LA
POTENTE BADIA DELLA S.S. TRINITà
DI CAVA DE' TIRRENI (SA)In una verdeggiante valle
dalle mille sfumature di colori, ai piedi del monte Finestra, in un'oasi
di pace, agognata da chi la pace voglia ricercare, rifuggendo dalla
convulsa vita moderna, sotto un'immensa grotta, sorge l'Abbazia della
S.S.Trinità di Cava de' Tirreni, simbolo e maggior monumento di questa
città d'arte, vero museo all'aperto, elegante, antica e moderna al tempo
stesso. Nonostante la ricchezza dell'archivio cavense, non è possibile
stabilire l'anno preciso in cui S.Alferio Pappacarbone, di origine
longobarda, si ritirò nella grotta "Arsicia" (asciutta) per dare inizio
alla vita quasi millenaria della sua Badia. S.Alferio, già consigliere del
principe salernitano Guaimario IV, era stato da costui inviato in missione
in Francia fra il 1003 e il 1004. L'incontro con l'abate di Cluny, Oddone,
ne decise il nuovo destino e, dopo aver ricevuto dall'abate l'abito
monastico ed essersi fatto esperto nella nuova organizzazione monastica,
tornò in Italia a fondarvi la sua abbazia. Cluny, nell'anno mille, era un
vivaio di grandi abati, di pontefici e di santi e da tempo si era battuta
per una radicale riforma ecclesiastica, invocata dai fedeli. Una riforma
che eliminasse il corrotto e ignorante clero rurale che viveva con mogli
(preti di rito greco) e concubine (preti di rito latino), a carico delle
chiese; che espellesse dai monasteri i criminali che vi si annidavano e
che contenesse il riprovevole comportamento delle più alte gerarchie
ecclesiastiche. Con la Riforma di Cluny i grandi cenobi italo-greci, retti
in precedenza da un "igùmeno", divennero abbazie con a capo un abate.
Studi abbastanza recenti del Leone e del Vitolo (risalgono infatti ai
primi del 1900, nel IX centenario della fondazione della Badia) hanno
consentito, dopo aver confrontato le varie tappe della vita di S.Alferio,
di poter far risalire la data di fondazione della Badia intorno all'anno
1020, allorquando Alferio si ritirò nella grotta con il dichiarato
scopo di viverci da eremita e di morirci, come, in effetti, fece. Presto,
però, la fama della sua santità gli attirò discepoli e dovette
necessariamente pensare a costruire un piccolo monastero e sul ripiano
scosceso della grotta eresse una chiesa di discrete dimensioni (m. 28,70 x
9,50). Secondo un diploma del 1025, Alferio in quell'anno aveva già
costruito la sua chiesa e aveva cominciato a radunare una piccola comunità
che, a poco a poco, divenne sempre più grande. Era appena terminata la
chiesa allorquando il principe longobardo di Salerno, Guaimaro III e suo
figlio Guaimaro IV, con un diploma del 1025 gli fecero dono della zona
boschiva e delle terre coltivate - nel cui ambito era la grotta Arsicia -
e che avevano per confine il fiume Selano e due rigagnoli, suoi affluenti.
Questa concessione, di carattere feudale, fu la prima di una lunga serie
che, nel giro di circa due secoli, portarono all'acquisizione, da parte
del monastero, di un patrimonio immenso. I duchi normanni ampliarono tali
donazioni. Gisulfo II concesse la giurisdizione su tutto il territorio che
avrebbe, in seguito, formato la città di Cava. Nello stesso diploma i
principi di Salerno concessero alla nuova fondazione l'esenzione dalle
imposte e la libera designazione dell'abate da parte del predecessore o
per elezione da parte della comunità. Le ragioni che determinarono lo
sviluppo dell'Abbazia, fino a farle acquistare il carattere di una vera e
propria congregazione sono da riporsi nelle eccezionali personalità dei
primi abati, nell'aureola di santità che circondava le loro figure, nel
periodo di riforma ecclesiastica in cui sorse l'Abbazia, nel favore dei
Papi, dei Principi di Salerno e dei Re di Sicilia e nella solida
organizzazione burocratica e amministrativa data alla congregazione.
All'Abbazia furono affidati monasteri da riformare e da sottrarre
all'influsso dei monachesimo greco e ad essa fu ceduto il patronato tenuto
dai signori laici su chiese e monasteri e perfino i poveri offrirono i
loro poderi alla potente Abbazia per riceverne protezione. La
congregazione cavese, assolutamente indipendente sotto l'aspetto
amministrativo ma politicamente e giurisdizionalmente dipendente dai vari
sovrani succedutisi, era modellata, naturalmente, su quella di Cluny: era
retta da un solo abate, con la differenza che tutte le dipendenze, anche
se originariamente abbazie, diventavano monasteri, retti da un priore
nominato dall'abate ed erano tutte amministrate dall'Abbazia della S.S.
