VIVIANI RAFFAELE
VIVIANI RAFFAELE -
Castellammare di Stabia (Napoli), 10 gennaio 1888 - Napoli, 22 marzo 1950.
Che il Viviani sia stato commediografo e attore in campo nazionale - anzi
internazionale - per noi napoletani è motivo d'orgoglio, ma quello che ci
inorgoglisce maggiormente è il fatto che fummo i primi a riconoscere il
suo eccezionale talento e la sua autentica grandezza. La sua arte scenica
affascinò le masse ed elettrizzò prima le platee locali, poi quelle
del mondo, ove portò il vero cuore
di Napoli, le sue grandezze, le sue miserie, la sua rassegnazione, la sua
ribellione: quel misto ch'è il poco o il molto di un popolo che ha una
storia e un passato millenari. Teatro tutto suo, quello di Raffaele
Viviani: strappato di netto alle radici della sua terra.
Se l'attore domina il poeta, il poeta domina l'attore: si completano
entrambi. Presa letterariamente, la poesia del Viviani
e
quella che
e
riproduzione fedele della vita,
degli usi e dei costumi del suo popolo, che amava d'intenso amore.
Così nelle canzoni: e
il cuore semplice di un uomo del
popolo che canta e si effonde, e prorompe e impreca, e si lamenta, e
prega, e benedice, sull'altalena di un verso che, se pure spesse volte
rude, e
pur sempre efficace, toccante,
suadente.
Aveva quattro anni quando debuttò in un teatrino d'infimo ordine: il
Masaniello a
Porta Capuana (una baracca costruita
dal padre, vestiarista teatrale), dove sostituì il cantante Carlo Ciofi,
ammalatosi.
L'anno dopo cantava da solo e a duetto con sua sorella Luisella - che
divenne poi meravigliosa cantante e grande attrice della compagnia del
fratello -. Nel 1905 ottiene il suo primo strepitoso successo al teatro
Petrella con la canzone 'O scugnizzo, di Capurro e
Buongiovanni, che poi fece sempre parte del suo repertorio. Da qui man
mano conquista il pubblico dei maggiori teatri di varietà di Napoli e di
tutta la penisola. Nel dicembre 1917 forma la sua prima compagnia musicale
napoletana, e da allora, fino al 1945, la sua attività di attore
capocomico e commediografo non ha più sosta ed ottiene un vero plebiscito
di entusiasmo dal pubblico italiano ed estero. Nello stesso tempo pubblica
libri di memorie, di poesie, di teatro. Già nel 1906 aveva scritto una
risposta alla canzone in voga Cara mammà, intitolandola Caro
Totò, e una macchietta: Fifì Rino, che ebbe successo sia nella
sua interpretazione, che in quella di altri comici dell'epoca.
Successivamente diede il via ad un nuovo genere di macchietta, a tempo di
marcia: uno stile piacevole, che riempi il repertorio dei De Marco e dei
Totò. Poi le canzoni, con musica tutta sua o di altri non si contarono
più. Le pubblicarono Bideri - col quale vinse un premio della
«Tavola Rotonda»,
nel 1912, con Ce vevo 'a
coppa - La Canzonetta e Gennarelli. Molte di esse furono inserite, e
ne facevano parte integrante, nelle belle commedie dello stesso Viviani.
Fra le tante, due sono principalmente
da ricordare: Bammenella e Quanno iarraie a spusà,
ripubblicate nel 1917.
Ettore de Mura -
Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice IL TORCHIO, Napoli 1969
Un ubriaco di diciassette lire
Ancora oggi di Viviani, a cinquant'anni dalla morte si ricorda la
grandezza dell'attore. L'attore, così complesso e dotato, con
quell'eccezionale maschera capace di assumere mille sembianze e mille
espressioni, sovente senza neppure l'ausilio del trucco, con quella sua
figura sottile e scattante, capace di impersonare un giovanotto oppure un
vecchio cadente, l'attore che sapeva interpretare con tanta efficacia
sentimenti semplici e complesse passioni, si impose, ancora ragazzo, anche
alle platee più distratte e sprovvedute. E fu l'attore che aprì le porte
dei più grandi teatri italiani ai propri testi, con la carica innovatrice
che essi contenevano, e con la rappresentazione di una società
profondamente lacerata e sofferente. Quei testi che provocavano lo
scandalo e l'ostilità degli ambienti italiani benpensanti, abituati a
considerare idilliaca e canzonettistica la vita del popolo napoletano. Non
parliamo poi della censura fascista: i tagli e gli ostracismi non si
contavano. Per fortuna, il censore, qualche volta, restituiva un copione
scabroso con una nota al margine: «Si autorizza la rappresentazione solo
se recitato dall'attore Viviani».
