VIETRI SUL MARE:
UN MUSEO "EN PLEIN AIR"
Nel piccolo borgo di pescatori, bagnato
dall’azzurro cobalto del mare e inondato dagli infuocati raggi del sole,
nel borgo che fu l’etrusca Marcina e la Veteri medievale, ebbe origine la
produzione della ceramica vietrese. Qualcuno fa risalire questa origine
addirittura agli Etruschi, quel misterioso popolo di casa nostra, diverso
da tutti gli altri popoli italici, scomparso lasciando dietro di sé le
enigmatiche testimonianze di una splendida civiltà. Essi, si sa, erano
abilissimi nell’arte di lavorare la creta. Ne fanno testimonianza le loro
necropoli che hanno dato alla luce un tesoro immenso di buccheri,
lucerne, ritratti, gruppi scolpiti, statuette funerarie.
Ci piace immaginare che,
intraprendenti e industriosi com’erano, sempre tesi ad intessere rapporti
e a stringere intese ed alleanze anche fuori dell’Italia, a partire dall’VIII
secolo a C. giunti nell’Italia Meridionale, videro che l’entroterra
collinoso di quel lembo di costa sulla quale erano approdati era
costituito da un materiale povero ma preziosissimo: la morbida argilla. Il
luogo, poi, offriva un altro vantaggio: quello di trovarsi in una rada
riparata dai venti nella quale sfociava un piccolo fiume: il Bonea.
Volendo sfruttare questa ricchezza del suolo, in gran numero si fermarono
lì e vi fondarono una città che chiamarono Marcina. Fu questo il primo
nome di Vietri. Iniziata la lavorazione della creta con piccoli,
rudimentali forni a legna accanto alle loro case, in breve incominciarono
il commercio dei loro manufatti a livello locale.
L’argilla, si sa, è stata la
prima materia plasmata dall’uomo, legata com’era, ai suoi bisogni
primordiali di bere, di nutrirsi, di lavarsi, di cuocere il cibo. Allorché
l’uomo si accorse che i piccoli recipienti da lui modellati e abbandonati
per terra si erano induriti col calore solare ma che erano soggetti a
rompersi, intuì che ne avrebbe potuto migliorare la consistenza
esponendoli al fuoco. Nacque così per pura casualità, la terracotta.
Gli Etruschi avevano appreso
dai coloni greci l’arte di lavorare la creta ma questi l’avevano usata
come “arte minore”. Di semplice terracotta erano i primi, rudimentali
vasellami e gli oggetti votivi con i quali essi, lasciata la loro patria
di origine, arricchirono i piccoli santuari e le loro tombe nei siti della
loro colonizzazione. E di terracotta furono le loro prime divinità, come
la Hera Argiva di Paestum e di Elea e le prime statue dell’arcaismo greco.
Particolarmente importanti
furono i rapporti che essi instaurarono con Pithekussa (l’odierna Ischia)
che fu la prima colonia greca fondata dagli Eubei nel golfo di Napoli.
L’isola era ricca di argilla e i coloni avevano sfruttato immediatamente
questa ricchezza dando vita al commercio con la vicina terraferma. Essi
misero all’isola il nome di Pithekussa da “pithos”,
vaso. Marcina divenne in breve la base di commercio e il porto dal quale
partivano alla volta degli altri approdi del Tirreno le loro piccole,
agili navi.
Anche con i Romani la
ceramica locale ebbe un notevole sviluppo, come lo attestano le scoperte
nel golfo di Salerno (Salernum) ma a questo periodo fulgido seguì la
decadenza dovuta alla discesa dei barbari del Nord Europa. E se i
Visigoti di Alarico nel 410 si arrestarono alle rive del Sele in
Campania, per la malaria, non fu così per i Vandali di Genserico che,
alcuni decenni più tardi, dall’Africa passarono sulle coste sicule, indi
su quelle calabre e lucane e, secondo la tradizionale storiografia,
distrussero anche Marcina radendola al suolo.
Ma quell’arte senza tempo,
nata dai quattro elementi cosmici: terra, acqua, aria, fuoco e che più di
ogni altra è penetrata nel contesto quotidiano oltrepassando quella che in
origine era la sua semplice funzionalità, risorse nel Medio Evo nello
stesso luogo che aveva visto il fiorire di Marcina e nacque un nuovo
insediamento col nome latino di locus Veteri
e in questo “luogo Vietri” che già presuppone nel nome la preesistenza di
un’antica città, la ceramica rinacque e sopravvisse con il suo divenire
costante, anche ai materiali più pregiati, tutti sottoposti all’usura del
tempo.
Ogni secolo, ogni dominazione
ha dato la sua impronta alla ceramica. Se gli Etruschi furono molto
estrosi nelle loro decorazioni, se i Romani fecero assurgere quest’arte al
massimo dello splendore, i primi simboli della fede nell’arte cristiana,
invece, (lucerne e statuette), furono di scarso valore artistico.
