Pompei - scavi archeologici
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La storia di Pompei inizia verso la fine del II millennio a. C., quando le popolazioni italiche della Campania centro-meridionale, gli Opici, occuparono l'estremità di un'antichissima colata lavica che, dalle pendici meridionali del Vesuvio, si protendeva verso il mare. Questo pianoro dalle pareti scoscese, circondato su due lati dal fiume Sarno e situato vicino alla costa, si presentava ai suoi primi abitanti come un luogo ottimale per l'insediamento: poteva essere facilmente difeso, l'acqua non mancava e l'attività preistorica del vulcano aveva reso fertili le terre circostanti. Inoltre dal pianoro di Pompei si dominava quasi tutta la costa del Golfo di Napoli e si poteva controllare la foce del fiume, punto di arrivo al mare delle vie e dei traffici provenienti dalla pianura interna. Di questo primo abitato non sappiamo praticamente nulla, poiché gli strati più antichi sotto le case della città romana non sono stati quasi mai raggiunti dalle ricerche archeologiche. Tutto quello che ci rimane è un nucleo di frammenti ceramici raccolti in vari punti della città. Molto tempo dopo, nel VI secolo a. C., avvenne la prima grande trasformazione dell'antico abitato. Tutto il pianoro venne cinto da un muro di fortificazione e furono costruiti per la prima volta i templi più antichi della città: il tempio di Apollo e il tempio dorico. Nonostante sia stata accertata già in quest'epoca la presenza di imponenti edifici pubblici, ampie porzioni dello spazio racchiuso dalle mura non furono edificate e probabilmente utilizzate per l'agricoltura o per l'allevamento. L'approdo presso la foce del fiume aveva intanto favorito la nascita di un mercato, dove si concentrarono le attività commerciali tra le genti italiche e le popolazioni greche ed etrusche della regione. Alla fine del V secolo a. C. Cuma e Capua, le due "capitali" della Campania, furono conquistate dai Sanniti, un popolo italico che proveniva dalle zone interne dell'appennino abruzzese e molisano, attirato dalle fertili terre vicine alla costa. L'ondata degli invasori investì probabilmente anche il piccolo centro di Pompei, ma la struttura dell'abitato restò sostanzialmente immutata. L'ultima fase della storia della città inizia con il II secolo a C., quando Roma concluse felicemente la seconda guerra contro Cartagine e consolidò il suo potere sulle città campane. Pompei si abbellì con edifici, sia pubblici sia privati, simili a quelli che si trovavano nelle città latine e a Roma stessa. Nell'80 a. C. il dittatore romano Silla conquistò militarmente Pompei dopo un lungo assedio e vi fondò una colonia. Da questo momento in poi i magistrati sannitici (meddices) vennero soppressi e la città fu retta da un senato di circa 100 membri (ordo) da due edili (magistrati addetti alla manutenzione dei monumenti e delle strade della città) e da due duoviri (i sommi magistrati a cui era affidato il potere esecutivo). Nel 62 d. C. un disastroso terremoto si abbatté sulle città del Golfo di Napoli danneggiando gravemente anche Pompei. Nerone, allora imperatore, si impegnò personalmente nella ricostruzione delle città colpite dal sisma. Si trattava però dell'inizio della fine. Alla prima grande scossa ne seguirono altre di minore entità, ma con frequenza sempre più intensa. Molte case ed edifici pubblici erano ancora in riparazione la fatidica notte del 24 Agosto 79.

ORIGINI E STORIA

Pompei ha origini antiche quanto quelle di Roma: infatti la «gens pompeia» proveniente dagli Oschi, uno dei primi popoli italici, nell’VIII secolo a.C., fondò e diede il nome al primo aggregato urbano. Luogo di passaggio obbligato tra il nord ed il sud, tra il mare e le interne ricche vallate, ben presto Pompei diventa importante nodo viario e portuale e, pertanto, ambita preda per i potenti stati confinanti. Primo a sottomettere Pompei è lo Stato greco di Cuma. A questo, solo per il periodo tra il 525 e il 474 a.C., viene sottratta dagli Etruschi in piena espansione. Sul finire del quinto secolo è conquistata dai Sanniti che dalla zona appenninica di Isernia dilagano prepotentemente verso il mare Tirreno. Nel 310 a.C. anche i Sanniti vengono sconfitti dai romani e, Pompei, è consociata al nuovo Stato. Ribellatasi con la Lega Italica nell’89 a.C., viene espugnata da Silla, e pur salvandosi dalla distruzione, perde ogni residua autonomia divenendo «Colonia Veneria Cornelia P.» in onore del conquistatore. In questi seicento anni ogni popolo invasore trapianta i propri costumi e la propria arte a Pompei, soprattutto i Sanniti di cui restano, dopo quattro secoli di progressiva romanizzazione, impronte rilevanti nelle costruzioni e nell’arte.

LA PRIMA TRAGEDIA E LA FINE

Nonostante tante travolgenti vicissitudini politiche, Pompei continuò incessantemente il suo sviluppo da modesto centro agricolo a importante nodo industriale e commerciale. La prima vera grande sciagura sopravviene con il terribile terremoto del 62 d.C., che riduce la città a un cumulo di macerie. Solo l’indomita tenacia e la capacità dei cittadini superstiti riescono ben presto a riattivare le attività industriali, commerciali ed a ricostruire la città semidistrutta. Già stanno provvedendo ad ultimare e ad ampliare i templi quando improvvisa sopraggiunge la seconda e irreparabile sciagura: il Vesuvio, da secoli considerato un vulcano spento e quindi ricco di vigneti e di ville rustiche e di residenze sontuose, il 24 agosto (per i naturalisti il 24 novembre) del 79 d.C., poco dopo mezzogiorno, si ridesta improvviso ed esplode con una potenza inesorabilmente distruttrice. Plinio il Giovane, da Miseno, è testimone dello spaventoso spettacolo «il cui aspetto e forma nessun albero può rappresentare meglio di un pino»; ne dà una descrizione impressionante scrivendo anche le vicissitudini e la fine tragica dello zio (Plinio il Vecchio) che, trascinato dalla passione scientifica, accorre con una nave ad osservare da vicino lo spaventoso fenomeno e muore per soccorrere e rincuorare l’amico Pomponiano. Rapidamente sulle fiamme che salgono altissime si distende una immensa e nera nuvola che oscura il sole. Un diluvio di lapilli e scorie incandescenti si riversa su Pompei. Crollano mura e tetti e poi un’ondata di cenere mista ad acqua, cancella ogni forma di vita. Nel buio continuo la scena apocalittica è esaltata dai fulmini, terremoti e maremoti; i pochi superstiti che cercano scampo verso Stabia e Nocera vengono raggiunti e uccisi dai gas velenosi che si propagano ovunque. Questo inferno dura tre giorni e poi tutto è silenzio. Una coltre di morte, con cinque o sei metri di spessore, si stende da Ercolano a Stabia.

IL RISVEGLIO DOPO DICIANNOVE SECOLI

Il Vesuvio rimarrà desto per secoli e secoli sino ai giorni nostri; le altre città saranno ricostruite più o meno nello stesso posto, ma Pompei non risorge più quasi per duemila anni. La gente teme il terribile sortilegio incombente sul luogo. Sciacalli e cercatori di tesori trafugano per quanto possibile i resti ancora affioranti, poi Pompei viene dimenticata e se ne perde ogni traccia. Mille-seicento anni passano prima che se ne incontrino le prima vestigia e altri centocinquanta anni perché si abbia la sensazione della scoperta della città. Iniziano così gli scavi sotto i Borboni, ma solo per depredare la città delle opere più interessanti, opere che ben presto formano il grande Museo Nazionale di Napoli. Ai primi dell’Ottocento, scavi ancora affrettati mettono in luce il Foro riducendolo a poco più di un cumulo di rovine. L’eccezionale stato di conservazione viene in parte recuperato con Giuseppe Fiorelli nel 1860. Questi dà inizio a scavi sistematici e accorti ed è il primo a rilevare le impronte colando il gesso nello spazio lasciato dalle sostanze organiche dissoltesi nel lapillo compatto; con questo sistema riprendono forma i corpi degli uomini e degli animali, di piante, di oggetti polverizzatisi millenovecento anni fa. Nei decenni che seguono, l’opera di restauro e di ripristino raggiunge livelli eccezionali e sin dal 1909, con Vittorio Spinazzola, gli edifici sono ripristinati dal tetto alle fondamenta ed ogni cosa, salvatasi per tanti secoli sotto il lapillo, ritorna alla luce. Questo tipo di scavo sempre più perfetto prosegue nella città ancora non scoperta (circa il 25%) e così Pompei, in questi ultimi anni, sembra risorgere miracolosamente, quasi si ridestasse dopo un sonno di diciannove secoli, dove ai vecchi abitanti operosi e appassionati ci siamo sostituiti noi frettolosi visitatori.

LA CITTÀ

Pompei nasce sull’estremità di un’antica colata lavica alta 40 metri, sul mare e sulla foce del fiume Sarno allora molto più vicini alla città. Il primo centro, prevalentemente agricolo, corrisponde all’attuale zona intorno al Foro. Il rinnovamento e l’espansione ha inizio ben presto per mano dei Greci (e per breve periodo anche degli Etruschi) che iniziano un nuovo Foro, cioè il Foro triangolare, e continuano più o meno ordinatamente il tracciato viario. La massima espansione è raggiunta con i Sanniti sì che, all’intervento dei Romani, le poderose mura hanno già il loro definitivo sviluppo di tre chilometri limitanti un centro urbano di 66 ettari. Pompei sannitica alla fine del quarto secolo è già una città considerevole, superiore alle altre vicine ed all’ancor modesta Neapolis; è un centro destinato a superare Cuma, ma l’ingresso nella sfera politica romana rallenta ogni ulteriore espansione. Infatti nei 350 anni che seguono il tessuto urbanistico non viene alterato e il continuo rinnovamento s’innesta perfettamente nella città sannitica. L’intervento di Roma imperiale si accentra sui lavori di sistemazione e aggiornamento: vengono creati alti marciapiedi (con passaggi su grosse pietre sporgenti poiché le strade sono prive di fogne); il traffico viene regolato da una razionale disciplina che determina zone riservate ai soli pedoni (esempio: il Foro) e zone con accessi controllati (esempio: l’Anfiteatro); i bagni pubblici (Terme) sono incrementati e dislocati sui tre nodi di maggior richiesta; i centri cittadini sono integrati e potenziati per tre distinte funzioni sociali. La città sin dai tempi dei Sanniti era divisa in nove zone da due arterie longitudinali (decumani) e due arterie trasversali (cardini); ogni zona o regione corrispondeva all’incirca ad un quartiere con proprie feste rionali, programmi elettorali e caratteristiche economiche e commerciali. Pressò le porte cittadine e attorno al Foro sorgevano alberghi («Hospitia») e rimesse per gli animali («stabula»); sulle vie principali abbondavano osterie («cauponae») e gli antenati dei bar («thermopolia»). Ogni edificio aveva la propria cisterna alimentata dai tetti a compluvio, Roma costruì una deviazione dell’acquedotto augusteo del Senno e l’acqua venne distribuita alle terme, alle fontane pubbliche e alle abitazioni più ricche. Poche erano le fognature e quasi tutte serventi le latrine pubbliche; le abitazioni si servivano di singoli pozzi assorbenti. Pompei aveva circa 20.000 abitanti tra numerosi mercanti, liberti e schiavi, (di origine campana, greca e asiatica) e meno numerose famiglie patrizie (di origine sannitica o di immigrazione romana). Il ceto mercantile andava dilagando sempre più nella città a tal punto che le vecchie residenze si stringevano o scomparivano del tutto invase da nuovi negozi e industrie; come pure i nuovi arricchiti adattavano a ricche residenze le severe case sannitiche, spesso unendo anche due o tre vecchi alloggi. Negli ultimi anni, con la "pace augustea" e il decadimento di ogni necessità difensiva, le costruzioni iniziano ad invadere e a scavalcare le possenti mura. Pompei era governata da due reggenti («duoviri») in carica per cinque anni. Collaboratori erano i due «aediles» (preposti all’igiene, ai pubblici spettacoli, al mercato ed al vettovagliamento della città) e il consiglio supremo ordo decurionum») formato da cento pompeiani eletti per meriti speciali. Tutte te notizie interessanti la vita cittadina come elezioni, spettacoli e annunci economici, venivano reclamizzate da apposite scritte e disegni eseguiti da esperti «scriptores» sulle pareti di tutti gli edifici. Ben più numerose troviamo le scritte graffite sui muri; questi ultimi appaiono come un interminabile quaderno d’appunti dove tutti scrivono: bottegai; innamorati; studenti; tifosi sportivi; turisti di quei tempi; ed anche lenoni e lestofanti. E una marea di rapidi appunti con i quali centinaia di creature sembrano ancora parlare con noi di comuni problemi di vita quotidiana in una lingua di duemila anni fa.