Soltanto ora, quando il trascorrere del tempo ha accumulato tanta nebbia,
quando dell'attore resta solo un ricordo vivo nella generazione con i
capelli bianchi, la critica ha collocato l'autore al posto che gli
compete, autore cioè fra i massimi del Novecento. Negli ultimi anni della
sua vita, quando in lui si erano affievolite e poi spente le illusioni di
tornare a recitare, Raffaele Viviani cercava ancora di combattere il
disperato isolamento in cui la malattia lo aveva gettato scrivendo alle
varie case editrici perché pubblicassero il suo teatro. Ma gli giungevano
solo risposte freddamente evasive.
L'opinione corrente di allora era ancora ferma nel considerare le sue
commedie semplici canovacci che l'interprete Viviani, alla maniera dei
grandi attori della Commedia dell'Arte, ritesseva ogni sera con le sue
estemporanee improvvisazioni. Solo quando, nel 1957, è apparsa nelle
edizioni della ILTE una prima selezione del suo teatro, critici, artisti,
studiosi hanno scoperto che il margine di estemporaneità dell'interprete
era nullo: l'Autore, da grande uomo di teatro, aveva fissato non solo nel
testo scritto, ma anche nelle didascalie e nella presentazione dei
personaggi, compiutamente la sua opera creativa. Egli odiava, infatti,
ogni forma di faciloneria e di improvvisazione e, fin dall'inizio della
sua attività nel teatro di prosa, impose a se stesso e agli attori della
propria compagnia un rigore interpretativo e una fedeltà al testo scritto
che erano assolutamente sconosciuti nel teatro napoletano di allora. Era
un regista esigentissimo, che non perdonava neanche il più piccolo sbaglio
o una semplice dimenticanza. Gli attori erano tenuti a imparare le parti a
memoria già durante le prove e neanche per la prima rappresentazione era
consentito l'aiuto del suggeritore. E ciò anche nel periodo
in cui recitava al Teatro Umberto di Napoli. A quell'epoca, quasi ogni
sera, Viviani metteva in scena una nuova commedia. Il pubblico affluiva
numerosissimo in quella piccola sala situata nei pressi di piazza della
Borsa. Si davano due rappresentazioni miste di prosa e varietà, tre la
domenica. Uno spettacolo non poteva durare in cartellone più di una
settimana perché così esigevano gli accordi con l'impresa del teatro. Si
dovevano, nel giro di pochi giorni, allestire sempre nuove
rappresentazioni. L'autore Viviani scriveva di notte dopo lo spettacolo;
il regista Viviani dirigeva le prove della compagnia durante le mattinate
seguenti; l'attore Viviani iniziava a recitare nel pomeriggio per finire
dopo la mezzanotte, ora in cui l'impresario Viviani faceva i conti con
l'amministratore e finalmente si concedeva due o tre ore di sonno. Ebbene,
neanche in questo inizio travolgente egli concesse nulla a se stesso e ai
suoi compagni. Era un regista severo. Ogni battuta, ogni inflessione di
voce era studiata, ripetuta decine di volte. Egli recitava per i suoi
attori i vari personaggi della commedia ed esigeva che essi riproducessero
fedelmente i suoni della sua voce, l'atteggiamento del suo volto, le sue
movenze, le sue posizioni sceniche. Spesso si impuntava su una battuta
anche per mezz'ora e si rifiutava di andare avanti se non aveva ottenuto
l'effetto voluto. Alla sua scuola di recitazione si formò, nel giro di
pochi anni, un gruppo di attori che in seguito riscosse grandi elogi dai
più severi critici italiani: Agostino Clement, Vincenzo Flocco, Salvatore
Costa, Gennarino Pisano, Salvatore Ragucci rimasero nella sua compagnia
per lunghi anni, diventando sempre più bravi. Erano attori nati e formati
da quel teatro e da quella scuola, ne avevano assimilato lo spirito e si
erano maturati attraverso un nuovo metodo di recitazione che si basava
sulla fedele interpretazione del testo scritto. L'uso frequente,
soprattutto nel teatro vivianesco della prima maniera, di dialoghi in
versi fra molte persone concertati su un ritmo musicale, imponeva non solo
di restare fedele a ogni sillaba, ma anche di entrare in battuta secondo
un ritmo che non poteva essere minimamente alterato. Altro che canovacci
per l'improvvisazione di un grande attore! A volte, però, neanche un
regista severo ed esigente come Viviani riusciva a cavare sangue dalle
pietre. Negli ambienti teatrali è rimasto famoso un episodio: era in prova
l'atto unico La cantina 'e copp' 'o campo.