Gli arabi apportarono i loro
disegni, chiamati appunto “arabeschi”, caratterizzati da foglie di acanto
arricciate e da spirali. Si deve all’esperienza degli ebrei che
risiedevano a Salerno la scoperta dell’invetriatura, ampiamente usata
nella produzione dei vasi farmaceutici della famosa “Scuola Medica
Salernitana”. Infatti il vasellame di terracotta presentò fin dall’inizio
un grosso inconveniente: la porosità, che rendeva gli oggetti permeabili.
Con l’invetriatura, ossia la sovrapposizione all’argilla di un
rivestimento vitreo ottenuto con la fusione del silice ricavato dall’arena
e combinato con l’ossido di piombo, i manufatti uscirono dalle fornaci in
tutta la loro bellezza, compatti e brillanti ed in seguito vennero
decorati con vernici a base di ossidi metallici. Come riferisce il
Donatone, già sotto il principato longobardo e la successiva dominazione
normanna esisteva l’invetriatura e una produzione ceramica ampiamente
esercitata nel salernitano.
Nella produzione ceramica del
salernitano un ruolo importante negli interscambi sia culturali che
commerciali con il Medio Oriente sembra sia stato favorito dall’attività
marinara di Amalfi che aveva punti di appoggio a Gerusalemme (vedi S.
Maria della Latina e le origini dell’ordine degli Spedalieri, trasformato
poi in Ordine di Malta) dal porto di Vietri che la Badia di Cava
utilizzava per i propri traffici. Le “tartane”,
dal nome portoghese “tartana” (grosse barche da carico e da pesca a vela
latina) di proprietà dei benedettini, partivano dal porto di Vietri
cariche di vasi per la salagione dei tonni, di anfore da vino e da olio,
di bacini per l’ufficio liturgico e di vasi per le spezie. Era un
vasellame semplice quello dei benedettini, spesso monocromo e con semplici
decorazioni a spirali o d’ispirazione araba.
I periodi Romanico e Gotico
si servirono della ceramica per decorazioni di portali e finestre ma si
deve arrivare al 1400 perché la ceramica raggiunga il suo massimo
splendore e divenga artistica. E’ alla cittadina italiana di Faenza che
spetta l’onore di aver dato il nome al prodotto ceramico destinato al più
brillante sviluppo nel mondo occidentale e che improntò tutto il
Rinascimento italiano. La maiolica prodotta a Faenza era una terraglia
tenera ricoperta da uno strato di smalto stannifero, particolarmente
adatto a ricevere un ornato dipinto con pigmenti ricavati da ossidi di
metallo e fissato dalla cottura. Questa speciale maiolica venne chiamata
“faenza” termine che si trova con
alcune varianti ortografiche in tutte le lingue europee (faiance-fayance-favence
ecc.).
In realtà l’uso dello smalto stannifero,
che risale alle antiche epoche babilonesi, era certamente conosciuto nel
basso Medioevo da cui si diffuse, a partire dal sec. XVIII, tramite i
conquistatori arabi, attraverso l’Africa del Nord, la Sicilia, la Spagna
fino ad estendersi in tutto il bacino del Mediterraneo. L’etimologia del
termine “maiolica” sembra sia da
ricercarsi nella parola “Maiorca” perché già nel Cinquecento maioliche di
smalto brillante venivano importate in Italia da Valencia, in Spagna,
tramite i mercanti di Maiorca.
La seconda metà del Quattrocento vede
fiorire una nuova epoca, quella improntata all’opera originale di Luca
della Robbia e dei suoi discendenti. Pur reputandola opera di scultura,
non si può dimenticare che la sua produzione fa parte anche dell’arte
della ceramica. E’ attribuito a Luca della Robbia l’uso dello smalto
stannifero nelle maioliche. artistiche. Le fabbriche di Faenza, di Deruta,
di Pesaro e Urbino, di Venezia ecc. costituirono l’età aurea della
ceramica italiana che occupò anche la prima metà del Cinquecento.
In questo secolo a Vietri incominciarono
ad installarsi nuove “faenzere” e
se la produzione non era artistica, limitandosi al vasellame ed utensili
vari, era, tuttavia, molto abbondante per il gran numero di ceramisti che
aprirono le loro botteghe in quella che era divenuta “Veteri”, con il
nuovo nome. Il primo “maestro di cotto” vietrese finora conosciuto
risulta essere, nella seconda metà del Quattrocento, Angelillo Loffredo,
capostipite di una famiglia di operatori di ceramica che in Vietri, per
ben quattro secoli esplicarono la loro attività. Ad essi fecero seguito,
nel Cinquecento i Cassetta, i Carola, i Pizzicara, i Mazzeo Di Stasio,
quest’ultimo noto per la i famosi “albarelli”,
vasi per i farmaci e per le spezie, produzione tipicamente vietrese. Il
nome è dovuto alla loro forma paragonabile ad un tronco d’albero.