LA CASA IDEALE

Pompei offre ancora un tesoro eccezionale per la storia dell’umanità: la casa. Infatti troviamo un’antologia ricchissima e preziosissima della «domus», cioè della casa unifamiliare, che va dal IV secolo a.C. al I secolo d.C. Lo schema base è fissato dai Sanniti evidentemente quale prodotto di lunghe esperienze precedenti. La «domus italica» viene ad avere una corona di servizi attorno ad un asse generato da spazi rigidamente calibrati e concatenati tra toro. Pertanto i locali necessari per le esigenze prevalentemente fisiche, come camere, servizi igienici, servizi di cucina, pranzo, ecc., si snodano ai lati della serie di spazi destinati allo sviluppo della vita culturale e sociale della famiglia. Questi spazi si sviluppano quasi totalmente al coperto atrium») o quasi totalmente allo scoperto peristilium»); tra l’atrio e il peristilio s’inserisce l’ambiente più sacro alla famiglia: il «Tablinum». Ogni locale attorno prende aria e luce solo dai due grandi spazi centrali, raramente dall’esterno. Lo schema è tanto valido che i Romani non lo variano per centinaia di anni. Il loro intervento si limita a decorare fastosamente e ad ampliare la domus con nuovi servizi. L’atrio spesso è arricchito da quattro colonne (atrio tetrastilo o corinzio); il giardino all’aperto si adorna di fontane, statue, ninfei. Si aggiungono: locali di riposo e belvedere exedrae, diaetae»); quartieri riservati alle donne gynaeceum»), alla servitù; bagni completi come terme private balneum»); dilagano sopraelevazioni per guadagnare camere e servizi.

TECNICA ED ARTE

Gli stili architettonici impiegati negli edifici sono quelli classici, individuabili per i caratteristici capitelli: dorico (a forma anulare senza decorazioni); ionico (decorato e con grandi volute agli angoli); corinzio (decorato da alte foglie di acanto); composito (fusione del corinzio con lo ionico) che nelle costruzioni pompeiane assumono anche caratteristiche proprie radicate soprattutto nella tradizione sannitica. I tipi costruttivi pure si distinguono nettamente nelle varie epoche denunciando così le date d’inizio e degli ampliamenti o dei rifacimenti di ogni edificio. La prima (IV-III secolo a.C.) e la seconda epoca sannitica (200-80 a.C.) passano dall’opera quadrata e incerta alle costruzioni con blocchi di tufo. Il primo periodo romano (80 a.C.-14 d.C.) realizza costruzioni con pietre irregolari e blocchetti quadrati messi a reticolato diagonale. Il secondo e ultimo periodo romano (14 d.C.-79 d.C.) introduce l’uso del mattone. Gli stili pompeiani per la pittura e la decorazione delle pareti sono il capitolo più interessante della manifestazione artistica di Pompei e sono stati distinti in quattro stili. Primo stile, detto a incrostazione o strutturale, (150-80 a.C.) perché si caratterizza con riquadri e bugne imitanti il rivestimento di marmi colorati (v. Casa di Sallustio, del Fauno). Secondo stile detto architettonico (80 a.C.-14 d.C. circa), perché ha grandi riquadri con composizioni figurate alternate a prospettive architettoniche realistiche (v. Casa di Obelio Firmo, del Labirinto, delle Nozze d’Argento, della Villa dei Misteri). Terzo stile detto egittizzante o ornamentale (inizio circa 14 d. C.) perché vi predomina il gusto decorativo eseguito con perfetta cura dei dettagli e con straordinaria finezza dell’esecuzione e del colore (v. Casa di Lucrezio Frontone, Cecilio Giocondo). Quarto stile detto fantastico (inizio circa 62 d.C.) poiché gli schemi, le architetture e le prospettive diventano del tutto irreali e cariche di elementi ornamentali (v. Casa dei Vettii, degli Amanti, del Menandro, di Loreio Tiburtino).

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Tempio di Apollo - Particolare
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Anfiteatro
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Via Vesuvio e Castellum Aquae
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Il Foro Civile
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Via del Foro e Arco di Caligola
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Via dell'Abbondanza - Tratto Orientale
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Arco di Germanico
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Forno e Mulini
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Tempio di Giove
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Tempio di Apollo - Particolare
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Casa dei Vettii - Atrio
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Casa dei Vettii - Amorini Vinai
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Casa di Loreio Tiburtino Euripus
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Casa del Fauno - Atrio
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Casa della Fontana Grande - Ninfeo
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Antiquarum - Impronta di giovane donna
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Villa dei Misteri - Il sacrificio e Sileno che suona
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Villa dei Misteri - La Flagellata e la Baccante nuda

LE TIPOLOGIE

La scoperta di Pompei rivelò ai primi scavatori un'immagine del tutto inaspettata della città antica e dei suoi monumenti. In particolare, i differenti generi di abitazioni attirarono fin da allora l'attenzione di studiosi e di visitatori. La casa romana infatti era il luogo in cui si svolgeva gran parte della vita quotidiana e il mezzo attraverso il quale il proprietario cercava di dare un'immagine del proprio benessere a chi si recava a fargli visita. Conoscere le case della città, complete dell'arredo e della decorazione originaria, significa conoscere la storia degli abitanti. La casa romana classica è composta da una serie di stanze raccolte attorno a un grande ambiente chiamato atrio. L'atrio poteva essere interamente o parzialmente scoperto è rappresentava il centro dell'abitazione. Al centro dell'atrio si trovava una vasca chiamata impluvio, destinata a raccogliere l'acqua piovana. L'atrio era detto tuscanico se il tetto che lo copriva non aveva supporti che lo sorreggessero da terra, tetrastilo se il tetto era sorretto da quattro colonne poste agli angoli dell'impluvio e corinzio se attorno all'impluvio era disposto un vero proprio colonnato. L'ampio ingresso faceva sì che l'interno fosse visibile anche dalla strada, rivelando così ai passanti i segni della ricchezza dei proprietari. Questo tipo di casa, specialmente la casa ad atrio tuscanico, ha origini molto antiche ma è attestata a Pompei solo dal II secolo a. C., da quando cioè la città sannitica venne assorbita nell'orbita culturale romana. Alla casa ad atrio viene aggiunto con il passare del tempo un portico con giardino chiamato peristilio posto generalmente subito dietro l'atrio e, se possibile, in asse con esso. Si tratta di un elemento essenzialmente decorativo. Attorno al peristilio si dispongono le grandi sale (oeci) da banchetto o da ricevimento e in qualche caso anche delle piccole terme. Al centro del peristilio si allestiva il giardino della casa. Alcune case con peristilio furono costruite in posizione panoramica sul limite meridionale e occidentale della città, cosicché dal giardino colonnato si potesse godere anche della vista verso il Golfo di Napoli e la penisola sorrentina. Le case ad atrio o ad atrio con peristilio erano le abitazioni dei ceti più elevati della città. Si pensi che soltanto l'atrio raggiungeva mediamente una superficie di circa 150 mq. Esisteva naturalmente anche un genere di edilizia più popolare, che troviamo concentrato principalmente nei quartieri orientali della città. Qui, in un periodo compreso tra la fine del III e il II secolo a. C. venne infatti costruita una serie di isolati paralleli occupati da case a schiera. Si tratta abitazioni di dimensioni inferiori rispetto a quelle delle case ad atrio, la cui superficie originaria era per metà occupata da ambienti coperti e per metà da un giardino detto hortus. La parte abitata si sviluppava anche in questo caso attorno a un ambiente centrale, quasi un piccolo atrio, sempre scoperto. Con il passare del tempo molte delle proprietà originarie vennero acquistate da pochi proprietari e gli isolati si trasformarono in lussuose case dotate di enormi giardini. Oltre alle abitazioni costruite entro le mure gli scavi ci hanno rivelato la presenza di lussuose ville costruite presso la città, lungo le strade che collegavano Pompei con le città vicine. Queste ville, come la villa di Diomede o la villa dei Misteri, erano in realtà delle fattorie che producevano olio e vino dove il padrone aveva allestito un quartiere residenziale per sé, per la sua famiglia e per gli ospiti di riguardo. Ritroviamo in queste ville tutti gli elementi delle dimore urbane ma, a differenza delle case in città, qui il peristilio è sempre posto davanti all'atrio e non viceversa.

L'ANFITEATRO

L'anfiteatro di Pompei è il più antico anfiteatro romano del mondo. Fu costruito dai due magistrati che reggevano il governo della città (duoviri) subito dopo la fondazione della colonia sillana e poteva ospitare fino a 20.000 spettatori. I magistrati si chiamavano Quinzio Valgo e Marco Porcio, gli stessi che costruirono il teatro coperto. Spesso, nelle città conquistate dai romani, accadeva che i grandi edifici da spettacolo venissero costruiti in zone periferiche sia per il costo minore dei terreni, sia per evitare i disagi dovuti all'affollamento degli spettatori nel centro della città. Per la costruzione venne sfruttato l'aggere della fortificazione più antica, che forniva un poderoso terrapieno a cui venne addossata la fondazione delle gradinate orientali. Un nuovo terrapieno fu invece realizzato appositamente per sostenere le gradinate occidentali. Oltre la fortificazione non sappiamo cosa ci fosse in questa zona prima della costruzione dell'anfiteatro, ma è possibile che vi si trovassero della abitazioni private come nel caso della vicina palestra grande. Come nei moderni teatri, le gradinate (cavea) erano divise in ordini di diversa qualità, che avevano anche ingressi separati. A ridosso dell'arena, si trovavano i posti migliori, riservati ai magistrati, ai membri del senato locale (decurioni), agli organizzatori e finanziatori dei giochi. In caso di eccessiva calura, gli spettatori potevano essere riparati da enormi teli (vela) che venivano issati sopra la cavea e l'arena. Gli spettacoli prevedevano combattimenti tra uomini e animali, oppure tra uomini e uomini, ed erano seguiti da arbitri e giudici di gara, come spiegavano una serie di affreschi dipinti tutto intorno all'arena e purtroppo oggi perduti. In occasione degli spettacoli, intorno all'anfiteatro si svolgeva un mercato e i venditori, con il permesso dei magistrati competenti (edili) potevano addirittura utilizzare gli archi della struttura esterna come botteghe.

