CAPPELLA SAN SEVERO

Secondo la testimonianza dello storico Cesare d’Engenio (1624) la fondazione della cappella potrebbe fissarsi intorno al 1590, quando Giovan Francesco di Sangro duca di Torremaggiore, avendo fatto voto durante una grave malattia, fece costruire in una parte del giardino del suo palazzo una «piccola cappella» per venerare un’immagine della Vergine della Pietà. Nel 1608 Alessandro di Sangro, figlio di Giovan Francesco, ampliò l’ambiente primitivo «perché non era capace al concorso di molti, che la frequentavano per gli infiniti miracoli» e destinò la cappella, oltre che ai compiti di culto, a luogo di sepoltura per la sua famiglia.
Il periodo seicentesco è alquanto oscuro perché l’attuale sistemazione dell’ambiente, voluta da Raimondo di Sangro nel secolo successivo, scompaginò in gran parte l’assetto originario per far posto alle nuove opere da lui stesso coordinate. Non si conosce il nome dell’architetto che diresse l’edificazione della struttura originaria, ma probabilmente egli dovette seguire le idee del committente, poiché la semplicità della pianta rettangolare, priva di una vera e propria abside, e volta a dare il massimo risalto alle sculture celebrative ed alla decorazione, escludono un momento ideativo reale.
Ma un primitivo fasto seicentesco dovette esistere nella cappella in quanto Pompeo Sarnelli annotò nel 1697 che la cappella è «grandemente abbellita con lavori di finissimi marmi, intorno alla quale sono le Statue di molti personaggi di essa famiglia co’ loro elogi».
Qualcosa di questa decorazione rimane nel rivestimento in marmi policromi della parete di fondo, ai lati del grande altorilievo settecentesco.
Dei molti monumenti ricordati anche dal Celano nel 1692 ne restano solo quattro: quello di Paolo di Sangro posto dal figlio Giovan Francesco nel 1642 - attribuito con felice intuizione da Marina Picone a Giulio Mencaglia, e per il quale solo molti anni dopo è emerso il documento di conferma - è collocato nella prima cappellina della parete sinistra. Il suo ritratto a figura intera è da considerarsi uno degli esempi più insigni di ritrattistica seicentesca. L’effige con gli attributi militari in primo piano riflette lo spirito eroico di quella ampia parte della nobiltà napoletana che cercò glorie e onori al seguito degli eserciti spagnoli sui campi di battaglia di tuttoil mondo.
Vi è poi il Monumento ad un altro Paolo di Sangro (1569-1626), quarto principe di Sansevero, scultura attardata nei modi ancora cinquecenteschi, benché databile al secondo quarto del secolo XVII, posto nella prima cappella a destra. Il Monumento a Giovan Francesco Paolo di Sangro (1524-1604), fondatore della cappella, è collocato dopo quello del Mencaglia e fu voluto dal figlio Alessandro di Sangro, patriarca di Alessandria, il cui ritratto a mezzo busto freddamente stilizzato è posto nella parete sinistra del presbiterio.
A partire dal 1742 iniziano le vicende settecentesche della Cappella. Il principe Raimondo di Sangro (1710-1771) che da quell’anno fino alla morte sovrintese costantemente alle trasformazioni dell’ambiente, incarnò in pieno lo spirito del secolo di cui era figlio: singolare figura di uomo d’arme, letterato, sperimentatore, e alchimista dall’inappagata curiosità, fece fiorire, ancora in vita, numerose leggende sul suo personaggio.
Nel 1749 il pittore Francesco Maria Russo concluse il grande affresco della volta raffigurante la Gloria dello Spirito Santo, e la decorazione con finte architetture dove nelle vele sono inseriti medaglioni dipinti in monocromo verde che raffigurano sei Santi della famiglia.
Il Russo disegnò anche il monumento a Raimondo di Sangro posto all’imbocco della cavea sotterranea.
