alla regina
Margherita in occasione della sua prima visita a Napoli. In realtà
questa pizza veniva fatta da oltre un secolo e in quell'occasione venne
solamente battezzata con questo nome per le acuzie di Raffaele Esposito.
Umberto I e la bella consorte ricorrevano a tutti i mezzi per riuscire
simpatici e ben eccetti ai diffidenti napoletani e per una colazione
dichiararono di voler gustare il più tipico piatto della città. Raffaele
Esposito, noto pizzaiolo detto "Naso 'e cane", ebbe l'alto onore e si
recò a corte, consapevole della responsabilità, accompagnato dalla
moglie Rosina in qualità di assistente.
"Naso 'e cane" si superò e la regina mangiò un pò di tutte e tre le
pizze preparate, dichiarando alla fine che la sua preferita era quella
con la mozzarella. Pochi giorni dopo poté affiggere nel suo locale in
bell'evidenza la seguente lettera sovrastata dallo stemma sabaudo: "Casa
di Sua Maestà - Ispezione Ufficio di Bocca - Capodimonte, 11 giugno
1889. Pregiatissimo Signor Raffaele Esposito, Napoli. Le confermo che le
tre qualità di pizze da Lei confezionate per Sua Maestà la Regina
vennero trovate buonissime. Mi creda, di Lei devotissimo Galli Camillo,
Capo dei Servizi di Tavola della Reale Casa." Fra i ricordi della più
bella sovrana d'Italia, pertanto, oltre all'eleganza e alla cultura,
insolite nella famiglia Savoia, ci rimangono l'ammirazione del
repubblicano Carducci, il calco della mano del suo ginecologo e la pizza
"tricolore". Non fu
quella però la prima volta che la pizza salì agli onori di una corte
legale. Furono anzi i regnanti ad andare per primi in pizzeria
infrangendo l'etichetta. Che si sappia, Ferdinando di Borbone il quale,
angustiato dall'ostracismo fatto dalla regina Maria Carolina D'Asburgo
al piatto plebeo, si recò spesso in pizzeria, scegliendo come preferita
quella di Antonio Testa nella salita di Santa Teresa al Museo, che in
breve tempo divenne locale alla moda. A infrangere il tabù fu Ferdinando
Il che, nel 1832, fece costruire da
Domenico Testa, figlio del grande
'Ntuono, un forno per pizze nel giardino della reggia di Capodimonte,
proprio accanto a quelli per le preziose ceramiche. Nel già citato libro
di Nessia Laniado dal quale sono state attinte molte delle notizie
riportate, si legge che secondo Vincenzo Rovi, studioso di cose
napoletane, la pizzeria più antica sarebbe quella di Zi' Ciccio, sorta
agli inizi del '700 nella piazza in seguito dedicata a Cavour. Pizzaioli
celebri, maestri leggendari furono Pappone, Gigino acino e pepe,
Vicienzo 'o pacchiano, Raffaele machiulella, Cicillo 'o pazzariello e le
grandi famiglie dei Codurro, dei Testa, dei Brandi, dei Pace. Ognuno
aveva una sua specializzazione; in comune avevano tutti un battitore per
richiamare clienti, incaricato di fare continuamente rumori come se
preparasse pizze senza sosta anche quando il locale era vuoto.
"Il pizzaiolo che ha bottega", ha scritto Matilde Serao nel Ventre di Napoli, "nella notte fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze divise in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone, che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che si ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche. Vi sono anche delle fette di due centesimi, pei bimbi che vanno a scuola; quando la provvigione è finita, il pizzaiolo la rifornisce, sino a notte. Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e danno un grido speciale, dicendo che la pizza l'hanno col pomidoro e con l'aglio, con la mozzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza".
LA PIZZA 'OGGE A OTTO
La pizza è un prodotto della fantasia e della miseria. Lontano da Napoli ne esistono innumerevoli tipi al punto da rendere impossibile un censimento e vi è chi ha proposto un codice per "disciplinare la vera pizza napoletana". In "Usi e costumi di Napoli e contorni" del De Boucard si legge: "Prendete un pezzo di pasta, allargatelo, distendetelo col mattarello, mettetevi sopra quanto vi viene in testa e saprete cos'é una pizza. Alessandro Dumas, maldestro inventore di ricette, ne propose una assai economica che durava una settimana, provocando lo sdegno dei napoletani; gli americani hanno inventato la surgelata. La pizza "ogge a otto" è esistita veramente non come l'aveva concepita Dumas, ma perché si mangiava oggi e si pagava dopo otto giorni, nel giorno della paga settimanale. "Queste pizze, ha scritto Giuseppe Marotta, gonfie di fondente ricotta e non prive di qualche truciolo di prosciutto, si pagano soltanto fra otto giorni. Rendetevi conto che ciò stimola e incoraggia il consumatore. Molte cose possono succedere in otto giorni, non esclusa la morte, senza eredi, dello stesso rosticciere; per questo e per altre ragioni, non dissociabili dal cielo o dalle pietre di Napoli, succede che stomachi di infima capacità per gli alimenti pagati alla consegna risultino in grado di contenere un impressionante numero di pizze dilazionate".