Come tutti gli atti unici del suo primo teatro, sulla scena si muoveva un
gran numero di personaggi. Ogni attore si doveva sobbarcare la fatica di
interpretare, a pochi minuti di distanza, due o tre ruoli diversi. Nella
distribuzione delle parti ci si accorse che, nonostante tutti i raddoppi,
restava tuttavia scoperto il ruolo di un ubriaco che doveva dire solo
poche battute, ma importanti nell'azione scenica della commedia. In
mancanza di meglio, il ruolo dell'ubriaco fu affidato a un vecchio
generico della compagnia, un tal Savoia che prendeva una paga giornaliera
di diciassette lire, paga assai modesta anche per quei tempi. Quella volta
fu proprio sulle battute dell'ubriaco che si impuntarono le prove. Mio
padre, con certosina pazienza, aveva fatto ogni tentativo per ottenere che
il poco dotato generico riuscisse a imitarlo, che copiasse la sua andatura
traballante, il suono della voce stridulo, l'atteggiamento del volto e il
gesto stralunato dell'ubriaco. Nei ripetuti tentativi il tempo era
trascorso oltre misura e la tensione tra gli attori andava crescendo. Fu
allora che il povero generico, prendendo il coraggio a due mani esclamò:
«Ma insomma, cosa volete da me? Non potete pretendere di più. Mi pagate
diciassette lire, tanto valgo e mi contento, ma solo un ubriaco da
diciassette lire da me potrete avere!». Una risata generale, che coinvolse
anche il difficile regista, ruppe la tensione e la prova così poté andare
avanti.
I portoghesi
L'antipatia per i portoghesi l'ho ereditata da mio
padre. Ho molte amicizie e conoscenze nel mondo del teatro, ma mi
vergognerei come una ladra se dovessi accodarmi a quelle piccole
file che aspettano l'amministratore o il capocomico presso il botteghino
all'ora dello spettacolo per chiedere un ingresso di favore. Il ricordo
delle sofferenze che facevano patire a mio padre i portoghesi è troppo
vivo non solo nella mia memoria, ma in quella di tutta la famiglia, a
cominciare da mia madre che, per questo, usava acquistare il biglietto
d'ingresso perfino quando si rappresentava il repertorio di Viviani. E
fenomeno dei portoghesi esiste, è vero, in tutta Italia, ma a Napoli ha
una particolare accentuazione. Mio padre veniva a lavorare a Napoli quasi
sempre all'epoca delle feste di fine d'anno, perché poteva trascorrere
Natale e Capodanno in famiglia e, nello stesso tempo, profittare del
periodo teatrale migliore, in una città come Napoli, generalmente poco
redditizia. Si faceva affidamento su quei giorni festivi per colmare
passivi finanziari, per prendere respiro prima di inoltrarsi nei centri di
provincia e affrontare le pesanti spese dei continui trasferimenti. La
gestione della compagnia di mio padre gravava unicamente sulle sue spalle.
