balneum»);
dilagano sopraelevazioni per guadagnare camere e servizi.
TECNICA ED ARTE
Gli stili architettonici impiegati negli edifici sono quelli
classici, individuabili per i caratteristici capitelli: dorico (a forma
anulare senza decorazioni); ionico (decorato e con grandi volute agli
angoli); corinzio (decorato da alte foglie di acanto); composito (fusione
del corinzio con lo ionico) che nelle costruzioni pompeiane assumono anche
caratteristiche proprie radicate soprattutto nella tradizione sannitica.
I tipi costruttivi pure si distinguono nettamente nelle varie epoche
denunciando così le date d’inizio e degli ampliamenti o dei rifacimenti di
ogni edificio. La prima (IV-III secolo a.C.) e la seconda epoca sannitica
(200-80 a.C.) passano dall’opera quadrata e incerta alle costruzioni con
blocchi di tufo. Il primo periodo romano (80 a.C.-14 d.C.) realizza
costruzioni con pietre irregolari e blocchetti quadrati messi a reticolato
diagonale. Il secondo e ultimo periodo romano (14 d.C.-79 d.C.) introduce
l’uso del mattone.
Gli stili pompeiani per la pittura e la decorazione delle pareti sono il
capitolo più interessante della manifestazione artistica di Pompei e sono
stati distinti in quattro stili. Primo stile, detto a incrostazione o
strutturale, (150-80 a.C.) perché si caratterizza con riquadri e bugne
imitanti il rivestimento di marmi colorati (v. Casa di Sallustio, del
Fauno). Secondo stile detto architettonico (80 a.C.-14 d.C. circa),
perché ha grandi riquadri con composizioni figurate alternate a prospettive
architettoniche realistiche (v. Casa di Obelio Firmo, del Labirinto, delle
Nozze d’Argento, della Villa dei Misteri). Terzo stile detto
egittizzante o ornamentale (inizio circa 14 d. C.) perché vi predomina il
gusto decorativo eseguito con perfetta cura dei dettagli e con straordinaria
finezza dell’esecuzione e del colore (v. Casa di Lucrezio Frontone, Cecilio
Giocondo). Quarto stile detto fantastico (inizio circa 62 d.C.)
poiché gli schemi, le architetture e le prospettive diventano del tutto
irreali e cariche di elementi ornamentali (v. Casa dei Vettii, degli Amanti,
del Menandro, di Loreio Tiburtino).
Tempio di Apollo - Particolare |
Anfiteatro |
Via Vesuvio e Castellum Aquae |
Il Foro Civile |
Via del Foro e Arco di Caligola |
Via dell'Abbondanza - Tratto Orientale |
Arco di Germanico |
Forno e Mulini |
Tempio di Giove |
Tempio di Apollo - Particolare |
Casa dei Vettii - Atrio |
Casa dei Vettii - Amorini Vinai |
Casa di Loreio Tiburtino Euripus |
Casa del Fauno - Atrio |
Casa della Fontana Grande - Ninfeo |
Antiquarum - Impronta di giovane donna |
Villa dei Misteri - Il sacrificio e Sileno che suona |
Villa dei Misteri - La Flagellata e la Baccante nuda |
LE TIPOLOGIE
La
scoperta di Pompei rivelò ai primi scavatori un'immagine del tutto
inaspettata della città antica e dei suoi monumenti. In particolare, i
differenti generi di abitazioni attirarono fin da allora l'attenzione di
studiosi e di visitatori. La casa romana infatti era il luogo in cui si
svolgeva gran parte della vita quotidiana e il mezzo attraverso il quale il
proprietario cercava di dare un'immagine del proprio benessere a chi si
recava a fargli visita. Conoscere le case della città, complete dell'arredo
e della decorazione originaria, significa conoscere la storia degli
abitanti.