IL TEMPIO DI APOLLO

Il santuario dedicato ad Apollo è il più antico luogo di culto di Pompei. Non conosciamo l'aspetto originario dell'area sacra. Sulla base dei reperti più antichi raccolti nei depositi votivi del santuario possiamo però stabilire che il culto risale al VII secolo a. C. o addirittura al secolo precedente. In quest'epoca così antica, non era stato costruito un tempio vero e proprio, ma il culto doveva svolgersi in un'area aperta forse attrezzata con uno o più altari. Il primo edificio fu costruito nel VI secolo a. C., ma solo una parte delle terrecotte dipinte che decoravano il tetto si è conservata. Il tempio che vediamo oggi fu costruito in età sannitica dal questore Oppio Campano, come ricorda l'iscrizione posta sulla soglia della cella. Poco tempo dopo, per permettere la realizzazione del Foro, l'area del santuario venne ristretta. Il senato della colonia sillana fece porre presso il tempio un altare in onore di Apollo. In età augustea, fu sistemato nel santuario un orologio solare e venne elevato il muro occidentale per togliere la vista alle case vicine. Dopo il terremoto del 62 d. C., tutta l'area sacra venne naturalmente restaurata con grande cura. Apollo e il suo tempio sono stati costantemente oggetto delle cure dei magistrati della città e ciò ne sottolinea l'importanza. In età augustea si svolgevano addirittura dei giochi in onore del dio, i ludi Apollinares. Il carattere del culto, però, non è ancora del tutto chiaro. Sono due le ipotesi possibili: o Apollo era il dio poliadico, cioè il protettore per eccellenza della città, oppure era il dio che proteggeva le attività commerciali, da sempre fonte di sostentamento e di ricchezza per gli abitanti di Pompei.

IL TERMOPOLIO DI ASELLINA

Tra tutti i locali e le botteghe che si aprono su via dell'Abbondanza, il termopolio di Asellina è forse uno dei più piccoli. Termopolio è una parola greca che vuol dire "luogo in cui si vendono bevande calde" e indica ciò che noi chiameremmo un'osteria. In genere erano locali posti a uno degli angoli dell'isolato in cui si trovavano, con un solaio in legno che sosteneva il piano superiore. Qui gli avventori potevano riposare oppure incontrare prostitute messe a disposizione dai gestori del locale. Nonostante le sue dimensioni, questo termopolio doveva essere uno dei più famosi del quartiere. Infatti, sulle pareti ai lati dell'ingresso, una serie di iscrizioni parietali ricordano il sostegno dato dalla padrona e dalle cameriere del locale ai candidati durante le elezioni. Erano tutte ragazze di origine straniera come dimostrano i loro nomi (Smyrina, Aeglae e Maria) tutti di origine greca o orientale. Al momento dello scavo fu rinvenuto sul bancone tutto il servizio necessario all'attività del locale, composto da vasi per bere o per conservare bevande calde e fredde. Si poteva frequentare il termopolio anche la sera, come dimostra l'unica grande lampada di bronzo che fungeva da lampadario, appesa al centro della volta.

IL TEMPIO DEL GENIO DI AUGUSTO

In età augustea, una sacerdotessa pubblica di nome Mammia costruì a sue spese e su un suo terreno un piccolo tempio sul lato Est del Foro. Mammia era un personaggio così importante a Pompei che il senato locale le concesse una tomba sul suolo pubblico, nella necropoli di Porta Ercolano. Se l'interpretazione dell'iscrizione che ricorda la dedica dell'edificio è corretta, dovrebbe trattarsi di un tempio dedicato al Genio dell'imperatore Ottaviano Augusto. La cronologia della struttura sembrerebbe confermare tale ipotesi, ma non tutti gli studiosi concordano su questa interpretazione. Tuttavia è certo che si tratti di un luogo riservato al culto dell'imperatore, poiché sull'altare di marmo collocato al centro del cortile è raffigurato il sacrificio di un toro, l'offerta che veniva fatta agli dei per l'imperatore ancora vivente. Solo una piccola parte dell'edificio originale è conservata: il piccolo tempio su podio forse con quattro colonne sul fronte e una parte della facciata verso il Foro. Tutto il recinto e gli ambienti retrostanti sono stati restaurati dopo il terremoto del 62 d. C.

LA BASILICA

Basilica è una parola greca che vuol dire "sala del re". I Romani invece utilizzavano questo termine per indicare gli edifici pubblici in cui si svolgevano gli affari più importanti dei cittadini. Le basiliche, infatti, funzionavano come borsa valori, luogo di vendita all'asta e al minuto, tribunale. Ecco perché si tratta sempre di edifici di notevoli dimensioni situati nel luogo più importante della città. A Pompei in particolare, la basilica si trova vicinissima a uno degli ingressi alla città, lungo la strada che metteva in comunicazione l'area del Foro con l'area del porto. La sua costruzione, insieme a quella dei monumenti civili nella parte meridionale del Foro, si può datare verso la fine del II secolo a. C. quando si decise di dotare l'abitato di età sannitica di un nuovo centro monumentale. Prima di iniziare la costruzione, furono distrutti gli edifici che sorgevano nella zona e il pendio della collina fu ricoperto da uno spesso accumulo di terre e detriti che creasse una vasta superficie regolare. Solo più tardi il suo ingresso venne nascosto dal portico di Popidio, costruito negli anni immediatamente precedenti o immediatamente successivi alla fondazione della colonia, per nascondere le facciate irregolari degli edifici che chiudevano il Foro a Sud.

LE OFFICINE E BOTTEGHE

Dato lo straordinario stato di conservazione in cui fu scoperta l'intera città di Pompei, è stato possibile conoscere aspetti della vita quotidiana meno monumentali o lussuosi quali per esempio piccole botteghe, officine di artigiani o locali di ristoro. Le botteghe o i luoghi di vendita erano sparse per tutta la città senza rispettare una particolare disposizione e, il più delle volte, il genere prodotto o venduto era indicato sulla facciata dell'edificio con un dipinto o con una placca in argilla a rilievo. Sono stati individuati luoghi di vendita di olio, vino e latte, botteghe di cuoiai, ciabattini e conciatori, di orefici, di fabbri ferrai e di muratori. Sono stati riconosciuti i laboratori di pittori, stuccatori e scultori, le officine per la produzione di sapone e di profumi, i luoghi dove i medici ricevevano i loro pazienti e dove si vendevano medicine. Le botteghe più numerose in città erano comunque quelle dei fornai, che macinavano il grano con macine azionate da animali, cuocevano e vendevano il pane. Lungo le strade erano numerosissime le caupone e i termopoli. Si trattava di taverne e osterie in cui si poteva bere o mangiare e dove di frequente prestavano servizio anche prostitute.

LA CAPRA

Per realizzare gli edifici antichi non bastavano i materiali da costruzione. Un ruolo indispensabile era svolto dalle macchine per il sollevamento e il trasporto delle parti già lavorate. Uno di questi macchinari era particolarmente utilizzato dagli antichi per la sua facilità di costruzione e di uso. Si chiamava capra o rechamum e veniva allestita a seconda delle necessità. Occorrevano due travi di legno che venivano legate insieme ad un'estremità e divaricate dall'altra. Questa struttura era assicurata a terra con delle funi che fungevano da tiranti. In cima alle travi veniva assicurato un verricello mentre verso la base si inseriva il rullo che doveva fungere da argano. Il rullo era azionato da pertiche che venivano inserite in appositi fori praticati alle sue estremità. Per azionare la capra bastavano due operai, poichè il carico poteva essere alleggerito notevolmente utilizzando una serie di rimandi di carrucole sulla parte della fune che doveva sorreggere il carico. Nei casi in cui i carichi erano particolarmente pesanti si poteva ricorrere a una ruota esterna alla struttura principale, che richiedeva lo sforzo di almeno cinque persone.

LA CASA DEI CEII

Sul fronte di questa casa sono dipinte nove iscrizioni con cui nove personaggi diversi annunciano i loro programmi elettorali. Uno di questi è Lucio Ceio che potrebbe essere stato l'ultimo proprietario della casa. Questa casa ha conservato l'impianto originario delle piccole casette a schiera tipiche di questo quartiere della città. Il poco spazio a disposizione non sembrerebbe aver rappresentato un limite per i proprietari della casa che, evidentemente, desideravano abbellirla secondo la moda corrente a partire dal I secolo a. C., riproducendo cioè dentro la città gli elementi più caratteristici delle villae, le dimore rurali dei ricchi proprietari terrieri. Dopo l'atrio, che possiamo immaginare scoperto, si accede a un piccolo peristilio su cui si affacciano quattro sale. Lo spazio è assai esiguo e così tutti gli altri elementi necessari all'imitazione della villa sono rappresentati sull'affresco che corre tutto intorno al peristilio. Sono dipinte fontane con statue circondate da scene di caccia e vedute di paesaggi che ricordano l'Egitto con tempietti lungo un grande fiume. Successivamente, forse dopo il terremoto del 62 d. C., la casa fu dotata di un secondo piano che non fu mai completato. Al momento dell'eruzione erano pronte le stanze lungo la facciata, ma si stava ancora costruendo la parte sopra il tablino.

LA CASA DEL CENTENARIO

La Casa del Centenario deve il suo nome al fatto di essere stata scoperta nel 1879, anno in cui si celebrava il centesimo anno di scavo a Pompei da parte delle autorità borboniche. Le dimensioni dell'edificio e la sua decorazione interna ci testimoniano l'elevato livello economico del proprietario della casa. Di questo personaggio sappiamo solo che doveva essere un adoratore di divinità egiziane, come dimostrano le pitture e gli oggetti per il culto rinvenuti nel primo ambiente sulla sinistra dell'atrio principale. La zona circostante non è stata ancora interamente scoperta, ma è possibile pensare che nel quartiere non dovessero mancare abitazioni di pari livello, come, per esempio, la vicina casa di Obellio Firmo. Questa casa fu costruita nel corso del II secolo a. C. e poi più volte restaurata fino all'eruzione del 79 d. C. Gli ambienti interni sono raccolti in tre nuclei principali, ciascuno posto su un lato del grande peristilio centrale. Dall'ingresso principale si accedeva ai due atri e alle stanze riservate alla famiglia del proprietario, direttamente comunicanti con il peristilio. Sul lato opposto si trovavano le sale e gli ambienti per i ricevimenti, utilizzati probabilmente in estate data la loro esposizione verso settentrione. Separati dal peristilio da un corridoio troviamo infine gli ambienti di servizio, le cucine, una stanza adibita alle terme e il quartiere servile (ergastulum) dotato di un ingresso secondario indipendente.