Tuttavia il maggiore interesse è destato dal gran numero di sculture eseguite da artisti napoletani e di altre regioni, che, caso forse unico nella città in quel momento, si travarono a lavorare affiancati in virtù delle scelte del Principe.
Ai lati del presbiterio, al centro del quale troneggia la vasta scenografia Deposizione di Francesco Celebrano, realizzata secondo il principio del quadro di marmo, sono collocati a sinistra La Pudicizia di Antonio Corradini, e a destra Il Disinganno di Francesco Queirolo. La prima scultura fu eseguita nel 1751 quando lo scultore, famoso in tutta Europa, giunse a Napoli ormai molto anziano (morirà infatti l’anno successivo). È stato notato come quest’opera per la sua sensualità si adatti più ad una «galleria» che non a rappresentare la principale virtù di Cecilia Gaetani, madre del principe, ma la fusione tra gusto profano e sacralità costituì la cifra di questo particolare periodo artistico.
La seconda scultura opera del genovese Francesco Queirolo è basata su un virtuosismo esecutivo stupefacente: un’autentica sfida alle difficoltà opposte dalla materia nella resa della rete che avvolge la figura maschile in atto di strapparla.
Va infine ricordata l’opera più celebre della cappella al punto da essere diventata un po’ il simbolo del monumento: il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino.
Fino al recente ritrovamento del bozzetto orginale si riteneva che la scultura, eseguita nel 1753, fosse stata realizzata su un modello del Corradini. La paternità dell’opera va quindi completamente riconosciuta allo scultore napoletano che, secondo i dettami del committente, la concepì per essere posta nella cavea illuminata dall’alto dalla lampade eterne inventate dal Principe, e non dove oggi la si ammira, al centro della navata. L’originaria destinazione orientò lo scultore verso una ricerca luministica tesa a rivelare le infinite serpeggianti pieghettature del sudano che ricopre il corpo abbandonato sui cuscini. In un fluttuare di luci ed ombre non è percepibile il distacco doloroso della morte, ma solo l’intima poesia dell’opera - sostenuta da una prodigiosa abilità tecnica che avrà modo di affiorare più volte nella lunga carriera dello scultore in quegli anni quasi agli esordi - nella quale vibra un precorrimento di languido romanticismo.
Sintomatico in proposito è il tentativo, fortunatamente fallito. di Antonio Canova, di acquistarla durante il suo soggiorno napoletano.

Scheda tratta da ‘Napoli città d’arte’
Edizione Electa Napoli (1986)

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LE IMMAGINI DI UN SOGNO

Come a tutti gli uomini di genio, o comunque non perfettamente adattabili alla norma, anche a Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, toccò in sorte un discreto numero di ammiratori, spesso acritici e feticisti, e di avversari decisi. In effetti il nostro fu una notevole eccezione ad una regola fino ad allora ben osservata e che vedeva il nobile poco attento alle arti meccaniche, piuttosto occupato nella caccia, nel gioco, nella guerra, che non nell’escogitare macchine idrauliche e fuochi pirotecnici, nuovi colori e tecniche per la stampa. Di molte di queste invenzioni ci dà conto un libretto intitolato Breve nota di quel che si vede in casa del Principe di Sansevero Don Raimondo di Sangro, edito negli anni ‘60 del secolo XVIII, dietro il cui anonimo autore si è supposto si celasse lo stesso Raimondo o, comunque, uno che ne conosceva molto bene la casa, come il suo amico Qriglia. Nelle pagine è tutto un susseguirsi di mirabolanti curiosità da collegare all’inventiva del principe, dalla contraffazione di pietre pregiate e marmi rari all’alterazione dei colori dei lapislazzuli, da un tipo di porcellana che si lavorava alla ruota come le pietre dure ad una seta vegetale con la quale si potevano realizzare non solo i soliti capi d’abbigliamento, ma pure tomaie per le scarpe e carta da scrivere, simile a quella cinese. Di queste, e di mille