La casa romana classica è composta da una serie di stanze raccolte attorno a
un grande ambiente chiamato atrio. L'atrio poteva essere interamente o
parzialmente scoperto è rappresentava il centro dell'abitazione. Al centro
dell'atrio si trovava una vasca chiamata impluvio, destinata a raccogliere
l'acqua piovana. L'atrio era detto tuscanico se il tetto che lo copriva non
aveva supporti che lo sorreggessero da terra, tetrastilo se il tetto era
sorretto da quattro colonne poste agli angoli dell'impluvio e corinzio se
attorno all'impluvio era disposto un vero proprio colonnato. L'ampio
ingresso faceva sì che l'interno fosse visibile anche dalla strada,
rivelando così ai passanti i segni della ricchezza dei proprietari. Questo
tipo di casa, specialmente la casa ad atrio tuscanico, ha origini molto
antiche ma è attestata a Pompei solo dal II secolo a. C., da quando cioè la
città sannitica venne assorbita nell'orbita culturale romana. Alla casa ad
atrio viene aggiunto con il passare del tempo un portico con giardino
chiamato peristilio posto generalmente subito dietro l'atrio e, se
possibile, in asse con esso. Si tratta di un elemento essenzialmente
decorativo. Attorno al peristilio si dispongono le grandi sale (oeci) da
banchetto o da ricevimento e in qualche caso anche delle piccole terme. Al
centro del peristilio si allestiva il giardino della casa. Alcune case con
peristilio furono costruite in posizione panoramica sul limite meridionale e
occidentale della città, cosicché dal giardino colonnato si potesse godere
anche della vista verso il Golfo di Napoli e la penisola sorrentina. Le case
ad atrio o ad atrio con peristilio erano le abitazioni dei ceti più elevati
della città. Si pensi che soltanto l'atrio raggiungeva mediamente una
superficie di circa 150 mq.
Esisteva naturalmente anche un genere di edilizia più popolare, che troviamo
concentrato principalmente nei quartieri orientali della città. Qui, in un
periodo compreso tra la fine del III e il II secolo a. C. venne infatti
costruita una serie di isolati paralleli occupati da case a schiera. Si
tratta abitazioni di dimensioni inferiori rispetto a quelle delle case ad
atrio, la cui superficie originaria era per metà occupata da ambienti
coperti e per metà da un giardino detto hortus. La parte abitata si
sviluppava anche in questo caso attorno a un ambiente centrale, quasi un
piccolo atrio, sempre scoperto. Con il passare del tempo molte delle
proprietà originarie vennero acquistate da pochi proprietari e gli isolati
si trasformarono in lussuose case dotate di enormi giardini.
Oltre alle abitazioni costruite entro le mure gli scavi ci hanno rivelato la
presenza di lussuose ville costruite presso la città, lungo le strade che
collegavano Pompei con le città vicine. Queste ville, come la villa di
Diomede o la villa dei Misteri, erano in realtà delle fattorie che
producevano olio e vino dove il padrone aveva allestito un quartiere
residenziale per sé, per la sua famiglia e per gli ospiti di riguardo.
Ritroviamo in queste ville tutti gli elementi delle dimore urbane ma, a
differenza delle case in città, qui il peristilio è sempre posto davanti
all'atrio e non viceversa.
L'ANFITEATRO
L'anfiteatro di Pompei è il più antico anfiteatro romano del mondo. Fu
costruito dai due magistrati che reggevano il governo della città (duoviri)
subito dopo la fondazione della colonia sillana e poteva ospitare fino a
20.000 spettatori. I magistrati si chiamavano Quinzio Valgo e Marco Porcio,
gli stessi che costruirono il teatro coperto. Spesso, nelle città
conquistate dai romani, accadeva che i grandi edifici da spettacolo
venissero costruiti in zone periferiche sia per il costo minore dei terreni,
sia per evitare i disagi dovuti all'affollamento degli spettatori nel centro
della città. Per la costruzione venne sfruttato l'aggere della
fortificazione più antica, che forniva un poderoso terrapieno a cui venne
addossata la fondazione delle gradinate orientali. Un nuovo terrapieno fu
invece realizzato appositamente per sostenere le gradinate occidentali.