LA VILLA DI DIOMEDE

La parola villa in latino non è l'equivalente del corrispettivo termine italiano. Indica piuttosto le fattorie o le case di campagna utilizzate per la produzione agricola di cereali, olio, vino o per altri tipi di colture e allevamenti. La Villa di Diomede però era una villa in cui era stata ricavata anche una residenza signorile, una vera e propria domus fuori dalle mura della città. Fu costruita nel II secolo a. C. con sale dipinte e giardini pensili. Non conosciamo il nome del proprietario di questa residenza ma il suo corpo fu rinvenuto durante lo scavo abbracciato a quello di un servo presso l'uscita secondaria della villa. Portava con sè una chiave, anelli d'oro e un sacchetto pieno di monete. Come gran parte delle residenze di campagna anche la Villa di Diomede presentava la caratteristica inversione del peristilio costruito prima dell'atrio. Dopo il peristilio, su due lati dell'atrio si trovano le stanze padronali, riccamente decorate e affacciate sulla costa. Sul lato restante si trovava l'appartamento del custode della villa, il Procurator. Il quartiere servile si trovava sul lato d'ingresso del fabbricato e qui erano custoditi tutti gli attrezzi necessari al lavoro agricolo.

L'EDIFICIO DI EUMACHIA

Intorno al 2 d. C., una sacerdotessa pubblica e suo figlio, che di lì a poco sarebbe stato eletto sommo magistrato cittadino (duumvir), fecero edificare nel Foro un edificio più grande di tutti quelli che erano stati costruiti fino ad allora e anche di quelli che furono costruiti in seguito. La sacerdotessa si chiamava Eumachia, suo figlio Marco Numistro Frontone e probabilmente costruirono l'edificio proprio durante la campagna elettorale. Dopo il terremoto del 62 d. C., l'edificio venne pesantemente restaurato, ma senza alterare il suo impianto originario. Come ricorda una monumentale iscrizione incisa sull'architrave del portico verso la piazza del Foro, l'edificio era composto da un vestibolo (chalcidicum) un colonnato (porticus) e un ambiente sotterraneo (crypta). Il monumento era dedicato alla Concordia Augusta e alla Pietas, due figure divine che simboleggiavano la pace ritrovata dopo le guerre civili a opera di Ottaviano Augusto. Indirettamente veniva realizzato così un atto di venerazione nei confronti dello stesso imperatore. Nel 7 a. C. Livia, la moglie di Augusto, assieme con il figlio Tiberio, il futuro imperatore e successore di Augusto, fece costruire per la plebe di Roma un porticus con giardini, un vero e proprio spazio per il tempo libero. Con la costruzione dell'edificio, Eumachia e suo figlio vollero celebrare a Pompei la propria dedizione alla famiglia imperiale.

LA CASA DEL FAUNO

La casa del Fauno è la più grande casa di Pompei e deve il suo nome alla statua bronzea di Fauno che decora l'impluvio dell'atrio tuscanico. Si estende su una superficie di circa 3000 mq. e si trova nel quartiere della città in cui è concentrato il maggior numero di case "ad atrio" con peristilio. In questa abitazione troviamo tutti gli elementi caratteristici dell'architettura privata romana, ma duplicati e dilatati fino a creare una vera e propria residenza che non trova confronto con nessun monumento conosciuto di Pompei e dell'Italia romana. Basta considerare quante poche stanze per i bisogni reali degli abitanti sono presenti nella casa in confronto alla superficie degli atri e dei due peristili, per rendersi conto dell'intento eminentemente celebrativo di questa architettura. La casa fu costruita nel II secolo a. C. distruggendo un più antico edificio, databile alla fine del III secolo a. C., di cui sono stati portati alla luce soltanto alcuni ambienti. Il suo proprietario doveva essere certamente un personaggio molto in vista nella comunità di Pompei in età sannitica e di alto livello economico come dimostra il gran numero di oggetti d'oro e d'argento rinvenuti durante lo scavo e la lussuosa decorazione delle stanze di uso sia pubblico sia privato. Non conosciamo purtroppo il suo nome. Sappiamo soltanto che fece scrivere sul marciapiede, di fronte all'ingresso principale, il saluto in latino HAVE per ostentare la sua cultura in un periodo in cui, a Pompei, si parlava la lingua osca. Un suo antenato doveva aver avuto probabilmente dei rapporti con la corte di Alessandro Magno. Forse per questo motivo la grande sala colonnata dopo il primo peristilio venne decorata con il grande mosaico che raffigura la vittoria di Alessandro sul re persiano a Isso.

LA CASA DELLA FONTANA PICCOLA

A Pompei non c'erano soltanto case di grandi dimensioni, ma anche piccole abitazioni. Il minore spazio non sembrerebbe comunque aver rappresentato un limite per i proprietari che desideravano abbellire la propria casa secondo la moda corrente a partire dal I secolo a. C., riproducendo cioè, dentro la città, gli elementi più caratteristici delle villae, le dimore rurali dei ricchi proprietari terrieri. La casa della Fontana Piccola rappresenta uno degli esempi migliori di questo fenomeno. Si tratta di una delle case più piccole dell'isolato in cui è inserita, molto simile, per la disposizione degli ambienti interni e per superficie totale, alle piccole case "a schiera" che si trovano nelle Regioni I e II. Tuttavia dopo l'atrio, che possiamo immaginare scoperto, si accede a un piccolo peristilio su cui si affacciano due sale. Al centro del peristilio è costruita la fontana che dà il nome alla casa. Tutto è realizzato in uno spazio assai esiguo e così tutti gli altri elementi necessari all'imitazione della villa sono rappresentati sull'affresco che corre tutto intorno al peristilio. La fontana infatti è immaginata entro un giardino riccamente decorato con piante e animali e circondato da vedute di paesaggi di campagna o marittimi.

LA PIAZZA DEL FORO

Il Foro era la piazza principale della città. Era chiuso al traffico e vi si poteva accedere soltanto a piedi. Qui erano concentrati tutti i monumenti necessari all'amministrazione politica, giudiziaria e alla vita religiosa ed economica della città, ma una vera e propria piazza monumentale fu costruita soltanto nel II secolo a. C. in un'area sostanzialmente priva di edifici più antichi. Si dovette comunque abbattere una parte del muro perimetrale del vicino santuario di Apollo, che avrebbe altrimenti invaso lo spazio riservato alla nuova area aperta. In questa fase, la piazza era pavimentata in lastre di tufo e aveva già una superficie totale di 5396 mq. Furono subito costruiti tutti gli edifici sui lati Nord Ovest e Sud della piazza, mentre sul lato Est si trovavano il primo macellum, taverne e forse abitazioni private, distrutte in seguito per fare spazio a nuovi monumenti. Per nascondere in parte il prospetto irregolare degli edifici della zona meridionale della piazza, il questore Vibio Popidio fece costruire un doppio porticato negli anni intorno alla fondazione della colonia sillana e poco dopo fu restaurato anche il tempio di Giove sul lato opposto della piazza. Un interesse maggiore per la sistemazione del Foro sorse in età augustea tra la fine del I secolo a. C. e l'inizio del I sec. d. C. La vecchia pavimentazione in tufo venne sostituita da una nuova in travertino su cui venne scritto in grandi lettere di bronzo il nome, purtroppo ormai illeggibile, del donatore. Sul lato Est vennero costruiti una serie di edifici dedicati al culto dell'imperatore, venne restaurato l'antico macellum, gli ingressi alla piazza vennero trasformati in archi monumentali. Infine una particolarità: il Foro di Pompei è uno dei pochi del mondo romano in cui le statue onorarie non sono concentrate al centro della piazza, ma disposte sui lati o addirittura sotto il porticato.

IL TEMPIO DELLA FORTUNA AUGUSTA

Il tempio della Fortuna Augusta è il primo tempio di Pompei dedicato esplicitamente alla venerazione dell'imperatore. Autore della dedica fu un certo Marco Tullio, della famiglia latina dei Tulli, la stessa da cui discendeva Cicerone, che svolse la sua carriera politica tra il 25 e il 2 a. C. All'interno fu sistemata la statua di Augusto assieme a quelle dei dedicanti o, secondo un'ipotesi alternativa, a quelle dei suoi successori fino al terremoto del 62 d. C. Si dovette trattare di una dedica piuttosto gravosa, poiché il tempio fu realizzato a proprie spese e ricoperto interamente di marmo. Anche il terreno su cui fu costruito l'edifico sacro apparteneva al dedicante. È interessante notare che, anche se questa costruzione doveva rappresentare la dedizione all'imperatore, non fu costruito nel Foro. Forse prima della fine del I secolo a. C., epoca in cui furono costruiti l'edificio di Eumachia e il tempio di Augusto, acquistare una proprietà presso il Foro aveva un costo troppo elevato oppure era ancora troppo presto per far affacciare sulla piazza principale un edificio di culto dal carattere politico così evidente.

LA FULLONICA

A Pompei sono note quattro fulloniche; la Fullonica di Stephanus è la più grande di queste e occupa una superficie pari a quella di un'intera casa. La fullonica era una lavanderia, dove si potevano lavare le stoffe ma anche tingerle o lavorarle. Deve il suo nome all'iscrizione dipinta sulla facciata della casa con la quale un certo Stephanus, forse il padrone dell'officina, raccomanda di votare per un candidato alle elezioni per i magistrati della colonia. Da un ampio ingresso, dove si trovava una pressa, si accedeva a un atrio. Qui si trovava l'impluvio trasformato in vasca per il lavaggio delle stoffe. Gli ambienti infatti erano coperti da un terrazzo su cui venivano stesi i panni lavati. Altre tre vasche comunicanti e cinque cosiddetti bacini pestatoi si trovavano nel peristilio. Nella stessa area si trovava la cucina per gli schiavi che lavoravano nella fullonica (gli operai liberi potevano andare a mangiare a casa) e una latrina. Il lavaggio avveniva in varie fasi. Prima si pestavano i tessuti con i piedi nei bacini pestatoi in acqua mista a soda o ad urina (umana o animale) per smacchiarli. Poi venivano ammorbiditi con argilla o terra, battuti con l'ausilio della pressa per ricondensarne la trama e infine risciacquati in acqua per eliminare le sostanze fulloniche.

IL TEMPIO DI GIOVE

Tra la fine del III e l'inizio del II secolo a. C., quando si volle creare una piazza monumentale presso l'ingresso alla città dal porto, venne costruito anche il tempio sul lato settentrionale della piazza. L'edifico che vediamo è il risultato dei rinnovamenti successivi che hanno modificato la struttura originaria del tempio. Di questa resta soltanto il podio, comune alla maggior parte dei santuari di Pompei, che li identifica come templi del tipo etrusco-italico. Questo podio è cavo all'interno poiché è costituito da tre camere allineate coperte a volta. In questi sotterranei venivano depositati tutti i doni votivi portati al tempio e le attrezzature necessarie per lo svolgimento dei riti. Forse, al momento della fondazione della colonia sillana, la parte superiore del tempio fu modificata con l'erezione delle sei colonne di ordine corinzio sulla facciata. Durante lo scavo, fu rinvenuto tra le macerie della cella un colossale busto di un personaggio maschile seduto, probabilmente parte della statua di culto, identificato come Giove. Da qui l'ipotesi che il tempio fosse originariamente dedicato a Giove e poi trasformato nel tempio principale della città, il Capitolium, localizzato nel Foro come nella gran parte delle colonie fondate da Roma.