Non vi erano allora né sovvenzioni ministeriali, né premi per una
compagnia dialettale; né essa dipendeva, come tante altre, da qualche
impresario con i milioni in banca. No, la sua era un'impresa che si basava
unicamente sugli incassi che, sera per sera, si realizzavano. E che questi
incassi fossero assai spesso magri lo testimoniano le lettere di Viviani
alla moglie, nelle quali, sovente, con profonda angoscia, egli riferiva i
conti che via via gli faceva l'amministratore. E questo per far partecipe
la famiglia di ciò che egli provava quando era costretto a chiedere il
danaro per far fronte agli impegni della compagnia, invece di spedire a
casa il guadagno del suo faticoso lavoro.
L'assedio di casa nostra cominciava prima ancora che mio padre fosse
arrivato a Napoli, quando apparivano sui muri della città i manifesti che
annunciavano il suo debutto. Si mettevano in moto, in quell'occasione, i
fornitori, i vicini di casa, i conoscenti, gli amici, i parenti, i pezzi
grossi, le autorità. Tutta gente che riteneva sinceramente bastevole
vantare un incontro casuale, una banale relazione commerciale o
professionale, per sentirsi inserita automaticamente nell'elenco di coloro
che avevano diritto di chiedere e di ottenere l'entrata di favore. La
pressione maggiore partiva non da chi non aveva il denaro per acquistare
un biglietto: questi, in genere, si vergognava, non osava chiedere. La
pressione era, invece, tanto più forte e insistente quanto più ricco e
influente era il postulante. Più che un favore, costui rivendicava un
palco o una poltrona quale omaggio dovuto alla sua persona. Comprare un
biglietto per assistere allo spettacolo avrebbe rappresentato per lui una
menomazione del proprio prestigio. Il telefono, in quei giorni, squillava
continuamente e bisognava difendersi con molto tatto dagli assalti che
continuavano poi, ancora più insistenti, in strada.
Ricordo, quando mi capitava di uscire con mio padre, scene che si
ripetevano monotonamente. Cominciava il lustrascarpe situato sotto i
portici della Galleria Umberto: «mi fate avere un posticino per me e mia
moglie?», poi il tabaccaio dove mio padre comprava le sigarette: «la mia
famiglia ha tanto desiderio di ammirarvi, quando ce lo regalate un
palchetto?». E così, tutti quelli che incontravamo, fino al fattorino che
staccava il biglietto nella funicolare di Montesanto che ci riportava a
casa. Alla pressione diretta si aggiungeva quella indiretta che veniva dai
familiari e dagli amici più intimi: «ho promesso due posti all'avvocato
Tizio che ha difeso quella causa che ci stava a cuore... »; oppure:
«dobbiamo regalare un palco al giudice Sempronio perché è sempre utile
tenersi amico un magistrato... ». In genere, i portoghesi non si
limitavano semplicemente a chiedere ingressi di favore, ma pretendevano
che essi fossero per gli spettacoli diurni, per i festivi, proprio per
quegli spettacoli, insomma, sui quali si faceva più affidamento per
colmare le passività. A tavola si discuteva animatamente di quelle
richieste. Ricordo le sfuriate di mio padre contro quelle ipocrite
manifestazioni di sfruttamento. Quei suoi scatti rivelavano l'intimo
dramma dell'artista che, prodigando ogni sua energia, la sua intelligenza
e sensibilità al teatro in modo esclusivo e totale, viveva, tuttavia,
nella continua angoscia che ostacoli economici avessero potuto impedirgli
di continuare dignitosamente la sua opera di autore e di attore. La
precarietà economica lo turbava profondamente. Un giorno, mentre l'intera
famiglia era riunita a pranzo e mio padre si stava lasciando andare a uno
dei suoi consueti sfoghi conto i portoghesi, squillò il telefono e fui io
che andai a rispondere: «Sei tu bella bambina? Io sono un carissimo amico
del babbo, il dottor Caio. Si può sapere come si fa per andare ad ammirare
il grande artista?». La mia risposta arrivò prima ancora che potessi
riflettere sulle conseguenze: «L semplice, si va al botteghino del teatro
e si compra il biglietto». Tornata a tavola mia madre mi rimproverò
aspramente: «Cosa hai fatto! Quello è una altissima autorità! Si sarà
certamente offeso... ». Mio padre non profferi parola, si limitò invece,
soltanto, a rivolgermi uno sguardo, che era di approvazione e di
riconoscenza, che mi bastò.