Nel Seicento compaiono le prime
mattonelle e i primi pannelli votivi. Questa evoluzione si deve
all’influenza degli artigiani abruzzesi e, soprattutto a quella dei
maestri di Castelli d’Abruzzo, per merito dei quali anche a Vietri si
produssero i “bianchi” ossia
piatti e stoviglie di maiolica bianca. Altra tipica lavorazione vietrese
di questo secolo sono le “rogagne”,
stoviglie ad invetriatura trasparente, i “boccali
“, le “langelle”, (grosse
giare), le “riggiole” (piastrelle),
mentre nelle decorazioni incomincia ad entrare il paesaggio. La ceramica
vietrese ormai è affermata
La maiolica settecentesca presenta,
ovviamente, per la vicinanza alla capitale, strette concordanze con quella
napoletana, risorta nel 1740 per volere di Carlo di Borbone. Il Settecento
fu un secolo di splendore per la celebre porcellana la cui fabbrica fu
impiantata dal re , nel 1743, nel parco della reggia di Capodimonte e che
dalla reggia prese il nome.
Nell’Ottocento la ceramica vietrese, pur
mantenendo la produzione di piatti, stoviglie ed oggetti vascolari,
reagisce al contraccolpo della diffusione dei prodotti di terraglia
imponendosi nel settore delle riggiole,
gareggiando con la consolidata
imprenditoria napoletana.
Nel primo ventennio del XX secolo essa era
in piene stasi creativa: le forme e i decori ristagnavano nella loro
ripetività, non esprimevano nulla di nuovo.
La rinascita arrivò da un gruppo di
artisti tedeschi provenienti dalla Scuola di Arti e Mestieri di Stoccarda,
i quali, ai primi segni dell’avvento del nazismo, si erano rifugiati a
Vietri rimanendo soggiogati dalla bellezza della marina e dall’ospitalità
di quell’umile popolo di artigiani e pescatori. Sulla scia del più grande
di essi, Riccardo Dölker, si misero a lavorare gomito a gomito con i Pinto,
gli Avallone, i Della Monica, i D’Amico nelle loro faenzere,
impadronendosi del mestiere e dando vita a quello che viene chiamato “il
periodo tedesco”.
Amanti della natura che li circondava, ne
immortalarono il paesaggio e la gente del popolo; riscoprirono i miti
della terra delle sirene e le fiabe del mondo classico; decori e
rappresentazioni quasi tratteggiate dalla mano di un bambino; tenere
figure, piante, animali esotici, “ciucci” che danzano e suonano,
l’asinello verde, creato dal Dölker nel 1923, che è diventato il simbolo
universale di Vietri. Astri sfolgoranti, le barche, i pescatori, le
conchiglie e le stelle marine, le popolane con i figli al petto, i
contadini che arano e vendemmiano: tutto un mondo affascinante che esce
dal suo immobilismo, che ha moto, ritmo, anima, espressività.
Una vera rivoluzione per le ceramica
vietrese che in un primo momento venne snobbata dai vecchi faenzari, ma
che affascinò le giovani leve che subito la imitarono apportando ognuno il
suo estro e facendo della ceramica, col nuovo messaggio, un’arte senza
tempo che risorge come la mitica araba fenice, dalle sue ceneri.
Nel 1951 giunge a Vietri un architetto
torinese, allievo ribelle di Wright, Paolo Soleri. Affascinato anche lui
dal luogo, decide di fermarsi e, volendo fare nuove esperienze, vi
soggiorna per apprendere l’arte della ceramica. Dall’incontro con un
giovane ceramista, Vincenzo Solimene, desideroso di lasciare la fabbrica
paterna e di mettersi in proprio per dare un impulso nuovo e nuove forme
alla ceramica dopo i duri anni della seconda guerra mondiale, nasce un
fortunato binomio, mente e azione, che avrebbe fatto conoscere in breve la
ceramica vietrese al mondo intero.
E’ di Soleri il progetto di quel
prodigioso monumento dell’architettura contemporanea che è la nuova
fabbrica di Solimene, che svetta con le sue torri e le sue sfavillanti
piastrelle sull’incrocio della nazionale Salerno-Cava. Solimene e tutti i
grandi artisti dell’immediato dopoguerra hanno fatto risorgere la ceramica
con nuovi connotati, nuove immagini, fino ad arrivare al “design
ceramico”, le cui forme e il loro significato sono immediatamente
percettibili: una ceramica parlante.
Oggi Vietri
è un museo “en plein air ”. Arrampicato alla montagna con le sue case che,
come un magico presepe, ridono al sole e al mare, è una sinfonia di colori
per le esposizioni delle variopinte ceramiche di tutti i tipi nelle
centinaia di botteghe grandi e piccole. Le stradine tortuose ogni tanto
mostrano slarghi, piazzette, giardini fioriti, palazzi gentilizi, il tutto
dominato dalle cupole maiolicate e dai campanili delle chiese e, su tutte,
la cupola della chiesa di San Giovanni Battista, col suo campanile
ottagonale, che è divenuta l’emblema oleografico del paese.
Renata Ricci Pisaturo |
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