Trinità, costituendo con essa un'unica entità territoriale. Una bolla di
papa Alessandro III del 1169 enumera come dipendenze di Cava 24 monasteri,
97 chiese e due castelli, disseminati fra il territorio di Salerno, del
Cilento, della Lucania, della Calabria, Puglia e Sicilia. Le abbazie che
accettavano le consuetudini di Cava e rimanevano abbazie conservavano la
loro indipendenza, anche se popolate in un primo momento da monaci di
Cava, come Monreale in Sicilia, o rette da un abate venuto da Cava, come
la S.S.Trinità di Venosa. I monaci cavesi erano numerosi. S.Pietro
Pappacarbone diede l'abito a più di 3000 monaci che si dedicavano alle più
svariate attività: esercitavano il ministero pastorale nelle numerose
chiese e priorati dipendenti, trascrivevano codici , insegnavano,
reggevano ospizi e ospedali, esercitavano la carità aiutando i bisognosi.
Ligi al loro motto "Ora et labora" dovevano, poi, occuparsi
dell'amministrazione dell'immenso patrimonio consistente in terre, boschi,
allevamenti di ogni specie di animali domestici e della cura e
manutenzione di chiese e monasteri Erano proprietà dell'Abbazia sei
approdi sulla costa cilentana: il primo era quello di Santa Maria di Gulia
(l'odierno S.Marco di Castellabate), l'ultimo quello di San Matteo, alla
foce dello Alento, che rappresentavano il naturale sbocco di mercato dei
prodotti agricoli in eccedenza. Il duca normanno Ruggiero, figlio di
Roberto il Guiscardo (l'astuto), donò all'abate S. Pietro Pappacarbone il
porto di Vietri, con l'esenzione di dazi e da questo porto partivano le
famose tartane di proprietà dei benedettini che solcavano il mare verso
Oriente per commerciare nei porti levantini, agevolati dalle esenzioni
fiscali concesse anche dai re di Gerusalemme, probabilmente per la
presenza di monasteri benedettini in territorio palestinese. La stessa
costituzione dell'Ordine degli Spedalieri, fondato presso Gerusalemme nel
1020 da Gerardo Sasso, monaco di Scala, presso Amalfi, è da porsi in
relazione a tali vicende. L'Ordine si trasformò in quello dei Cavalieri di
Rodi e successivamente nel Sovrano Ordine di Malta. Per difendere le
popolazioni dalle incursioni saracene, ma anche i loro possedimenti dai
feudatari che, senza scrupolo alcuno, miravano ad appropriarsi dei loro
beni e perfino dei beni della Corona, e per proteggere il nucleo più
consistente delle loro terre nel Cilento, l'abate di Cava Costabile
Gentilcore costruì sul colle di Sant'Angelo, sovrastante il monastero e
l'approdo di Santa Maria di Gulia, un castello-fortezza cinto di poderose
mura (ampliato e rafforzato dal suo successore, Simeone) che fu chiamato,
in un primo momento, Castello di Sant'Angelo e poi, dal 1173 Castello
dell'Abate, in onore del suo promotore. All'occorrenza i monaci non
disdegnavano di lasciare il saio e indossare l'armatura per combattere il
nemico. Alle esenzioni fiscali già ottenute dall'Abbazia si aggiunsero
l'importante privilegio di Federico II di Svevia del 1221, che consentiva
alla comunità del monastero ed ai suoi sudditi cavesi il diritto di
usufruire delle stesse condizioni degli abitanti e delle terre del Regno -
dove si recavano per i loro commerci - nonché un successivo privilegio di
libertà di dimora e di transito "morando, eundo et redeundo ubique per
Regnum nostrum". Tali privilegi favorirono lo sviluppo di attività
economiche e commerciali. L'Abbazia con le sue tartane esportava in
Oriente i più svariati prodotti e specialmente le ceramiche, che la stessa
Abbazia produceva nelle sue fabbriche che possono essere considerate, a
ragione, le prime di quella meravigliosa ceramica vietrese giunta fino ai
giorni nostri Oltre ai bacini e alle patere destinati agli uffici
liturgici, esportavano boccali, contenitori di unguenti, brocche e boccali
invetriati e decorati con le tipiche spirali d'influenza mussulmana,
vasetti per la salagione di alici e di tonni, anfore e langelle per
contenere vino ed olio e le famose "rogagne" (ceramiche ad invetriatura
trasparente), scodelle per la mensa conventuale e piastrelle policrome
(come quelle che decorano il duomo di Amalfi), che andavano ad arricchire
gli ambienti e specialmente le numerose sale da bagno arabe. A queste
prime occupazioni dei monaci, ligi alla Regola di San Benedetto, si
aggiunse, in seguito, lo studio e la diffusione della musica e del canto
liturgico della Chiesa latina, chiamato "Canto Gregoriano", dal nome di
Carlo Magno, pure lui benedettino, che ne era stato il più attivo
organizzatore. Purtroppo a questo periodo di sviluppo del 1100-1200
successe un periodo in cui l'Abbazia visse solo di rendita e ciò si deve
prima di tutto al fatto che gli abati successivi non furono all'altezza
del compito loro assegnato. L'alone di santità dei primi abati era calato
Inoltre l'appoggio papale non fu sempre costante; anzi qualche volta fu in
pieno contrasto con l'Abbazia e interferì nelle elezioni degli abati. A
questo si aggiunge il gravoso peso fiscale richiesto dai sovrani per le
frequenti contese armate che annullavano la possibilità di altre
acquisizioni da parte della Badia e resero di difficile amministrazione i
beni già posseduti e in special modo i più lontani. A partire dal 1397
papa Bonifacio IX eresse il monastero cavese a vescovato con diocesi
corrispondente al territorio dell'Abbazia. Per effetto di questa bolla,
gli abati-vescovi che si succedettero "pro tempore" furono meno accorti
alle fortune economiche dell'Abbazia. La parabola calante del cenobio ebbe
il suo epilogo con la concessione di quest'ultimo in commenda.