Oltre la fortificazione non sappiamo cosa ci fosse in questa zona prima
della costruzione dell'anfiteatro, ma è possibile che vi si trovassero della
abitazioni private come nel caso della vicina palestra grande. Come nei
moderni teatri, le gradinate (cavea) erano divise in ordini di diversa
qualità, che avevano anche ingressi separati. A ridosso dell'arena, si
trovavano i posti migliori, riservati ai magistrati, ai membri del senato
locale (decurioni), agli organizzatori e finanziatori dei giochi. In caso di
eccessiva calura, gli spettatori potevano essere riparati da enormi teli
(vela) che venivano issati sopra la cavea e l'arena. Gli spettacoli
prevedevano combattimenti tra uomini e animali, oppure tra uomini e uomini,
ed erano seguiti da arbitri e giudici di gara, come spiegavano una serie di
affreschi dipinti tutto intorno all'arena e purtroppo oggi perduti. In
occasione degli spettacoli, intorno all'anfiteatro si svolgeva un mercato e
i venditori, con il permesso dei magistrati competenti (edili) potevano
addirittura utilizzare gli archi della struttura esterna come botteghe.
IL TEMPIO DI APOLLO
Il
santuario dedicato ad Apollo è il più antico luogo di culto di Pompei. Non
conosciamo l'aspetto originario dell'area sacra. Sulla base dei reperti più
antichi raccolti nei depositi votivi del santuario possiamo però stabilire
che il culto risale al VII secolo a. C. o addirittura al secolo precedente.
In quest'epoca così antica, non era stato costruito un tempio vero e
proprio, ma il culto doveva svolgersi in un'area aperta forse attrezzata con
uno o più altari. Il primo edificio fu costruito nel VI secolo a. C., ma
solo una parte delle terrecotte dipinte che decoravano il tetto si è
conservata. Il tempio che vediamo oggi fu costruito in età sannitica dal
questore Oppio Campano, come ricorda l'iscrizione posta sulla soglia della
cella. Poco tempo dopo, per permettere la realizzazione del Foro, l'area del
santuario venne ristretta. Il senato della colonia sillana fece porre presso
il tempio un altare in onore di Apollo. In età augustea, fu sistemato nel
santuario un orologio solare e venne elevato il muro occidentale per
togliere la vista alle case vicine. Dopo il terremoto del 62 d. C., tutta
l'area sacra venne naturalmente restaurata con grande cura. Apollo e il suo
tempio sono stati costantemente oggetto delle cure dei magistrati della
città e ciò ne sottolinea l'importanza. In età augustea si svolgevano
addirittura dei giochi in onore del dio, i ludi Apollinares. Il carattere
del culto, però, non è ancora del tutto chiaro. Sono due le ipotesi
possibili: o Apollo era il dio poliadico, cioè il protettore per eccellenza
della città, oppure era il dio che proteggeva le attività commerciali, da
sempre fonte di sostentamento e di ricchezza per gli abitanti di Pompei.
IL TERMOPOLIO DI ASELLINA
Tra tutti i locali e le botteghe che si aprono su via dell'Abbondanza, il
termopolio di Asellina è forse uno dei più piccoli. Termopolio è una parola
greca che vuol dire "luogo in cui si vendono bevande calde" e indica ciò che
noi chiameremmo un'osteria. In genere erano locali posti a uno degli angoli
dell'isolato in cui si trovavano, con un solaio in legno che sosteneva il
piano superiore. Qui gli avventori potevano riposare oppure incontrare
prostitute messe a disposizione dai gestori del locale. Nonostante le sue
dimensioni, questo termopolio doveva essere uno dei più famosi del
quartiere. Infatti, sulle pareti ai lati dell'ingresso, una serie di
iscrizioni parietali ricordano il sostegno dato dalla padrona e dalle
cameriere del locale ai candidati durante le elezioni. Erano tutte ragazze
di origine straniera come dimostrano i loro nomi (Smyrina, Aeglae e Maria)
tutti di origine greca o orientale. Al momento dello scavo fu rinvenuto sul
bancone tutto il servizio necessario all'attività del locale, composto da
vasi per bere o per conservare bevande calde e fredde. Si poteva frequentare
il termopolio anche la sera, come dimostra l'unica grande lampada di bronzo
che fungeva da lampadario, appesa al centro della volta.