altre invenzioni attribuite a Raimondo, non rimane nulla; esse rappresentano il frutto di una fertile curiosità, applicata a vari campi ma non finalizzata praticamente. Fu nella sua cappella di famiglia, destinata a restare famosa grazie al suo geniale impegno, che Raimondo lasciò la più profonda traccia della sua originale cultura, molto moderna, ormai in linea con i principi dell'illuminismo europeo, ma nel contempo ancora ancorata a concezioni precedenti. Ad una prima lettura del monumento, egli, analogamente agli altri aristocratici del tempo, preoccupati di trasmettere alle generazioni future i propri meriti e quelli degli avi, sembra essersi impegnato ad organizzare, attraverso scritte ed allegorie, una grandiosa glorificazione della propria famiglia, cantandone i meriti militari e religiosi, la fedeltà al re ed alla chiesa: nel livello inferiore i mausolei conducono un discorso molto chiaro, esibendo non solo i nomi degli avi ma anche quelli delle loro consorti e l’allegoria della virtù nel cui esercizio ciascuna di esse si era distinta. Troviamo così sottolineate imprese belliche, qualità morali e tutta una rete di alleanze strette dai di Sangro con alcune grandi famiglie del regno attraverso una serie di matrimoni, alleanze che rendevano spesso temibile il potere dell’aristocrazia. Dai meriti molto temporali si passa a quelli spirituali nei livelli superiori: sugli archi delle cappelle, Francesco Queirolo scolpì sei cardinali della famiglia, ed ancora più in alto, nella volta, alla Gloria del Paradiso, affrescata da Francesco Maria Russo nel 1749, partecipano ben sei santi di Sangro, dipinti in medaglioni. Quella che doveva essere una cappella funeraria si trasforma in un discorso omogeneo e ben orchestrato che, esaltandoli, fa in modo che i meriti e le qualità dei defunti suonino a gloria per la generazione presente e per le future, sostenendo le fortune e l’immagine del casato. Dunque un profondo senso della storia e della continuità, esposto per immagini allegoriche dall’apparenza poco mortuaria. In effetti le sole rappresentazioni di un qualche effetto macabro sono i due teschi e le tibie incrociate, scolpite sul portale laterale della chiesetta, eseguito nel 1744 dal piperniere Matteo Saggese. A quello sulla caducità si affianca, prevalendo, il discorso sull’eternità e sul valore della virtù che dà vita ad un’architettura spirituale che consente un ulteriore livello di lettura, meno esplicito del precedente e fondato sugli ideali massonici. Prima di accedervi occorre ricordare come il principe fu massone fin dagli anni quaranta del secolo e Gran Maestro della loggia napoletana, costretto nel 1751 ad abiurare a seguito dell’editto anti-massonico di Carlo di Borbone e degli attacchi dei padri gesuiti Pepe e Molinari. Un’abiura che evitò forse ulteriori persecuzioni agli adepti, ma che non significò la totale rottura dei legami con un mondo tanto vivace culturalmente, aperto verso il moderno e la scienza, libero da pregiudizi di casta. Massoni erano il suo biografo Origlia e molti dei suoi amici e corrispondenti. Anche di autori o d’ispirazione massonica furono molti dei testi da lui editi in una tipografia, sita nel suo palazzo, dove pare si stampassero anche patenti con simboli massonici. Si tratta talora di opere di grande valore estetico, come la sua Lettera Apologetica, dove applicò un nuovo procedimento, da lui messo a punto, per stampare a più colori con una sola impressione di torchio. Attraverso i suoi scritti e quelli di cui patrocinava la pubblicazione ci rendiamo conto che il principe, per quanto attento alla ricerca di spiegazioni scientifiche dei fatti, non giunse ad una concezione materialistica e che per lui cabala ed allegorie avevano un forte valore, come gli insegnavano i testi di alcuni grandi massoni europei, da Alexander Pope al marchese d’Argens al Ramsay. E a questo universo, dai sigQificati esoterici, fece ricorso nel dettare le allegorie dei mausolei nella cappella. Come ha