L'amministrazione spirituale e temporale fu affidata ai vescovi,
dipendenti dal cardinale commendatario, al quale erano devolute tutte le
rendite. Tale regolamento, comune a tutte le congregazioni benedettine,
impedì il tentativo, da parte del monastero, di rientrare in possesso dei
beni perduti, in quanto i cardinali commendatari, per la loro posizione a
corte, erano costretti a vivere lontano dalla Badia e i vicari non
potevano occuparsi che dell'ordinaria amministrazione. Dopo un ultimo vano
sforzo dell'ultimo cardinale commendatario, Oliviero Carafa, per ridare
all'Abbazia la consistenza temporale perduta e riportare tra le antiche
mura quell'aureola di santità e di correttezza. che la corruzione dei
costumi aveva spazzato via, la Badia di Cava, nel 1497, con una bolla di
Alessandro VI, veniva incorporata nella Congregazione di S. Giustina di
Padova. I monaci cavesi non si sottomisero docilmente alla nuova gestione
ed anche il popolo di Cava fu in pieno fermento, specialmente quando
furono tolti dalla Curia Romana tutti i privilegi, fra cui le proprietà
migliori: il porto di Vietri e S.Arsenio nel Vallo di Diano. Sarebbe
troppo lungo parlare della vita dell'Abbazia dal 1513, anno in cui Leone X
ratificò l'atto di erezione della nuova diocesi, ai giorno nostri. Fra
tutti gli abati che si susseguirono merita una speciale menzione
D.Vittorino Manso di Aversa che insegnò per 20 anni filosofia e teologia
nelle varie case dell'Ordine; fu priore a Firenze e lasciò molte opere
scritte. A lui si deve la fondazione del famoso Archivio che volle
indipendente dalla biblioteca, allorché fu chiamato a reggere l'Abbazia
nel 1588, e a lui va il merito di aver trasferito nel proprio Archivio i
documenti donati dall'ultimo principe longobardo e dai principi e signori
normanni ai vari monasteri, una volta cenobi italo-greci. Suo merito
particolare fu l'aver rivendicato l'autonomia e la giurisdizione
dell'Abbazia di fronte alle vessazioni dei vescovi, confermando i
privilegi degli abati soggetti solo alla Santa Sede. L'archivio contiene
più di 15.000 pergamene e una quantità enorme di documenti datati dal 792
al 1065 il cui testo integrale è pubblicato nei volumi del Codex
Diplomaticus Cavensis. Tra quelli più importanti vanno citati i Codex
Legum Longobardorum del sec XI e la Bibbia Visigotica del IX sec. La
biblioteca, staccata dall'Archivio, custodisce più di 50.000 volumi, con
numerosi incunaboli e importantissime edizioni cinquecentesche. L'Abbazia
subì diverse calamità naturali, come il terremoto del 1631, pestilenze e
carestie, alluvioni e le usurpazioni dei feudatari Nel 1640 un grande
masso precipitò sulla cappella di S.Felicita; subì ingenti furti, ma
questi tragici avvenimenti non turbarono eccessivamente la serenità dei
monaci guidati dai loro abati, ognuno dei quali aggiunse lustro
all'Abbazia. La basilica, costruita nel sec. XI dall'abate S:Pietro, e
completamente restaurata nel sec. XVIII su disegno di Giovanni del Gaiso,
conserva, dell'antica struttura, solo l'ambone cosmatesco del sec XII e la
Cappella dei S.S. Padri, i primi quattro abati, diventati Santi.
Interessantissima è la cripta del sec. XII su colonne del sec. IX-X e
pilastri cilindrici in muratura, che raccoglie il Cimitero Longobardo, le
cui pareti conservano avanzi di affreschi di Andrea Sabatini. Una vasta
sala del sec. XII. è adibita ad un ben allestito Museo che, fra i suoi
molti interessanti tesori, racchiude una Collezione completa di monete
delle Zecche Normanne di Salerno. I padri benedettini continuano oggi la
loro opera di irradiazione spirituale e culturale attraverso l'educazione
dei giovani nell'annesso collegio e nelle scuole. Danno accoglienza ad
ospiti e pellegrini, custodiscono l'archivio e la biblioteca, sono
impegnati nella formazione del clero e nel servizio ministeriale nella
diocesi abbaziale e in moltissime attività, in piena osservanza alla
regola del loro fondatore.
Renata Ricci Pisaturo |
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