IL TEMPIO DEL GENIO DI AUGUSTO
In età augustea, una sacerdotessa pubblica di nome Mammia costruì a sue
spese e su un suo terreno un piccolo tempio sul lato Est del Foro. Mammia
era un personaggio così importante a Pompei che il senato locale le concesse
una tomba sul suolo pubblico, nella necropoli di Porta Ercolano. Se
l'interpretazione dell'iscrizione che ricorda la dedica dell'edificio è
corretta, dovrebbe trattarsi di un tempio dedicato al Genio dell'imperatore
Ottaviano Augusto. La cronologia della struttura sembrerebbe confermare tale
ipotesi, ma non tutti gli studiosi concordano su questa interpretazione.
Tuttavia è certo che si tratti di un luogo riservato al culto
dell'imperatore, poiché sull'altare di marmo collocato al centro del cortile
è raffigurato il sacrificio di un toro, l'offerta che veniva fatta agli dei
per l'imperatore ancora vivente. Solo una piccola parte dell'edificio
originale è conservata: il piccolo tempio su podio forse con quattro colonne
sul fronte e una parte della facciata verso il Foro. Tutto il recinto e gli
ambienti retrostanti sono stati restaurati dopo il terremoto del 62 d. C.
LA BASILICA
Basilica è
una parola greca che vuol dire "sala del re". I Romani invece utilizzavano
questo termine per indicare gli edifici pubblici in cui si svolgevano gli
affari più importanti dei cittadini. Le basiliche, infatti, funzionavano
come borsa valori, luogo di vendita all'asta e al minuto, tribunale. Ecco
perché si tratta sempre di edifici di notevoli dimensioni situati nel luogo
più importante della città. A Pompei in particolare, la basilica si trova
vicinissima a uno degli ingressi alla città, lungo la strada che metteva in
comunicazione l'area del Foro con l'area del porto. La sua costruzione,
insieme a quella dei monumenti civili nella parte meridionale del Foro, si
può datare verso la fine del II secolo a. C. quando si decise di dotare
l'abitato di età sannitica di un nuovo centro monumentale. Prima di iniziare
la costruzione, furono distrutti gli edifici che sorgevano nella zona e il
pendio della collina fu ricoperto da uno spesso accumulo di terre e detriti
che creasse una vasta superficie regolare. Solo più tardi il suo ingresso
venne nascosto dal portico di Popidio, costruito negli anni immediatamente
precedenti o immediatamente successivi alla fondazione della colonia, per
nascondere le facciate irregolari degli edifici che chiudevano il Foro a
Sud.
LE OFFICINE E BOTTEGHE
Dato lo straordinario stato di conservazione in cui fu scoperta l'intera
città di Pompei, è stato possibile conoscere aspetti della vita quotidiana
meno monumentali o lussuosi quali per esempio piccole botteghe, officine di
artigiani o locali di ristoro. Le botteghe o i luoghi di vendita erano
sparse per tutta la città senza rispettare una particolare disposizione e,
il più delle volte, il genere prodotto o venduto era indicato sulla facciata
dell'edificio con un dipinto o con una placca in argilla a rilievo. Sono
stati individuati luoghi di vendita di olio, vino e latte, botteghe di
cuoiai, ciabattini e conciatori, di orefici, di fabbri ferrai e di muratori.