LA PRAEDIA DI GIULIA FELICE

Il nome di Giulia Felice ci è stato conservato da un'iscrizione in cui annunciava di essere disposta ad affittare per cinque anni una parte della sua proprietà immobiliare, dopo il disastroso terremoto del 62 d. C. Il complesso è infatti diviso in due parti, con ingressi indipendenti, di cui una, più bella e riccamente decorata, era privata e l'altra, con una stanza adibita alle terme, era pubblica. Ritroviamo qui tutti gli elementi presenti nella Casa del Centenario come il doppio atrio, il grande peristilio al centro dell'edificio, un quartiere separato dagli ambienti del proprietario o di rappresentanza, ma combinati in modo diverso. Anche qui era venerata una divinità egiziana (Iside) in un sacello posto nel peristilio. La proprietaria non si era comunque limitata a ingrandire e ad abbellire la sua casa. Aveva voluto ricreare uno spazio che simboleggiasse allo stesso tempo il paesaggio selvaggio e roccioso sacro al dio Pan e i giardini delle accademie filosofiche greche. Infatti il triclinio che si apriva sul peristilio è rivestito di frammenti di calcare come se fosse una grotta da cui, grazie a una conduttura, sgorgava dell'acqua che veniva incanalata in una piccola cascata. Nel giardino al centro del peristilio c'è una peschiera (euripus), attraversata da tre ponticelli e sul lato opposto statue in terracotta di sapienti e filosofi erano sistemate nelle nicchie ricavate lungo il muro.

LA PALESTRA DEI GLADIATORI

Il quadriportico costruito dietro la scena del Teatro grande viene comunemente chiamato "Caserma dei gladiatori". Questa definizione rispecchia però soltanto l'uso più recente dell'edificio che era stato costruito nel I secolo a. C. con diversa funzione. Purtroppo però non è ancora certo quale fosse questa funzione originaria. Generalmente i teatri romani e greci venivano dotati di un portico costruito dietro la scena (porticus post scaenam) per offrire agli spettatori un luogo in cui passeggiare e attendere durante gli intervalli degli spettacoli. Il Teatro grande e il quadriportico non sono però disposti sullo stesso asse, cosa difficile da spiegare se si trattasse dello stesso monumento. Si è allora pensato di riconoscere nel quadriportico un ginnasio, un luogo cioè dove i giovani della città potevano praticare sport e avere una formazione artistica e culturale. Dopo il terremoto del 62 d. C. tutto il monumento venne restaurato. Le pitture che raffigurano trofei e scene gladiatorie, le dimensioni delle piccole celle ai lati del porticato, la scoperta di armature da gladiatore, di abiti da parata ricamati in oro e di ceppi di ferro con cui incatenare gli schiavi, dimostrano chiaramente il nuovo uso che si fece del monumento.

IL TEMPIO DI ISIDE

La costruzione del Tempio di Iside si inserisce nel progetto di monumentalizzazione del quartiere attorno ai teatri. Verso la fine del II secolo venne costruito infatti il recinto porticato dell'area sacra con il tempio al centro. Iside era una divinità egiziana. Il suo culto fu creato appositamente nel III secolo a. C. da Tolomeo I, il generale di Alessandro Magno divenuto faraone dell'Egitto conquistato dai Greci, per favorire l'unione tra due popoli così diversi tra loro. Furono infatti uniti nella stessa divinità elementi di culto egiziani ed ellenici. Il culto ebbe comunque grande fortuna anche fuori dall'Egitto e giunse ben presto in Campania grazie ai commercianti orientali che frequentavano lo scalo di Pozzuoli. Per venerare una divinità straniera fu costruito così un tempio che utilizzava tutti gli elementi ricorrenti nell'architettura sacra del momento, pur essendo diverso da tutti gli altri santuari della città. Dopo il terremoto, il santuario fu completamente ricostruito. Del tempio originario resta soltanto una parte del podio. Con il restauro si operò addirittura un'estensione dell'area sacra a danno della vicina palestra sannitica. Due ambienti che appartenevano originariamente alla palestra furono infatti utilizzati per creare una grande sala per le cerimonie e un nuovo ingresso monumentale.

LA PRAEDIA DI GIULIA FELICE

Il nome di Giulia Felice ci è stato conservato da un'iscrizione in cui annunciava di essere disposta ad affittare per cinque anni una parte della sua proprietà immobiliare, dopo il disastroso terremoto del 62 d. C. Il complesso è infatti diviso in due parti, con ingressi indipendenti, di cui una, più bella e riccamente decorata, era privata e l'altra, con una stanza adibita alle terme, era pubblica. Ritroviamo qui tutti gli elementi presenti nella Casa del Centenario come il doppio atrio, il grande peristilio al centro dell'edificio, un quartiere separato dagli ambienti del proprietario o di rappresentanza, ma combinati in modo diverso. Anche qui era venerata una divinità egiziana (Iside) in un sacello posto nel peristilio. La proprietaria non si era comunque limitata a ingrandire e ad abbellire la sua casa. Aveva voluto ricreare uno spazio che simboleggiasse allo stesso tempo il paesaggio selvaggio e roccioso sacro al dio Pan e i giardini delle accademie filosofiche greche. Infatti il triclinio che si apriva sul peristilio è rivestito di frammenti di calcare come se fosse una grotta da cui, grazie a una conduttura, sgorgava dell'acqua che veniva incanalata in una piccola cascata. Nel giardino al centro del peristilio c'è una peschiera (euripus), attraversata da tre ponticelli e sul lato opposto statue in terracotta di sapienti e filosofi erano sistemate nelle nicchie ricavate lungo il muro.

IL TEMPIO DEI LARI PUBBLICI

Il cosiddetto Tempio dei Lari Pubblici è l'ultimo monumento a essere stato costruito intorno alla piazza del Foro. Non si tratta di un tempio dedicato ai Lari, cioè gli dei protettori della città. Come tutti gli edifici costruiti o restaurati sul lato Est del Foro tra la fine del I secolo a. C. e la metà del I secolo d. C. (edifico di Eumachia, tempio di Augusto, Macellum) è un edificio dedicato al culto dell'imperatore. Non sappiamo con esattezza cosa ci fosse in quest'area prima della costruzione del nostro edificio, probabilmente botteghe e forse anche case private. Per la costruzione di questo monumento, databile agli anni successivi al terremoto del 62 d. C., furono comunque interrotte due strade che consentivano di accedere alla piazza del Foro. Questa struttura, completamente aperta sul Foro, probabilmente senza tetto e decorata con marmi di vari colori, non assomigliava molto a un tempio. Si presentava piuttosto come un grande cortile destinato ad accogliere una serie di sculture nelle nicchie che lo circondavano, una galleria di statue che dovevano rappresentare i membri della famiglia imperiale. Dopo il terremoto, Nerone partì da Roma per visitare personalmente le città campane colpite dal sisma per dimostrare l'attenzione dell'imperatore verso i suoi sudditi in difficoltà. In questo quadro possiamo immaginare la dedica del nostro edificio.

LA CASA DI OCTAVIO QUARTIO

Anche per questa casa, conosciamo il nome del proprietario grazie al ritrovamento di un sigillo bronzeo in una delle stanze da letto (cubiculum) intorno all'atrio. Si chiamava Decio Ottavio Quartio e continuò a lavorare per abbellire la sua casa fino al momento dell'eruzione, senza poter terminare i lavori. La sua casa si trovava all'interno di un isolato che doveva ospitare in origine ben nove case, ma dopo il terremoto del 62 d. C., Ottavio Quartio trasformò integralmente l'aspetto dell'isolato, distruggendo tutte le vecchie proprietà tranne una. Al loro posto fece costruire una piccola casa ad atrio tuscanico e un enorme giardino, decorato come le più lussuose ville dell'aristocrazia romana. L'esigenza di risparmiare spazio per il giardino era tale che il peristilio della casa fu inserito in modo maldestro dentro il tablino. Come nel peristilio di Giulia Felice, si cercò di riprodurre, all'interno della casa, paesaggi e ambienti esterni e lontani. Tutto il giardino è attraversato da un canale (euripus) con fontanelle e ponticelli, posto sotto un pergolato e circondato da statue di divinità fluviali e orientali, di muse, di personaggi legati a Bacco, il dio del vino. Il canale non si trovava esattamente al centro del giardino, ma era stato intenzionalmente realizzato in asse con la sala principale della casa, collocata di fianco al peristilio/tablino e aperta su una terrazza porticata, da cui si poteva godere lo spettacolo dell'acqua che scorreva e del giardino fiorito e decorato.

LE LUPANARE

A Pompei sono noti circa venticinque bordelli, quasi tutti posti presso un incrocio di strade secondarie. Questo è il più grande, costruito appositamente per questo scopo, con dieci stanze distribuite su due piani. In genere, infatti, i bordelli erano associati a taverne e osterie oppure ricavati in stanze singole con porta direttamente sulla strada. L'atrio e le porte delle stanze erano decorate con pitture a carattere erotico. In ogni stanza c'era un basamento in muratura su cui veniva appoggiato un materasso. In questo edificio abbiamo una delle prove che l'attività di restauri imposta dai terremoti che caratterizzarono gli ultimi anni della vita di Pompei, fu praticamente ininterrotta fino alla disastrosa eruzione del 79. Sull'intonaco di una delle celle al primo piano sono impresse le tracce di monete coniate nell'anno 72.

IL MACELLUM

Macellum è forse una parola fenicia che vuol dire "recinto" e i Romani e i Greci ricevettero probabilmente dai Fenici il modello per questo tipo di monumento. Il Macellum era il mercato delle carni e del pesce. Come l'altro mercato alimentare, il Foro Olitorio, si trovava presso il Foro fin dal momento della sistemazione monumentale di questa piazza nel corso del II secolo a. C., ma in un settore un po' appartato rispetto agli altri monumenti. Come in molti monumenti di Pompei, gli interventi successivi al terremoto del 62 d. C. hanno nascosto i resti delle fasi più antiche del monumento. Tuttavia l'aspetto del macellum non dovrebbe essere cambiato di molto nel corso dei secoli. Tutte le decorazioni che possiamo osservare risalgono però all'ultima fase di vita dell'edificio. Nel portico erano rappresentate scene della mitologia greca mentre nell'ambiente di vendita più grande troviamo personificazioni del fiume Sarno e paesaggi marittimi. Sono i luoghi da cui proveniva la merce. Nonostante la sua specifica funzione, anche questo edificio fu deputato alla celebrazione della famiglia imperiale, come tutti quelli che furono costruiti sul lato Est del Foro dall'età di Augusto in poi. Sul lato in fondo al cortile, venne infatti costruito un piccolo tempio in cui vennero collocate le statue dell'imperatore, dei dedicanti e dei membri della famiglia imperiale.

LA CASA DEL MENANDRO

Questa abitazione faceva parte dei possedimenti di una potente e ricca famiglia pompeiana, i Poppei, che vantava il fatto di essere imparentata con Poppea, la seconda moglie dell'imperatore Nerone. La stessa famiglia possedeva a Pompei la Casa degli Amorini dorati, una fornace e aveva visto eleggere diversi suoi membri alle magistrature cittadine. Il nome attuale è dovuto a un dipinto nel peristilio che ritrae il famoso poeta greco. La casa del Menandro rappresenta uno degli esempi più classici del tipo di casa romana con peristilio, conservato qui nel semplice schema originario, in asse con l'atrio. Intorno al peristilio, come di consueto, si aprono piccoli ambienti, una stanza adibita alle terme e un triclinio che è, al momento, il più grande di Pompei. La casa si sviluppa su due piani. Il corpo centrale è infatti costruito a un livello superiore rispetto a quello del cortile con il forno e i sotterranei e a quello dell'ergastulum, il quartiere riservato ai servi. Per fare ciò dovettero essere interrate alcune stanze delle abitazioni che occupavano l'isolato prima della realizzazione di questa unica, grande dimora nel I secolo a. C. Lo scavo ha restituito una serie di oggetti molto interessanti per ricostruire la vita che si svolgeva nella casa, primo fra tutti un intero servizio di argenteria, avvolto in panni di lana, accuratamente custodito in una cassa di legno posta nei sotterranei del cortile. Nel quartiere servile invece erano conservati un carro, un corredo di attrezzi agricoli, anfore con miele, aceto, vino di Sorrento e una con una scritta che raccomandava di riempirla con salsa di pesce di prima qualità.