LUCIANA VIVIANI
Raffaele Viviani: ricordi
Ho perduto mio padre da circa trent'anni e di lui mi è
rimasta una struggente nostalgia.
Nostalgia del suo meraviglioso sorriso, nostalgia delle interminabili sere
trascorse in teatro ad ascoltarlo, nostalgia dei suoi ritorni a casa dalle
tournée teatrali che erano sempre per tutti noi festa grande. L'ultima
volta che ha recitato i suoi versi è stato un tardo pomeriggio del
febbraio 1950. Eravamo soli nella sua camera da letto, dove era ormai
ammalato da tre mesi per non più riaversi. Morì un mese dopo.
Cominciò lentamente a dire con la sua voce piana, ma densa d'infinite
sonorità, e andò avanti per ore. Ogni tanto s'interrompeva e io, presente,
temendo di troncare un incanto che lo rendeva felice, gli suggerivo il
verso sfuggito alla sua memoria. Questo è accaduto più di una volta e lui
- «grazie Yvonne», e ha proseguito.
Non ho mai tentato di fermare nello scritto i miei ricordi, temendo di non
riuscire a rendere la pienezza delle infinite sensazioni che mi ha dato
l'invidiabile sorte di essere nata da lui. Ora, riordinando per questo
libro le cartelline che raccolgono le tante fotografie di lui uomo, di lui
artista, sono tentata di farlo, quasi per alleggerire la mia mente da
pensieri diventati nel tempo, ancor più dopo la morte di mio fratello
Vittorio, compressi e dolorosi.
In queste sere è in scena al Maschio Angioino Festa di Piedigrotta. È una
sagra popolare del 1919. Ho assistito a molte prove e vado ogni sera a
teatro come a un rito. È sempre e soltanto per ritrovare lui. E sono così
gelosa della sua creazione fantastica che soffro se ascolto una frase
modificata o aggiunta dall'attore, perché egli non lo avrebbe permesso
mai. Ho ritrovato ritratti nella mia memoria le situazioni, i versi, le
musiche, le posizioni teatrali. E mio ascolto della sua rappresentazione
si riferisce a me bambina di soli quattro anni quando Vittorio, un po' più
grande di me, impersonava il figlio della guardia nello spettacolo. Anche
noi, come tutti i figli d'arte, abbiamo vissuto da bambini l'avventura
teatrale. È una esperienza esaltante che si vive inconsciamente, ma che ti
dà una ricchezza che non si consuma mai perché il solo ricordo di quelle
ore lontane allevia le infinite e piatte situazioni quotidiane.
Abbiamo poi vissuto, ciascuno a suo modo, le inevitabili malinconie della
permanenza nei collegi. I nostri genitori viaggiavano e noi quattro non
potevamo essere affidati ai vecchi zii di mia madre.
Quando, nel settembre del 1912, Raffaele Viviani e Maria Di Maio si
sono sposati avevano ventiquattro e diciotto anni. Gli zii Gesualdo li
hanno ospitati. Era una casa molto modesta a un primo piano di vico II
Cisterna dell'Olio nel cuore della vecchia Napoli. In quella casa siamo
nati noi quattro e nel frastuono di quelle strade mio padre ha scritto il
suo teatro fino al 1926.
Mio padre, che era rimasto anche lui orfano di padre a soli dieci anni, si
era legato allo zio Gesualdo, tutore di sua moglie, con tenero affetto.
Aveva preso subito l'abitudine di consegnargli tutti i suoi guadagni e di
sottomettersi a delle strane regole. Quando recitava a Napoli era
costretto a recarsi subito a casa dopo il teatro perché gli zii lo
aspettavano per andare a letto, non avendogli mai consegnato le chiavi di
casa. I miei genitori per non dispiacerli non avevano mai forzato la loro
volontà. Nel 1926 lo zio gli annunziò per lettera che aveva avuto una
«combinazione» e gli aveva acquistato la casa al corso Vittorio Emanuele.