Sono stati riconosciuti i laboratori di pittori, stuccatori e scultori, le
officine per la produzione di sapone e di profumi, i luoghi dove i medici
ricevevano i loro pazienti e dove si vendevano medicine. Le botteghe più
numerose in città erano comunque quelle dei fornai, che macinavano il grano
con macine azionate da animali, cuocevano e vendevano il pane. Lungo le
strade erano numerosissime le caupone e i termopoli. Si trattava di taverne
e osterie in cui si poteva bere o mangiare e dove di frequente prestavano
servizio anche prostitute.
LA CAPRA
Per realizzare gli edifici antichi non bastavano i materiali da costruzione.
Un ruolo indispensabile era svolto dalle macchine per il sollevamento e il
trasporto delle parti già lavorate. Uno di questi macchinari era
particolarmente utilizzato dagli antichi per la sua facilità di costruzione
e di uso. Si chiamava capra o rechamum e veniva allestita a seconda delle
necessità. Occorrevano due travi di legno che venivano legate insieme ad
un'estremità e divaricate dall'altra. Questa struttura era assicurata a
terra con delle funi che fungevano da tiranti. In cima alle travi veniva
assicurato un verricello mentre verso la base si inseriva il rullo che
doveva fungere da argano. Il rullo era azionato da pertiche che venivano
inserite in appositi fori praticati alle sue estremità. Per azionare la
capra bastavano due operai, poichè il carico poteva essere alleggerito
notevolmente utilizzando una serie di rimandi di carrucole sulla parte della
fune che doveva sorreggere il carico. Nei casi in cui i carichi erano
particolarmente pesanti si poteva ricorrere a una ruota esterna alla
struttura principale, che richiedeva lo sforzo di almeno cinque persone.
LA CASA DEI CEII
Sul
fronte di questa casa sono dipinte nove iscrizioni con cui nove personaggi
diversi annunciano i loro programmi elettorali. Uno di questi è Lucio Ceio
che potrebbe essere stato l'ultimo proprietario della casa. Questa casa ha
conservato l'impianto originario delle piccole casette a schiera tipiche di
questo quartiere della città. Il poco spazio a disposizione non sembrerebbe
aver rappresentato un limite per i proprietari della casa che,
evidentemente, desideravano abbellirla secondo la moda corrente a partire
dal I secolo a. C., riproducendo cioè dentro la città gli elementi più
caratteristici delle villae, le dimore rurali dei ricchi proprietari
terrieri. Dopo l'atrio, che possiamo immaginare scoperto, si accede a un
piccolo peristilio su cui si affacciano quattro sale. Lo spazio è assai
esiguo e così tutti gli altri elementi necessari all'imitazione della villa
sono rappresentati sull'affresco che corre tutto intorno al peristilio. Sono
dipinte fontane con statue circondate da scene di caccia e vedute di
paesaggi che ricordano l'Egitto con tempietti lungo un grande fiume.
Successivamente, forse dopo il terremoto del 62 d. C., la casa fu dotata di
un secondo piano che non fu mai completato. Al momento dell'eruzione erano
pronte le stanze lungo la facciata, ma si stava ancora costruendo la parte
sopra il tablino.
LA CASA DEL CENTENARIO
La Casa del Centenario deve il suo nome al fatto di essere stata scoperta
nel 1879, anno in cui si celebrava il centesimo anno di scavo a Pompei da
parte delle autorità borboniche. Le dimensioni dell'edificio e la sua
decorazione interna ci testimoniano l'elevato livello economico del
proprietario della casa. Di questo personaggio sappiamo solo che doveva
essere un adoratore di divinità egiziane, come dimostrano le pitture e gli
oggetti per il culto rinvenuti nel primo ambiente sulla sinistra dell'atrio
principale. La zona circostante non è stata ancora interamente scoperta, ma
è possibile pensare che nel quartiere non dovessero mancare abitazioni di
pari livello, come, per esempio, la vicina casa di Obellio Firmo. Questa
casa fu costruita nel corso del II secolo a. C. e poi più volte restaurata
fino all'eruzione del 79 d. C. Gli ambienti interni sono raccolti in tre
nuclei principali, ciascuno posto su un lato del grande peristilio centrale.