LA NECROPOLI DI PORTA ERCOLANO

Al di fuori della porta che guardava verso Ercolano, si sviluppò una necropoli a partire dalla fondazione della colonia sillana. Sono state individuate e scavate circa trenta tombe, tutte databili tra l'80 a. C. e il 79 d. C. Qui furono sepolti tra gli altri Marco Porcio, il costruttore del Teatro Coperto e dell'Anfiteatro e Mammia, la sacerdotessa che dedicò il tempio del Genio di Augusto nel Foro. Il rito più usato era quello inumatorio e anche l'abitudine di costruire tombe familiari era assai diffusa, anche se non mancavano inumazioni e tombe singole. In questo settore, seppure non eccessivamente esteso, erano presenti tutti i tipi di tombe comuni in questo periodo. Il più attestato è il tipo a edicola su podio, in cui veniva sistemata l'urna con le ceneri del defunto. Al posto dell'edicola si poteva costruire anche un altare, ma il tipo di costruzione restava sostanzialmente lo stesso. Ci sono anche tombe semicircolari, dette a schola e piuttosto diffuse in età augustea, e tombe costituite da una facciata monumentale che nasconde un recinto, in genere alberato, in cui venivano sepolte le urne. Dopo il terremoto del 62 d. C. le autorità della città posero, nella zona della necropoli subito all'esterno della porta, come a Porta Vesuvio e a Porta Nocera, un'iscrizione che sanciva il recupero dei terreni entro il limite pomeriale, abusivamente occupato dai privati per le loro tombe.

LA NECROPOLI DI PORTA ERCOLANO

Al di fuori della porta che guardava verso Ercolano, si sviluppò una necropoli a partire dalla fondazione della colonia sillana. Sono state individuate e scavate circa trenta tombe, tutte databili tra l'80 a. C. e il 79 d. C. Qui furono sepolti tra gli altri Marco Porcio, il costruttore del Teatro Coperto e dell'Anfiteatro e Mammia, la sacerdotessa che dedicò il tempio del Genio di Augusto nel Foro. Il rito più ricorrente era quello inumatorio e l'abitudine di costruire tombe familiari era assai diffusa, anche se non mancano inumazioni e tombe singole. In questo settore, seppure non eccessivamente esteso, erano presenti tutti i tipi di tombe comuni in questo periodo. Il più attestato è il tipo a edicola su podio, in cui veniva sistemata l'urna con le ceneri del defunto. Al posto dell'edicola si poteva costruire anche un altare, ma il tipo di costruzione restava sostanzialmente lo stesso. Ci sono anche tombe semicircolari, dette a schola e piuttosto diffuse in età augustea e tombe costituite da una facciata monumentale che nasconde un recinto, in genere alberato, in cui venivano sepolte le urne. Dopo il terremoto del 62 d. C. le autorità della città posero, nella zona della necropoli subito all'esterno della porta, come a Porta Vesuvio e a Porta Nocera, un'iscrizione che sanciva il recupero dei terreni entro il limite pomeriale, abusivamente occupato dai privati per le loro tombe.

LA NECROPOLI DI PORTA NOCERA

All'esterno di Porta Nocera la necropoli si sviluppò seguendo il percorso della strada che conduceva a Nocera. Questa è la zona sepolcrale in cui sono state riportate alla luce alcune delle tombe più monumentali di Pompei. I sepolcri sono quarantaquattro, tutti databili tra la fondazione della colonia sillana e l'eruzione del 79 d. C. Il tipo più attestato è quello costituito da un dado in calcestruzzo, decorato da elementi architettonici, che nasconde la camera sepolcrale. Non mancano tuttavia più semplici tombe a esedra o a edicola su podio. Qui vennero sepolti Eumachia, la sacerdotessa che dedicò l'edificio di Eumachia nel Foro e Lucio Ceio Serapio, liberto della famiglia che abitava nella casa detta dei Ceii. Questo personaggio, vissuto nel I secolo a. C., fu probabilmente il più antico banchiere di Pompei. Dopo il terremoto del 62 d. C., le autorità della città posero nella zona della necropoli subito all'esterno della porta, come a Porta Vesuvio e a Porta Ercolano, un'iscrizione che sanciva il recupero dei terreni entro il limite pomeriale, abusivamente occupato dai privati per le loro tombe. Questa necropoli non ha conservato soltanto le tracce della cura che i Pompeiani prestavano ai loro defunti. Alcuni graffiti di argomento erotico incisi sulle tombe sono il ricordo delle coppie che venivano ad appartarsi qui!

LA CASA DELLE NOZZE D'ARGENTO

Alla casa delle Nozze d'argento spetta il primato di possedere il più grande atrio tra le case di Pompei. Si tratta del tipo più elaborato tra gli atri romani, detto tetrastilo perché intorno all'impluvio venivano collocate quattro colonne per sorreggere il tetto. Anche di questa casa conosciamo l'ultimo proprietario che si chiamava Lucio Albucio Celso. Nonostante le successive acquisizioni di ambienti a danno delle case vicine, questa casa ha conservato intatto l'impianto originario, databile al II secolo a. C., con atrio e peristilio in asse con l'ingresso. Più tardi, forse dopo il terremoto del 62 d. C., la casa fu completata con il grande giardino porticato, decorato da una vasca centrale in asse con un piccolo triclinio all'aperto. Come nella Casa di Menandro, anche qui troviamo una stanza adibita alle terme presso il peristilio, ma di dimensioni minori, con decorazioni meno sfarzose e unita alla cucina della casa. Una particolarità di questa abitazione è la struttura del peristilio, del tipo cosiddetto "rodio". Il colonnato su uno dei lati, il più esposto al sole, era più alto di quello sugli altri tre per poter avere una parte della casa sempre illuminata dal sole, anche nel periodo invernale.

LA VILLA DEI MISTERI

Negli ultimi decenni del II sec. a.C. prese il via la moda, da parte dell'aristocrazia romana, di costruirsi lussuose ville in Campania. Lungo tutta la costa, dai Campi Flegrei a Punta della Campanella, i più importanti personaggi storici di Roma vennero a costruire le loro ville: da Scipione l'Africano che possedeva una villa a Liternum, alla figlia Cornelia, che nella villa di Miseno educò i suoi figli, i celebri Gracchi, a Mario, Silla, Pompeo, Cesare, Bruto, Cicerone. Una accanto all'altra, prima sulle colline, poi sempre più vicine al mare, e infine nel mare stesso, grazie alla scoperta di una malta idraulica che permetteva di costruire nell'acqua, sorsero ville lussuosissime, ove i ricchi romani potevano godere del meritato riposo dopo le fatiche della città. Queste ville erano tutte dotate di giardini e fontane con scenografici giochi d'acqua, piscine "olimpioniche", ricchi settori termali, statue ornamentali e fastose decorazioni parietali e pavimentali. Per quanto numerosi siano i resti archeologici, essi non sono in grado di dare l'idea della ricchezza architettonica e decorativa di queste ville. La ricostruzione che Paul Getty ha fatto realizzare a Malibu (California) della Villa dei Papiri, e la Villa di Oplontis a Torre Annunziata, danno forse l'idea migliore delle dimensioni e della ricchezza degli ambienti di queste ville.

Ma accanto a queste ville di villeggiatura, chiamate dai Romani, "ville di ozio" (otium) esisteva un altro tipo di villa, definita rustica, che era destinata alla produzione agricola. L'eccezionale fertilità del territorio campano, il clima mite che permetteva diversi raccolti durante l'anno, determinarono il proliferare anche di questo tipo di villa. Nell'area circostante Pompei (Boscoreale, Boscotrecase, Scafati, Angri, Terzigno), sono state scoperte un centinaio di antiche fattorie, molte delle quali sono state nuovamente sepolte dopo essere state private degli oggetti e delle pitture che contenevano. Le ville rustiche erano generalmente di medie proporzioni, distinte in un quartiere residenziale per il proprietario (pars urbana), e un quartiere servile (pars rustica) con le stalle, gli impianti produttivi, le abitazioni dei servi. Le ville rustiche potevano essere abitate direttamente dal proprietario, ma più spesso la conduzione della tenuta era affidata a un colono (vilicus). La manodopera era costituta prevalentemente da schiavi, ma non mancava anche personale di condizione libera. Il vino era il prodotto principale delle numerose aziende agricole sparse nel territorio dell'antica Pompei. Estesi vigneti esistevano sulle pendici del Vesuvio, sulle colline adiacenti e nella stessa città. Gli autori antichi ci tramandano i nomi dei maggiori vitigni dell'area vesuviana: l'Aminea, caratterizzata da grossi grappoli, la Pompeiana, la Holconia, la Vennuncula. Abbondante era anche la produzione di olio, frutta e cereali, e l'allevamento del bestiame. In alcuni casi una proprietà agricola poteva comprendere anche ambienti residenziali di lusso, mentre una villa al mare poteva essere circondata da terre produttive, e attrezzata con tutto il necessario per sfruttarne le risorse agricole. La Villa dei Misteri a Pompei costituisce uno dei migliori esempi di queste ville suburbane, signorili e rustiche insieme, che sorsero numerose nel territorio vesuviano, unendo la parte residenziale lussuosa, ad una zona produttiva.

O scavo della Villa, condotto fra il 1909 e il 1910 dallo stesso proprietario del terreno ove fu scoperto l'importante edificio, fu ripreso in modo scientifico negli anni 19291930, dopo l'esproprio dell'area da parte dello Stato Italiano. Nel 1931 l'archeologo Amedeo Maiuri fornì la prima edizione del complesso, corredata da splendide tavole a colori. Fin dal primo momento la scoperta suscitò il più vivo interesse, grazie soprattutto al ritrovamento di un ciclo pittorico importantissimo, da cui la villa prende il nome, e sulla cui interpretazione oggi ancora si discute. Nel corso dello scavo non fu recuperata molto suppellettile, né oggetti di lusso, come ci si sarebbe aspettati da una dimora tanto signorile. Ciò ha indotto gli studiosi a supporre che il settore padronale della Villa non fosse abitato al momento dell'eruzione, forse a causa dei lavori di ristrutturazione che vi si stavano eseguendo. Al contrario la presenza di numerosi attrezzi agricoli e di altro materiale, ha dimostrato che la parte rustica era abitata, così come gli alloggi per gli schiavi. Questo dato è stato confermato anche dal ritrovamento di scheletri umani - molto probabilmente si trattava di personale di servizio - tornati alla luce proprio nella parte servile della casa. Una prima vittima si rinvenne nel vestibolo d'ingresso della Villa. Vi si riconobbe il corpo di una giovinetta che forse aveva cercato di uscire di casa per tentare una via di scampo attraverso i campi, ma era stata soffocata dalla nube di cenere e gas sprigionatasi dal vulcano nelle ultime fasi dell'eruzione. Il corpo di un uomo fu invece ritrovato nello stanzino n. 35, ove si era rifugiato sperando di ripararsi dalla tempesta di ceneri e lapilli che imperversava fuori. Durante lo scavo fu effettuato il calco dell'uomo: attraverso il vuoto lasciato dalla decomposizione del corpo nella cenere solidificata, venne colato del gesso liquido che una volta rappreso ha restituito l'immagine della vittima. Altre tre donne si erano rifugiate nelle stanze del piano superiore del vestibolo. Sotto il peso dei lapilli le scale erano crollate, lasciando le sventurate tagliate fuori da ogni possibilità di fuga. In seguito l'intero pavimento della stanza crollò ed i corpi precipitarono nell'ambiente sottostante (n. 55), ove furono ritrovati dagli scavatori. Infine altri quattro corpi furono trovati nel criptoportico della Villa.

