I FESTIVAL DI NAPOLI La grande forza dei festival della canzone è,
ancora oggi, quella di saper creare un contatto immediato e
simultaneo con milioni di persone, attraverso la televisione e,
quando questa ancora non c'era, anche attraverso la radio. L'anno seguente il festival non si svolse "per difficoltà organizzative". Tornò nel 1954 e fu spostato a maggio, affinché non si accavallasse con gli spettacoli di Piedigrotta: stessa formula e prime contestazioni, perché alcuni autori, come già era avvenuto per Scitimmo, avevano aggirato il regolamento presentando una seconda canzone sotto altro nome. Fino al 1960 i festival si svolsero tra maggio e giugno; le case editrici napoletane riuscirono anche a ottenere dalla Rai, per qualche anno, una "Vetrina di Piedigrotta", costituita da una serie di trasmissioni radiofoniche per favorire il lancio delle nuove canzoni presentate nelle varie audizioni settembrine. Dal 1961 il festival tornò a svolgersi a settembre, anche perché le Piedigrotte oramai non si facevano più; le ultime tre edizioni si svolsero, invece, in luglio, per esigenze di programmazione della Rai. Per l'efficacia e la novità della sua formula il Festival di Napoli attirò l'interesse della grande industria editoriale e discografica del Nord. Anche l'attività degli editori napoletani cominciò a concentrarsi unicamente sul festival diventato quasi l'unico canale promozionale per la canzone napoletana. Ciò fu sicuramente un male perché mortificò la creatività degli autori, costretti a scrivere in pratica una sola canzone all'anno e a puntare su questa ogni possibilità di successo, contendendosi per di più i posti disponibili. Lo scontento era diffuso e spesso la rabbia degli esclusi riempiva le pagine dei giornali con le cronache delle loro reazioni. Eclatante fu l'episodio che vide protagonista lo scrittore Giuseppe Marotta, che schiaffeggiò in Galleria un membro della commissione giudicatrice. Nelle diciotto edizioni del Festival di Napoli, furono presentate - come sempre - canzoni belle e brutte, ma di questi circa quattrocento motivi se ne cantano ancora davvero pochi, anche perché alcuni brani, forse tra i più autentici e napoletani, non furono notati o non riuscirono a venir fuori dall'ambito locale. La formula festival ovviamente non dà - pur con i suoi strombazzamenti - garanzia di successo, come si nota anche per Sanremo, e - a mio parere - non è particolarmente adatta alla canzone napoletana, che ha bisogno di prendere, come un buon vino, forza e vigore nelle strade e nei vicoli di Napoli, prima di diffondersi eventualmente per il mondo. L'esigenza di catturare l'attenzione del pubblico in pochi minuti e quella di farsi comprendere dalle giurie dislocate in tutta Italia, formate da non napoletani, "annacquarono" sempre più le canzoni dei festival. I testi diventarono sempre più pieni di quei collaudati luoghi comuni vicini all'idea che, probabilmente, gli "italiani" si fanno di Napoli, e le musiche cercavano di essere sempre più in linea con le mode della musica leggera nazionale. Le canzoni dei festival inaugurarono quel fenomeno di banalizzazione e normalizzazione dell'immagine di Napoli gradita al mercato, che poi la televisione e anche certa letteratura avrebbero continuato a riproporre fino a oggi. I festival finirono, insomma, per togliere spontaneità alle composizioni e a costringerle, in un certo senso, entro binari obbligati. La canzone napoletana, che nel corso della sua storia si era fatta interprete di gran di sentimenti, grandi eventi come la guerra e l'emigrazione, ma anche di piccoli accadimenti, intimi e quotidiani, era rimasta imprigionata in una formula che rischiava di soffocarla. Una canzone d'occasione come Funiculì Funiculà, tanto per fare un esempio, scritta per l'inaugurazione della funicolare del Vesuvio, difficilmente avrebbe trovato posto in un festival, e i testi più poetici e originali, poi universalmente cantati, non sarebbero forse riusciti a colpire subito gli spettatori della gara televisiva. Sergio Bruni racconta che, quando nel 1971 la Rai ritirò all'ultimo momento le telecamere, impedendo per alcune denunce di brogli lo svolgimento del Festival, aveva aperto una bottiglia di spumante per festeggiare, insieme alla sua famiglia, la fine di una manifestazione che era diventata dannosa per la canzone napoletana. Dopo diciotto edizioni, il festival ebbe, quindi, una fine traumatica. Non c'erano più, in effetti, le condizioni artistiche, né quelle di convenienza commerciale, perché continuasse a svolgersi: gli artisti di nome che accettavano di parteciparvi erano sempre meno numerosi, le canzoni di livello sempre più basso, il pubblico televisivo in progressiva diminuzione. Il festival di Napoli aveva vissuto un momento di fulgore, forse fino agli inizi degli anni Sessanta, quando la canzone melodica era ancora in voga, quando si svolgevano contemporaneamente anche le Piedigrotte e la canzone napoletana furoreggiava nei locali da ballo. Le nuove mode musicali avevano finito, invece, per ricacciarla in un ambito sempre più locale, al quale mal si addiceva la formula da gran circo Barnum della canzone, che è propria dei festival (con tante scuse agli artisti circensi per il paragone). La canzone napoletana pagava un suo primo prezzo alla globalizzazione e il suo cammino da allora si sarebbe fatto sempre più difficile. Salvatore
Palomba, La Canzone
Napoletana
1953
- La prima canzone vincitrice fu «Desiderio ’e sole», scritta da
Tito Manlio, autore di «Anema e core», e Marcello Gigante; un
motivo lento, pieno di struggente sentimentalismo come voleva la
tradizione, portando al successo della Pizzi e da Franco Ricci. |
Copyright
(c) 2001 [Interviù]. Tutti i diritti riservati.
Web Master: G.C.G.