Raimondo di Sangro
Principe di San Severo

Chi si trova a passare, in Napoli, pel vico Sansevero e dà un'occhiata al bel palazzo dal quale il vico ha preso il nome, quando non sia un ignaro viandante o un indifferente, prova, al cospetto un senso di sconforto e di malinconia.
Nella notte, al chiarore incerto dei pochi fanali sparsi pei vicoli in mezzo ai quali sta il vecchio palazzo non può che avvertire la presenza d'ombre, mano mano, e di fantasmi erranti.
Qui negli ultimi anni del secolo decimosesto il principe di Venosa don Carlo Gesualdo offerse - ospite di tant'uomo - la sua casa al Tasso; qui donna Maria d'Avalos, fu ammazzata dal signor don Carlo Gesualdo conte di Consa, suo marito, mentre fu colta insieme al suo amante Fabrizio Carafa. Qui visse il Principe di Sansevero, Raimondo di Sangro.
Con lui, a mezzo il settecento, l'antica fabbrica parve restituita improvvisamente all'antico suo mistero. Fiamme vaganti, luci infernali - diceva il popolo - passavano dietro gli enormi finestroni che danno, dal pianterreno, nel vico Sansevero, ed ora le fiamme erano colorite di rosso, or di azzurro, ora di quel verde brillante che nelle buie officine degli orafi, tra' vapori letali dell'idrargirio, tinge bizzarramente il viso intento dell'artefice e guizza in tante lingue sottili. Scomparivano le fiamme, si rifaceva il buio, ed ecco, romori sordi e prolungati suonavano là dentro: di volta in volta, nel silenzio della notte, s'udiva come il tintinnio d'un'incudine percossa da un martello pesante, o si scoteva e tremava il selciato del vicoletto come pel prossimo passaggio d'enormi carri invisibili. Che seguiva, dunque, ne' sotterranei del palazzo? Era di là che il romore partiva: li rinserrato coi suoi aiutanti, il principe componeva meravigliose misture, cuoceva in muffole divampanti, porcellane squisite e terraglie d'ogni sorta; lì mescolava colori macinati per la stampa tipografica e faceva gemere torchi fabbricati, secondo le sue stesse norme, per imprimere in una volta sola parecchi colori sul foglio; lì ancora tingeva lastre marmoree di colori diversi e in maniera che nel bianco marmo penetrasse una tinta indelebile, e ne componesse, artefatte, le più curiose varietà.
Un bel giorno l'officina tipografica del Principe, ch'era diretta da un certo espertissimo uomo chiamato Morelli, mise fuori uno strano opuscolo. Era intitolato: Lettere del signore Don Ramondo di Sangro, Principe di San Severo, di Napoli, sopra alcune scoperte chimiche: indirizzate al signor cavalier Giovanni Giraldi fiorentino e riportate ancora nelle Novelle letterarie di Firenze del 1753. Nella prima di queste lettere il Principe narra d'una sua meravigliosa scoperta. Nel suo laboratorio chimico aveva dato fuoco a una certa materia da lui composta dopo quattro mesi d'indagini e di pruove: s'era accesa quella materia e accesa durava senza mai perder nulla del suo volume e del suo peso. Don Raimondo di Sangro aveva dunque trovato il fuoco eterno, il fuoco nascosto, l'Esch tamun degli ebrei!
In quel tempo egli arricchiva la cappella gentilizia dei Sangro di marmi preziosi e di pitture e di statue. Al Giraldi - dopo avere nelle due prime lettere lungamente descritto in che maniera gli è accaduto di scoprire quel lume inestinguibile - soggiungeva nella terza: "M'è paruto bene innalzare un altro tempietto (…) ove sarà collocata la statua di marmo al naturale di nostro signor Gesù Cristo morto, involta in un velo trasparente pure dello stesso marmo, ma fatto con tal perizia che arriva ad ingannare gli occhi dei più accurati osservatori e rende celebre al mondo il giovine nostro napoletano signor Giuseppe Sammartino, uno dei miei scultori".
Solo nell'ultima lettera si decide, finalmente, a svelare il segreto : "Vi promisi - scrive - di manifestarvi la più solenne particolarità della composizione del meraviglioso mio lume: o ecco che ve ne mantengo la parola.
"La materia ch'è principal cagione di questo fenomeno sono le ossa dell'animale più nobile che sia nella terra; e le migliori sono appunto quelle della testa, delle quali io mi son servito benché costantemente creda che serbino la stessa virtù le ossa d'ogni altro animale ancorché non possa esso provare rigorosamente tutti e tre i quarti di nobiltà che prova il primo". Ma quel lume non arse mai nella cappella, né mai permise don Raimondo che gli scienziati o i curiosi lo vedessero se ne sparse la novella e la divulgò egli stesso, ma il picciol tempio non ebbe giammai la meravigliosa lucerna di questo nuovo Aladino. Il ritratto di don Raimondo è lì nella cappella medesima, sulla destra di chi muove all'altare maggiore e proprio in fondo a un vano che mette giù alla stanza del Cristo morto. E dipinto ad olio da Carlo Amalfi e sta al sommo d'una lapide che ricorda ai posteri, di mano stessa del principe, il bizzarro signore.


CAPPELLA SAN SEVERO


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