La Villa dei Misteri é forse l'edificio più noto ed ammirato di Pompei, e non senza motivo, sia perché é il più bello e completo esempio di una grande villa suburbana, sia perché i suoi vari ambienti sono decorati con pitture di alto livello artistico, in particolare la sala tricliniare ove é il grandioso fregio figurato che ha dato il nome alla villa. Lo scavo, iniziato nel 1909-10 e poi proseguito nei decenni successivi non é ancora completato, ma ne resta sotterra soltanto una piccola parte che si presume poco possa aggiungere a quanto già conosciamo.  Il primo impianto della villa risale al II secolo avanti Cristo, e successivamente essa subì vari ampliamenti e rifacimenti: sorta come dimora signorile sullo schema dell'abitazione urbana ebbe il suo momento di splendore in età augustea ed in questo stesso periodo entrò a far parte del dominio imperiale. Dopo il terremoto dell'anno 62 decadde a villa rustica; gli ultimi suoi proprietari appartenevano alla famiglia degli Istacidi. E' un grande edificio quadrilatero costruito sopra un terreno scosceso sicché in parte poggia sopra un terrapieno ed un criptoportico L'ingresso, non completamente messo in luce, si trova su di una strada di cui si conosce solo un breve tratto, e che forse era collegata con la Via delle Tombe.  Ai lati dell'ingresso si sviluppa il quartiere rustico ed il quartiere servile con varie attrezzature come il pastificio, il forno, le cucine, la dis-pensa dei vini ed il torchio per la pigiatura dell'uva. Dall'ingresso, attraverso un piccolo atrio si giunge nel peristilio, e qui inizia il vero e proprio nucleo dell'abitazione signorile, con stanze e sale adibite a vario uso ed un gruppo di ambienti a destinazione termale.  In questo quartiere signorile, in asse col peristilio é l'atrio maggiore, il tablino ed una veranda absidata con veduta sul mare. Ai lati sono ancora vari ambienti cubicoli, il triclinio del grande fregio, con portici di disimpegno tra i diversi gruppi di stanze. Attualmente é per l'appunto dalla veranda che si accede per visitare la villa, e questa parte dell'edificio possiede anche giardini pensili ed é sorretta dal criptoportico cui si é giá accennato.  La decorazione parietale dipinta é di disuguale interesse e rispecchia le diverse fasi della vita dell'edificio e le diverse destinazioni che esso ebbe. Meno interessanti sono le decorazioni di terzo e di quarto stile, ma degno di nota é il tablino, con pareti a fondo nero e motivi di tipo egittizzante, mentre di molto maggiore pregio sono i dipinti di secondo stile che furono risparmiati dai rimaneggiamenti che la villa ebbe nel suo ultimo periodo. Di tale stile é un cubicolo con figure connesse con il mito ed il culto di Dioniso, e questo cubicolo fa quasi da anticamera alla sala tricliniare.  Il grande fregio della sala appartiene anch'esso al secondo stile e costituisce l'esempio piú completo di un particolare tipo di decorazione che raramente s'incontra nella pittura di quell'epoca; abbiamo infatti qui una rappresentazione continua che occupa tutte le pareti della stanza, con figure a grandezza naturale o quasi. Secondo la più accettabile ipotesi il fregio deve essere stato eseguito verso la metà del 1 secolo avan-ti Cristo da un artista locale, che si é ispirato ad opere della pittura greca o che comunque di quella pittura e dei suoi canoni classici ha subito l'influenza. L'interpretazione del dipinto non trova concordi tutti gli studiosi, poiché esso non svolge un soggetto noto o facilmente identificabile, come ad esempio un mito, ma é formato di varie scene che si susseguono senza distinguersi l'una dall'altra e che sono certamente allusive a vari momenti di un rito del quale non possediamo altre testimonianze sicure. Di qui l'ipotesi che si tratti di uno dei culti misterici che convivevano nel mondo greco-romano accanto alla religione ufficiale e che erano noti soltanto a pochi eletti. É tuttavia opinione accettata dai più che il fregio rappresenti le varie fasi della iniziazione di una sposa ai misteri dionisiaci, misteri che ebbero diffusione anche nella Campania in etá romana. Perciò vediamo che nelle varie scene si trovano figure umane alternate con figure della sfera divina. Il fatto che qui si sia voluto realizzare un tale ciclo pittorico può spiegarsi con la circostanza che in quel momento la signora della villa era una iniziata e min-istra per l'appunto di quel culto.  Considerando che il ciclo abbia inizio dalla parete nord, accanto alla porticina, nella prima scena é la lettura del rituale sacro, eseguita da un fanciullo sotto la guida di una matrona seduta, mentre una donna ammantata ascolta. Quindi il rito si svolge in una scena di sacrificio e di offerta e con un gruppo pastorale ove un Sileno suona la lira. La parete di fondo della sala é dominata dalle due divinità cui erano legati questi riti, Dioniso ed Arianna, con altre due scene: da un lato Sileni e satiri intenti ad una azione di oscuro significato, dall'altro una donna che scopre il simbolo della fecondità ed una figura alata in atto di percuotere col flagellum levato. Lungo l'altra parete una donna flagellata si rifugia nel grembo d'una sua compagna, ed appresso una baccante ignuda danza in preda all'esaltazione orgiastica. Infine la sposa si abbiglia portando a compimento il rito ed a chiusura del ciclo essa é rappresentata seduta e nobilmente ammantata, ormai iniziata e mistica sposa del dio.

La parola villa in latino non è l'equivalente del corrispettivo termine italiano. Indica piuttosto le fattorie o le case di campagna utilizzate per la produzione agricola di cereali, olio, vino o per altri tipi di colture e allevamenti. La Villa dei misteri, però, non era una vera e propria villa, ma una residenza signorile, una domus, fuori dalle mura della città. Solo nel I secolo d. C., prima del terremoto del 62, alla residenza fu aggiunto un quartiere rustico con due torchi per la spremitura dell'uva. Fu costruita nel II secolo a. C. in posizione panoramica con sale dipinte e giardini pensili. Non conosciamo il proprietario di questa residenza. Sappiamo soltanto che, in età augustea, la villa era custodita da un guardiano (procurator) di nome Lucio Istacidio Zosimo. Come gran parte delle residenze di campagna, anche la Villa dei misteri presentava la caratteristica inversione del peristilio costruito prima dell'atrio. Dopo il peristilio, sui tre lati dell'atrio si trovano le stanze padronali, riccamente decorate e affacciate sulla costa. La villa deve il suo nome al famoso fregio dipinto nel triclinio a sinistra dell'atrio. Qui sono rappresentate dieci scene in cui si è voluta riconoscere la rappresentazione di riti misterici. L'interpretazione di queste scene è in realtà piuttosto problematica. Si è pensato anche alla rappresentazione di uno spettacolo di mimi o al ricordo dei preparativi per il matrimonio di una donna, da identificare con la giovane seduta raffigurata sulla parete di destra. Non si è raggiunta una soluzione definitiva, ma sono comunque sicuramente raffigurati nell'affresco Dioniso ubriaco con Arianna o Venere sulla parete di fondo, Pan e Aura (il vento) sulla parete sinistra con le quattro Stagioni.

gli scavi di notte
la storia fa spettacolo

Un percorso multimediale nella Pompei antica con immagini, suoni, racconti, luci e le musiche firmate da Ennio Morricone per far rivivere ai visitatori le atmosfere di 2000 anni fa. 'Suggestioni al foro' é passeggiata notturna, in gruppi fino a 100 persone, che parte dalle Terme Suburbane e si addentra tra le domus, i templi, i giardini svelando particolari ed esaltando i monumenti del sito archeologico, grazie ad una voce narrante e alle luci ad effetto che si accendono progressivamente. Dal Tempio di Apollo al Foro con il Tempio di Giove Capitolino, dal Macellum ai templi dedicati a Vespasiano e ai Lari protettori. Ed ancora: l'opificio tessile di Eumachia con la vendita dei tessuti, gli slogan delle campagne elettorali, gli Edifici Curiali ed infine la Basilica dove, come su un grande schermo di 24 metri per 6, circondati dal suono in surround, gli spettatori assisteranno ai momenti drammatici dell'eruzione in un collage di immagini appositamente scelte.