LA VERA STORIA DELLA PIZZA NAPOLETANA
La denominazione di "Vera Pizza Napoletana" è riservata esclusivamente alle pizze confezionate secondo le norme del seguente disciplinare. La "Vera Pizza Napoletana" deve essere confezionata con le seguenti materie prime: Farina, Lievito naturale di pasta o lievito di birra, Sale q.b., Acqua q.b. Sono esclusi tutti i tipi di grasso dall'impasto. La lavorazione della pasta deve awenire con le mani o mediante speciali impastatrici per pizze riconosciute adatte dal Comitato Tecnico. Dopo giusta lievitazione, la pasta ottenuta dovrà essere stesa con le mani, senza l'aiuto di mattarelli o mezzi meccanici che comprometterebbero la qualità della pizza. La cottura dovrà avvenire direttamente sul piano del forno e non in teglie. 11 forno deve essere a legna e costruito con la campana in mattoni e terra refrattaria, mentre il suolo deve essere composto di speciali pezzi refrattari. Il forno va alimentato con tronchetti di legno e trucioli. I tipi classici di pizza e relativi ingredienti sono i seguenti: Marinara (Napoletana): olio, pomodoro, origano, aglio, sale; Margherita: olio, pomodoro, formaggio grattugiato, fiordilatte o mozzarella, sale; Ripieno (Calzone) ricotta, mozzarella o fiordilatte, olio o strutto, salame o ciccioli, sale; Formaggio e pomodora formaggio grattugiato, olio o strutto, sale. Tutti i tipi di pizza gradiscono qualche foglia di basilico. Sono riconosciute singole variazioni ispirate alla tradizione e alla fantasia, purché esse non siano in contrasto con il buon gusto e le regole della gastronomia. (Giudizio insindacabile del Comitato Tecnico). La pizza all'atto del consumo deve presentare le seguenti caratteristiche: mobida, ben cotta, fragrante e racchiusa in un alto e soffice cornicione.
da "Pizza! Storia-Segreti-Ricette" IdeaLibri Editore
PIZZA? NO: OPERA
D'ARTE
di Claudio Castellani - Foto di
Claudio Vitale
"Eravamo a tavola, un giorno, naturalmente davanti a una pizza. Eravamo un gruppo di amici e parlavamo di questo "caos" che rischia di far sparire le nostre tradizioni", racconta Sergio Miccù, segretario dell'Associazione pizzaioli napoletani. "Così abbiamo deciso di organizzarci e di cominciare a fare qualcosa. Quando dico caos", continua Miccù, "intendo le multinazionali, che ci fanno mangiare le pizze congelate; i falsi pizzaioli, che preparano la pizza con la pasta di pane; o, ancora una volta, le multinazionali che ci fanno bere, insieme alla pizza, birra, Coca e succhi di frutta. Noi invece", ride, " siamo un pò conservatori e ci teniamo al passato". Un passato che, per la pizza, si perde nella notte dei tempi: si confonde con la storia del pane e soprattutto con quella - ancora più antica - delle focacce. E forse non è un caso che la pizza abbia visto la luce a Napoli: perché Napoli è nata come città greca e sono stati proprio i Greci a far entrare il pane e le focacce nella storia. A loro, che già cuocevano una settantina di tipi di pane, è venuta per esempio l'idea d'innaffiare le focacce con l'olio e poi aromatizzarle spargendoci sopra ogni sorta di semi, di erbe selvatiche e aromatiche: capperi, maggiorana, rosmarino, aglio, cipolla, foglie di cavolo, coriandolo, finocchio... La stessa parola pizza - che nei documenti scritti compare un migliaio di anni fa, in pieno Medioevo - qualcuno sostiene che potrebbe derivare, ancora una volta, dal greco. Ma nessuno sa più con precisione come venisse impastato, insaporito e cotto questo antico "pane" a cavallo del Mille. Bisogna aspettare il Settecento per avere una documentazione sulla comparsa della pizza al pomodoro (che nel frattempo era arrivata dall'America) e soprattutto del "mastrantuono", che molti considerano il vero nonno della più celebre specialità napoletana, dal momento che costituiva il più diffuso e tradizionale pasto dei poveri: un disco di pasta condita con sugna, cigoli (i ciccioli), sale, pepe e quindi passato in forno. Trecento anni fa la pizza era già un piatto importante nella cucina della città. E del suo folklore: le pizze venivano cotte nei forni a legna e poi rinchiuse in un contenitore (la "stufa") che i garzoni si portavano in giro per le strade, appoggiato sulla testa, gridando le qualità della loro mercanzia. Ma a ben vedere, nella storia della pizza c'è qualcosa di strano: i testi scritti non ci regalano la medesima fotografia scattata dalla storia di strada, quella che oggi raccontano i più veraci pizzaioli napoletani. Secondo alcuni documenti la prima pizzeria in senso moderno aprì i battenti nel 1780 e si chiamava "Da Pietro e basta così". Secondo altri, invece, bisogna aspettare il 1830 e la nascita della pizzeria Port'Alba. Comunque sia, fino alla comparsa delle pizzerie moderne, dicono le storie scritte, la pizza veniva venduta solo in banchi all'aperto o dai garzoni con le loro stufe. Eppure Ernesto Cacialli, che manda avanti la pizzeria Di Matteo e fa il pizzaiolo da quando aveva sette anni (ne ha appena compiuti 50), è pronto a giurare che a Napoli, fino alla seconda guerra mondiale, la pizzeria non era cosa molto diffusa. Le pizzerie erano innanzi tutto friggitorie: piccole botteghe in cui, in primo luogo, si vendeva il fritto napoletano (come gli arancini di riso, le crocchette di patate e le "arie fritte", golose palline di pastella). E questo vale anche per alcune pizzerie che, sotto certi aspetti, hanno fatto la storia di Napoli. La pizzeria Trianon di Ciro Leone, per esempio. Aprì i battenti nel 1923 in via Colletta, quasi di fronte al teatro che ha lo stesso nome e che era sorto una decina di anni prima. Il teatro Trianon - che oggi è un triste cinema a luci rosse - venne inaugurato dal celebre attore e commediografo napoletano Eduardo Scarpetta, e vide lavorare artisti come Totò, Macario e Nino Taranto.