I miei genitori diventarono così proprietari e mio padre, che aveva ormai
trentotto anni e aveva sempre vissuto in bruttissime case o in camere
mobiliate durante il suo peregrinare, impazzi di gioia. Si improvvisarono
arredatori e trasformarono questa casa, in un vecchio palazzo umbertino
con i balconi sulla città, in una ridente e confortevole dimora.
Mio padre la volle bella e continuò per anni a pagare (come è testimoniato
nelle sue lettere a mia madre) il ferraio, il marmista, il mobiliere,
perché i mobili li ordinò pezzo per pezzo. La casa rappresentò per lui il
suo rifugio materiale e spirituale.
Mia madre per accudire noi già grandi era costretta a viaggiare solo
sporadicamente. Le lettere di mio padre sono tutte pervase dal sogno e dal
desiderio di fermarsi almeno per un po' nel suo giardino.
Pur essendo in viaggio per almeno undici mesi all'anno, mio padre ci dava
l'impressione di essere sempre con noi. Le sue comunicazioni
caratterizzavano le nostre giornate, anche due lettere in un sol giorno,
telegrammi per comunicare tempestivamente un avvenimento importante ma
anche per dire soltanto buon giorno. Le telefonate non passavano
inosservate né c'era allora la teleselezione. Spesso era costretto ad
attendere il suo turno in un malinconico ufficio postale, ma la gioia di
comunicare con mamma anche per soli tre minuti lo compensava e lo
ritemprava per nuove prove. Da una sua visita a Murano arrivarono a casa
due enormi casse: piatti, animali, anfore, un grande specchio con la sua
cifra. Da Firenze spedì a casa piatti, vasi farmacia e da una sua tournée
in Sardegna la casa fu invasa da cesti per tutti gli usi. Dopo tanti anni
i miei bambini ancora giocavano con questi grandi cesti di paglia.
A un suo carissimo amico fiorentino artigiano di pelle commissionò tante
cornici. Mio padre amò avere nel suo studio le testimonianze di
ammirazione alla sua arte. Primi fra tutti i suoi colleghi: Ettore
Petrolini, con il quale mantenne sempre un fraterno rapporto di reciproca
stima, Angelo Musco, Eduardo Scarpetta, Ermete Zacconi, Ruggeri, Mayol, il
grande comico francese.
Di Ettore Petrolini ricordo una bellissima giornata passata nella sua
villa a Castel Gandolfo. Cantò per noi accompagnandosi con la chitarra e
si lasciò andare a chiosare qualche collega dal tono «ufficiale». A
Onorato che gli domandò: - «Ma Ettore, a te non piace nessuno?», rispose:
- «Non è vero, a me piace Raffaele!». Quando Petrolini venne a recitare al
Fiorentini nell'inverno del 1931, mio padre era in alta Italia con la sua
compagnia, ma ci telefonò d'invitarlo a casa e riuscì ugualmente a essere
presente; il suo telegramma di benvenuto arrivò mentre eravamo a pranzo.
Ed Ettore s'intrattenne con noi fino all'ora di spettacolo e si mostrò
felice di constatare il benessere raggiunto dal suo amico e continuava a
dire: - «Quanto ferro battuto! quanti marmi!». Nell'estate ci siamo
incontrati ancora con Petrolini a Montecatini. Mio padre era al «Palazzo»,
il teatro vicino alla stazione. Ogni sera verso la fine del I atto c'era
il passaggio di un treno che disturbava l'azione. Quella sera Ettore venne
a teatro dove si rappresentava Il maestro di forgia. Mio padre
aspettò che il rumore finisse per continuare la sua battuta, era un finale
drammatico. Nell'intervallo Ettore salì in camerino a salutarlo e gli
disse: - «Come siamo diversi. Io avrei detto che anche il treno ci si
mette». Per Viviani la «quarta parete» era veramente un muro. Solo al
termine della rappresentazione egli si sentiva di nuovo nella folla. Non
l'ho mai sentito improvvisare ed evitava di proposito un applauso che gli
disturbasse un'atmosfera.