Plinio il Giovane
Lettere, VI, 16\h

Caro Tacito
Mi chiedi di scriverti della morte di mio zio affinché tu possa tramandarla ai posteri più adeguatamente. Te ne ringrazio: ritengo, infatti, che, se da te celebrata, alla sua morte potrà essere assicurata un'immortale gloria. Sebbene, infatti, egli sia morto in mezzo alla distruzione di un paese bellissimo per città e popolazioni, in una situazione degna di memoria, quasi per sopravvivere per sempre nel ricordo, e sebbene egli stesso abbia composto molte e durevoli opere, molto aggiungerà, al perdurare della sua fama, l'immortalità dei tuoi scritti. Io reputo, invero, beati coloro ai quali, per dono degli dei, sia dato di fare cose degne d'esser narrate e di scriverne degne d'essere lette; fortunati oltremodo coloro cui è dato questo e quello. Fra costoro, per i suoi ed i tuoi libri, sarà mio zio. È per questo che sono ben lieto di fare ciò che mi chiedi, ed anzi te lo chiedo io stesso come favore. Egli (Plinio il Vecchio) era a Miseno ove personalmente dirigeva la flotta. Il nono giorno prima delle calende di settembre (24 agosto), verso l'ora settima, mia madre gli mostra una nube inconsueta per forma e grandezza. Egli, dopo aver fatto un bagno di sole ed uno d'acqua fredda, se ne stava disteso, fatta una piccola colazione, a studiare: chiese le scarpe e salì in un sito donde poteva essere meglio osservato tale fatto straordinario. Una nube stava sorgendo e non era chiaro all'osservatore da quale monte s'innalzasse (si seppe, poi, essere il Vesuvio), il cui aspetto fra gli alberi s'assimilava soprattutto al pino. Essa, infatti, levatasi verticalmente come un altissimo tronco, s'allargava in alto, come con dei rami; probabilmente perché, innalzatasi prima spinta da una corrente ascendente, esauritasi, poi, o per cessazione della sua spinta, o vinta dal suo stesso peso, distesamente si espandeva: bianca a tratti, altra volta nera e sporca a causa della terra e della cenere che trasportava. Da uomo eruditissimo qual era, egli ritenne che il fenomeno dovesse essere osservato meglio e più da presso. Ordina, allora, che gli sia apprestata una liburna (battello veloce), mi autorizza, se voglio, ad andare con lui, ed io gli dico che preferisco restare a studiare e, per puro caso, egli mi aveva assegnato dei lavori da stendere. Era sul punto d'uscir di casa: riceve un messaggio di Rectina, moglie di Tasco, atterrita dal pericolo che vedeva sovrastarla (la sua villa era, infatti, ai piedi del monte, e nessuna possibile via di scampo v'era tranne che con le navi); supplicava d'esser sottratta a tale pericolo. Egli, allora, mutò consiglio e, quello che intendeva compiere per amor di scienza, fece per dovere. Dette ordine di porre in mare le quadriremi e s'imbarcò egli stesso, per portare aiuto non alla sola Rectina, ma a molti (infatti, per l'amenità dei siti, la zona era molto abitata). S'affretta proprio là donde gli altri fuggono, va diritto, il timone volto verso il pericolo, così privo di paura da dettare e descrivere tutti i fenomeni della tragedia che si compiva esattamente come si presentava ai suoi occhi. Già la cenere pioveva sulle navi, sempre più calda e densa quanto più esse si avvicinavano; e si vedevano già pomici e ciottoli anneriti e bruciati dal fuoco e spezzati, poi un passaggio e la spiaggia bloccata dai massi proiettati dal monte. Dopo una breve esitazione indeciso se tornare indietro come gli suggeriva il pilota, esclama: la fortuna aiuta gli audaci, dirigiti verso Pomponiano! Questi si trovava a Stabia, dall'altro lato del golfo, verso la meta di esso; infatti, il mare ivi s'incunea seguendo la linea di costa disegnando una curva. Quivi Pomponiano, sebbene il pericolo non fosse imminente, ma considerando che tale potesse presto divenire, aveva trasferito su navi le sue cose, pronto a fuggire non appena il vento si fosse calmato. Ma questo era, invece, favorevole a mio zio che veniva in direzione opposta, abbraccia l'amico impaurito, lo incoraggia, lo conforta e, per calmarne le paure con la propria sicurezza, chiede di essere portato al bagno, si lava, cena allegramente o, assai più probabilmente, fingendo allegria. Frattanto dal monte Vesuvio, in molte parti risplendevano larghissime fiamme e vasti incendi, il cui risplendere e la cui luce erano resi più vividi dalla oscurità della notte. Per calmare le paure, mio zio diceva che si trattava di case abbandonate che bruciavano, lasciate abbandonate dai contadini in fuga. Poi se ne andò a dormire e dormì di un autentico sonno, se il suo rumoroso russare, reso più fragoroso dalla corporatura massiccia, veniva udito da quanti origliavano oltre la soglia. Nel frattempo, il livello del cortile s 'era cosi tanto innalzato per la caduta di cenere e pomici che non sarebbe più potuto uscire dalla stanza se avesse più oltre atteso. Ma, nel cortile, attraverso il quale si andava a quell'appartamento, si era tanto accumulata la cenere mista a pietre, che per poco che egli si fosse fermato nella stanza non avrebbe potuto più uscirne. Svegliato egli ne esce e ritorna da Pomponiano e dagli altri che non avevano chiuso occhio. Si consultarono tra di loro se dovessero restare in casa o uscire all'aperto, dal momento che la casa era colpita da frequenti e lunghe scosse, e come colpita nelle fondazioni, mostrava or qua or là di cadere. Ma, ad uscire allo scoperto si temeva nuovamente il cadere delle pietre, sebbene leggere e prive di forza. Valutati i pericoli fu scelto quest'ultimo partito, prevalendo in lui una più matura riflessione; negli altri un più forte timore. Messi dei cuscini sul capo li legano bene con lenzuoli; questo faceva da riparo a ciò che cadeva dall'alto. Già altrove faceva giorno, ma là era notte, più scura e fitta di ogni altra notte; ancor che molte fiamme e varie luci la rompessero. Egli volle uscire sul lido e guardare da vicino se fosse il caso di mettersi in mare; ma questo era, tuttavia, tempestoso ed impraticabile. Quivi, buttatosi su un lenzuolo disteso, domanda dell'acqua e beve per due volte. Intanto le fiamme e un odore sulfureo annunziatore delle fiamme fanno sì che gli altri fuggano ed egli si riscuote. Sostenuto da due servi si leva e spira nel punto stesso; dal momento che il vapore che aumentava gli impedì, cosi come io penso, il respiro e gli serrò lo stomaco, già di sua natura debole, stretto e soggetto ad un frequente bruciore. Come fu giorno (era il terzo da quello della sua morte) il corpo di lui fu ritrovato intero ed illeso, con indosso i medesimi vestiti, ed in atteggiamento più di un uomo che dorme che di un uomo già morto. Io e mia madre eravamo intanto a Miseno. Ma ciò non riguarda questa storia; né tu da me volesti sapere altro che della sua morte. Dunque concluderò. Aggiungerò solo che ho fedelmente esposto tutto ciò che vidi io medesimo o che subito dopo (quando i ricordi sono più veritieri) intesi dagli altri. Tu tirane fuori il meglio, poiché altro è scrivere una lettera; altro (raccontare) una storia; altro parlare ad un amico; altro (parlare) a tutti. Addio.

Plinio il Giovane
Lettere, VI, 20\h

Caro Tacito
Tu dici che, mosso dalla lettera che io ti scrissi, a tua richiesta circa la morte di mio zio, desideri sapere (ciò che avevo cominciato e poi interrotto) non solo i timori, ma anche quali avvenimenti abbia io sofferto essendo rimasto a Miseno. Benché l'animo inorridisca a ricordare, comincerò. Partito lo zio, passai il restante tempo (perché ero rimasto per questo) a studiare, poi il bagno, la cena ed un sonno breve ed inquieto. Molti giorni prima si era sentita una scossa di terremoto; senza però che vi si desse molta importanza, perché in Campania è normale; ma in quella notte fu così forte che sembrò che non si scuotesse, ma che crollasse ogni cosa. La madre corse nella mia stanza, ed io pure mi alzavo per risvegliarla se mai dormisse. Ci sedemmo nel cortile della casa che la separava dal mare, per un breve tratto. Io non so se chiamarlo coraggio o imprudenza perché toccavo appena i 18 anni. Chiedo un volume di Tito Livio e così, per ozio, mi metto a leggere e continuavo anche a farne appunti. Quand'ecco un amico ed ospite dello zio, appena venuto dalla Spagna, alla vista mia e di mia madre seduti, ed io che per giunta leggevo, rimprovera lei per la propria indolenza e me di poco giudizio, ma non per questo io levai l'occhio dal libro. Già faceva giorno da un'ora e pur tuttavia la sua luce era incerta e quasi languente, già erano crollate le case intorno e benché fossimo in un luogo aperto ma angusto grande e certo era il timore di un crollo. Allora, finalmente ci parve bene di uscire dalla città. Ci segue una folla sbigottita e ciò che nello spavento appare come prudenza, antepone il proprio parere all'altrui e in gran massa incalza e preme chi fugge. Usciti dall'abitato ci fermammo. Quivi assistiamo a molti fenomeni e molti pericoli. Infatti i carri che ci facemmo venire dietro sebbene il terreno fosse pianeggiante andavano indietro e neppure con il sostegno di pietre restavano nello stesso punto. Inoltre si vedeva il mare riassorbito in sé stesso e quasi respinto dal terremoto. Certamente il litorale si era allargato e molti pesci restavano a secco. Dal lato opposto una nera ed orrenda nube squarciata dal rapido volteggiare di un vento infuocato si apriva in lunghe lingue di fuoco; esse erano come lampi e più che lampi. Allora, quel medesimo amico venuto dalla Spagna, con più forza ed insistenza: "Se tuo fratello, disse, se tuo zio vive, vi vorrebbe salvi; se è morto vorrebbe che voi gli sopravviviate; perché dunque indugiate a scappare?" Al che rispondemmo: "Non abbiamo l'animo, incerti della sua salvezza, di provvedere alla nostra". Egli non esita oltre e se la dà a gambe e a gran corsa si sottrae al pericolo; né passò molto tempo che quella nube discese a terra e coprì il mare. Aveva avvolto e nascosto Capri e tolto dalla vista il promontorio di Miseno. Allora la madre cominciò a pregarmi, a scongiurarmi, a ordinarmi, che, in qualunque modo io fuggissi; lo facessi io perché giovane; ella, appesantita dall'età e dalle (stanche) membra sarebbe morta felice di non essere stata la mia causa di morte. Ma io risposi di non volermi salvare che con lei; poi pigliandola per mano la costringo ad affrettare il passo; ella mi segue a stento e si lamenta perché mi rallenta (il cammino). Cadeva già della cenere, non però ancora fitta; mi volto e vedo sovrastarmi alle spalle una densa caligine che quale torrente spargendosi per terra ci incalzava. Deviamo, io dissi, finché ci si vede, per non essere travolti, una volta raggiunti, dalla folla che ci viene dietro. Appena fatta questa considerazione si fa notte, non di quelle nuvolose e senza luna, ma come quando ci si trova in un luogo chiuso, spente le luci. Avresti udito i gemiti delle donne, le urla dei bambini, le grida dei mariti; gli uni cercavano a gran voce i padri; gli altri i figlioli; gli altri i consorti; chi commiserava la propria sorte; chi quella dei suoi. Vi erano di coloro che, per timore della morte, la invocavano. Molti supplicavano gli dei; molti ritenevano che non ve ne fossero più e che quella notte dovesse essere l'ultima notte del mondo. Né mancavano quelli che con immaginari e bugiardi spaventi accrescevano i veri pericoli. Vi erano di quelli che, bugiardi, ma creduti, dicevano di venire da Miseno e che esso era una rovina e (completamente) incendiato. Fece un po' di chiaro; né questo ci sembrava giorno, ma piuttosto la luce del fuoco che si avvicinava. Se non che il fuoco si arrestò più lontano; nuova oscurità e nuovo nembo di fitta cenere; noi ci alzavamo a tratti per toglierla di dosso; altrimenti ne saremmo stati se non coperti schiacciati. Potrei gloriarmi che in tante calamità non mi sia uscito un lamento, né una parola men che virile, se non avessi trovato gran conforto alla morte il credere che in quel momento con me periva tutto il mondo. Finalmente si attenuò quella caligine e svanì come in fumo e nebbia; quindi fece proprio giorno ed apparve anche il sole, ma scolorito come suol essere quando è in ecclisse. Agli occhi ancor tremanti tutto si mostrava cambiato e coperto da un monte di cenere, come se fosse nevicato. Ritornati a Miseno e ristorate alla meglio le membra si passò una notte affannosa ed incerta tra la speranza ed il timore. Ma il timore prevaleva. Intanto continuavano le scosse di terremoto e molti, fuori di senno, con le loro malaugurate predizioni si burlavano del proprio e del male altrui. Noi, però, benché salvi dai pericoli ed in attesa di nuovi, neppure allora pensammo di partire, finché non si avesse notizia dello zio. Queste cose, non degne certamente di storia, le leggerai senza servirtene per i tuoi scritti; né imputerai che a te stesso, che me le hai chieste, se non ti parranno degne neppure di una lettera. Addio.

 


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