Nella sequenza, la preparazione della pizza, dalla pagnottella di pasta fino al forno |
LA PIZZA FRITTA
Popolarissima a
Napoli, eppure poco conosciuta nel resto d'Italia, la pizza fritta somiglia
vagamente a un calzone ed è una squisita variante della pizza tradizionale.
Viene preparata con la normale pasta per pizza: la si allarga a disco e sopra si
poggiano gli ingredienti; poi il tutto viene richiuso da un secondo disco di
pasta, messo in olio bollente per pochi minuti e fatto scolare su un ampio
recipiente di alluminio detto A' vacant'. I maestri consigliano di
stendere la pasta su un fazzoletto, in modo da non gettare nell'olio bollente,
oltre alla pizza, anche residui di farina. Una volta individuata la ricetta
base, è però praticamente impossibile stabilire le quantità esatte degli
ingredienti che vanno a finire nell'imbottitura della pizza fritta. Nella
realtà, infatti, vi è sempre una trattativa serrata tra il cliente e il
pizzaiolo, nel corso della quale il primo chiede all'altro di creare varianti su
misura, in cui compare più mozzarella che ricotta, meno olive che acciughe,
più cicoli e meno salame (il che tra l'altro obbliga il pizzaiolo a inventarsi
dei simboli da incidere sul bordo della pizza fritta in modo da riconoscerne il
contenuto una volta richiusa e cotta). Ma, nonostante tutto, ci sono tipi di
pizza fritta più gettonati di altri. Eccone alcuni.
La classica-classica: non era
imbottita e la si mangiava spargendoci sopra un poco di ragù e di basilico
fresco.
La classica di oggi:
il ripieno è composto in gran parte da ricotta, un poco di mozzarella, cicoli e
salame tagliato a dadini, il tutto cosparso da un cucchiaino di passata di
pomodoro.
La chicchinese: è
farcita con insalata scarola cruda, acciughe, olive nere, mozzarella, cicoli,
salame e pomodoro.
Alla scarola: con
insalata scarola cruda tagliata a pezzettini, olive nere e acciughe.
DALLA PASTA AL FORNO
regole e trucchi della vera pizza
L'Associazione pizzaioli napoletani (Via Campi Flegrei, 31 - Napoli, Tel. 081 556.08.92 - Fax 081 736.69.27) è nata nel 1996. "Non vogliamo montarci la testa e far credere che siamo chissà chi", spiega il segretario Sergio Miccù. «Però abbiamo deciso di organizzarci per difendere un mestiere e una tradizione che rischiano di perdersi. Gente che segue un corso in qualche scuola pubblica o privata e si crede il re della pizza. Non è così. Non voglio dire che pizzaioli si nasce, ma certo una buona pizza richiede anni e anni di lavoro. Bisogna crescerci un pò in mezzo. Per questo noi accettiamo tra i nostri iscritti (sono circa 250, in maggioranza napoletani, ma ci sono anche una quindicina di giapponesi) solo quelli che hanno alle spalle almeno dieci anni di attività. E chiediamo pure che conoscano le farine, che le sappiano miscelare nel modo giusto, perché il primo segreto della pizza sta nell'impasto".
Da Gennarino
Via Capuana, 1 - Napoli, Tel. 081 554.45.16
Da Michele
Via Cesare Sersale, 1/3 (angolo Via P. Colletta) - Napoli, Tel. 081 553.92.04
De' figliole
Via Giudecca
Vecchia, 39 - Napoli, Tel. 081 28.67.21
Di Matteo
Via Tribunali, 94 - Napoli, Tel. 081 45.52.62
Sorbillo
Via Tribunali, 35 - Napoli, Tel. 081 45.90.63
Starita
Via Materdei 27, 28 - Napoli, Tel. 081 5573682 - 081 5441485
Trianon da Ciro
Via P. Colletta, 44/46 - Napoli,
Tel. 081 553.94.26
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