Guardo le fotografie di Siamo tutti fratelli, una trascrizione di
Viviani da So' muorto e m'hanno fatto turnà a nascere di Antonio
Petito, e vedo lui nelle vesti di Pulcinella, aereo, leggiadro, con i
piedi che sembrano sospesi nell'aria. Di quella prima genovese, 10 ottobre
1941, ricordo tutto. La sua ansia prima di entrare in scena, lui
sempre così sicuro... il bisogno di recarsi in chiesa per pregare, e lo
fece con tanto fervore. Non era sicuro di ricordare la parte a memoria, lo
infastidiva di dover recitare sotto la pesante maschera di cuoio nero; le
prove, lunghe e scrupolose come sempre, lo avevano stancato. Per questo
spettacolo si era impegnato anche economicamente. Scene di Cristini su
bozzetti di Paolo Ricci, costumi di Onorato e la regia di suo figlio
Vittorio.
Per la guerra le città erano già al buio e il pubblico non era molto
numeroso nei teatri. Mio padre doveva mantenere i suoi impegni e non
poteva sperare in aiuti da nessuna parte, lui che sovvenzioni non ne ha
mai avute. Lo spettacolo andò molto bene e la critica fu positiva, primo
fra tutti Enrico Bassani, uno dei pochi critici che ammirava tanto Viviani
da essergli amico. Dopo lo spettacolo ancora due ore in teatro per le
foto, che ora sono qui a testimoniare quell'indimenticabile sera. Tra gli
altri, un giovane entusiasta era fuori il camerino ad aspettare che mio
padre si struccasse. Gli feci compagnia e si presentò: Ivo Chiesa.
Simpatizzammo scoprendo che avevamo in comune l'amore per il teatro e lo
stesso nome di battesimo. Gli promisi che gli avrei spedito da Napoli
alcuni testi di Petito (allora introvabili); ricordo di averli cercati e
spero anche di aver mantenuto la promessa. È passato tanto tempo e di quel
breve incontro ho sempre serbato una dolce memoria.
Quella sera mio padre era Cicciariello, il giovane pescatore del suo
dramma I pescatori del 1924. Ero nel camerino del Teatro
Fiorentini, una sera emozionante come tante della nostra adolescenza.
L'arrivo frettoloso dell'amministratore annunzia la visita di una
personalità. Entra in camerino, seguito da una piccola corte e in
compagnia di un imberbe figliuolo. Alla presenza di mio padre disse con un
certo sussiego al suo ragazzo: - «Ti presento Raffaele Viviani, il maggior
esponente del folklore italiano!». Non avrebbe dovuto dire, secondo le
regole del galateo (allora abbastanza rispettato): - «Viviani, le presento
il mio figliuolo»? Ora capisco quanta degnazione c'era verso quest'artista
che dal nulla, faticosamente, era arrivato a distinguersi tra milioni
d'italiani.
Mi ero spesso domandata perché mio padre ostentasse quasi il suo titolo
onorifico. Solo dopo la sua morte ho potuto darmi una risposta, quando,
riordinando le sue carte, ho trovato la testimonianza di una lettera del
senatore Nicola Romeo, il quale gli comunicava in data 8 aprile 1931 il
suo disappunto per aver trovato grande difficoltà di fargli conferire
la nomina a Grande Ufficiale della Corona d'Italia: - «Indovinate chi vi è
contro? Napoli (e non posso esprimermi altrimenti), la città natale,
quella che dovrebbe piangere di gioia, non sente l'orgoglio del figlio che
si afferma nel mondo. Si è riscritto a Napoli di mandare informazioni
supplementari, per non dire di cambiarle». Forse mio padre, sentendosi
poco accettato per i suoi personaggi e i temi dei suoi lavori, sperava da
Grande Ufficiale di riuscire a conquistare quei signori che gli erano
sempre stati ostili.
YVONNE VIVIANI
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