scritto Rosanna Cioffi, in un discorso pronunciato nel 1745 per accogliere nella loggia napoletana alcuni apprendisti, il di Sangro pose l’accento sulle virtù necessarie al massone per realizzare perfettamente una sorta di architettura spirituale che consenta la rinascita simbolica ad una vita non sottomessa alle passioni, bensì ispirata all’uso della ragione e all’esercizio della virtù (Cioffi). Per giungere a tanto occorreva liberarsi dalle passioni e proprio a questo allude il Disinganno, scolpito dal Queirolo come un uomo che si libera da una rete che lo avviluppa con l’aiuto del genio della ragione. Nel basamento Gesù ridà la vista ad un cieco, allusione alla conquista della vera luce. Quindi l’allegoria non si riferisce soltanto alla vita ed alla conversione del padre del principe ma anche ad uno dei momenti dell’iniziazione massonica, quando il candidato si qualifica come un cieco che chiede la luce. Ma egli si definisce anche come un cadavere che cerca di risorgere, tenia, questo, che nella cappella viene proposto nella scenografica Deposizione, sull’altare del Celebrano, soggetto che, accanto a quello della morte reca insito il tema della resurrezione, e nel celeberrimo Cristo velato del Sanmartino che doveva essere collocato nella cripta, concepita come una grotta, simbolo della massoneria, ed avrebbe rappresentato la morte ma anche la rinascita. Il velo che lo ricopre si ricollega ai riti massonici relativi all’iniziazione dei Gran Maestri che vi partecipavano coperti da un velo che cadeva solo al termine del rituale. Dunque un simbolo di resurrezione ma, nella statua della Pudicizia, capolavoro del Corradini, anche dell’antica sapienza velata ed intangibile per chi non sia iniziato ai suoi misteri (Cioffi). Ancora allusioni massoniche troviamo nel Dominio di sé stesso, nello Zelo della Religione, nella Sincerità, nel Decoro, nell’Amor Divino, nell’Educazione, nella Liberalità, nella Soavità del giogo coniugale, tutte virtù attribuite a varie donne della famiglia ma espressamente citate, nel 1745, fra quelle che Raimondo riteneva essenziali per la formazione del perfetto massone. Ed ancora legati a significati esoterici erano il pavimento ed il soffitto: il primo, di cui restano pochi elementi non più in situ, recava un disegno labirintico, allusivo del percorso iniziatico, realizzato in bianco e nero, colori del bene e del male; il soffitto, affrescato dal Russo nel 1749, mostra la colomba bianca, rappresentativa dello Spirito Santo ma, in alchimia, della materia prima da cui avrà origine la pietra filosofale, con sul capo il triangolo, simbolo divino ma anche del fuoco e della stessa massoneria. A difesa ideale di questo mondo si pone Cecco di Sangro, che esce armato da una cassa sorprendendo i nemici. Quest’immagine rievoca uno storico fatto d’armi ma richiama, con la sua presenza armata sull’ingresso, una delle cariche fondamentali di una loggia: il cosiddetto fratello copritore che, vegliando all’ingresso, doveva assicurare che la loggia restasse coperta agli occhi dei non appartenenti alla società segreta. (Cioffi). Come si vede, la concezione della cappella si sviluppa su due livelli di lettura, secondo un disegno che Raimondo mise a punto nel 1750 con la collaborazione di Antonio Corradini, scultore di simpatie massoniche, reduce dall’Austria. Con la sua chiamata, e poi con quella del genovese Queirolo, il principe dimostra, ancora una volta, la sua volontà di raccordarsi ad una cultura diversa, di respiro europeo, e di realizzare un progetto originale e senza precedenti a Napoli. Al progetto iniziale egli rimase fedele anche quando, morto Corradini e allontanato il Queirolo, dovette ripiegare su alcuni scultori napoletani come Celebrano e Paolo Persico, meno capaci dei precedenti, ma comunque in grado di trasformare in immagini i sogni del principe.

Renato Ruotolo
Tratto da: "
I NOSTRI TESORI" - supplemento del Corriere del Mezzogiorno

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