Dall'ingresso principale si accedeva ai due atri e alle stanze riservate
alla famiglia del proprietario, direttamente comunicanti con il peristilio.
Sul lato opposto si trovavano le sale e gli ambienti per i ricevimenti,
utilizzati probabilmente in estate data la loro esposizione verso
settentrione. Separati dal peristilio da un corridoio troviamo infine gli
ambienti di servizio, le cucine, una stanza adibita alle terme e il
quartiere servile (ergastulum) dotato di un ingresso secondario
indipendente.
LA VILLA DI DIOMEDE
La parola villa in latino non è l'equivalente del corrispettivo termine
italiano. Indica piuttosto le fattorie o le case di campagna utilizzate per
la produzione agricola di cereali, olio, vino o per altri tipi di colture e
allevamenti. La Villa di Diomede però era una villa in cui era stata
ricavata anche una residenza signorile, una vera e propria domus fuori dalle
mura della città. Fu costruita nel II secolo a. C. con sale dipinte e
giardini pensili. Non conosciamo il nome del proprietario di questa
residenza ma il suo corpo fu rinvenuto durante lo scavo abbracciato a quello
di un servo presso l'uscita secondaria della villa. Portava con sè una
chiave, anelli d'oro e un sacchetto pieno di monete. Come gran parte delle
residenze di campagna anche la Villa di Diomede presentava la caratteristica
inversione del peristilio costruito prima dell'atrio. Dopo il peristilio, su
due lati dell'atrio si trovano le stanze padronali, riccamente decorate e
affacciate sulla costa. Sul lato restante si trovava l'appartamento del
custode della villa, il Procurator. Il quartiere servile si trovava sul lato
d'ingresso del fabbricato e qui erano custoditi tutti gli attrezzi necessari
al lavoro agricolo.
L'EDIFICIO DI EUMACHIA
Intorno al 2 d. C., una sacerdotessa pubblica e suo figlio, che di lì a poco
sarebbe stato eletto sommo magistrato cittadino (duumvir), fecero edificare
nel Foro un edificio più grande di tutti quelli che erano stati costruiti
fino ad allora e anche di quelli che furono costruiti in seguito. La
sacerdotessa si chiamava Eumachia, suo figlio Marco Numistro Frontone e
probabilmente costruirono l'edificio proprio durante la campagna elettorale.
Dopo il terremoto del 62 d. C., l'edificio venne pesantemente restaurato, ma
senza alterare il suo impianto originario. Come ricorda una monumentale
iscrizione incisa sull'architrave del portico verso la piazza del Foro,
l'edificio era composto da un vestibolo (chalcidicum) un colonnato (porticus)
e un ambiente sotterraneo (crypta). Il monumento era dedicato alla Concordia
Augusta e alla Pietas, due figure divine che simboleggiavano la pace
ritrovata dopo le guerre civili a opera di Ottaviano Augusto. Indirettamente
veniva realizzato così un atto di venerazione nei confronti dello stesso
imperatore. Nel 7 a. C. Livia, la moglie di Augusto, assieme con il figlio
Tiberio, il futuro imperatore e successore di Augusto, fece costruire per la
plebe di Roma un porticus con giardini, un vero e proprio spazio per il
tempo libero. Con la costruzione dell'edificio, Eumachia e suo figlio
vollero celebrare a Pompei la propria dedizione alla famiglia imperiale.
LA CASA DEL FAUNO
La
casa del Fauno è la più grande casa di Pompei e deve il suo nome alla statua
bronzea di Fauno che decora l'impluvio dell'atrio tuscanico. Si estende su
una superficie di circa 3000 mq. e si trova nel quartiere della città in cui
è concentrato il maggior numero di case "ad atrio" con peristilio. In questa
abitazione troviamo tutti gli elementi caratteristici dell'architettura
privata romana, ma duplicati e dilatati fino a creare una vera e propria
residenza che non trova confronto con nessun monumento conosciuto di Pompei
e dell'Italia romana. Basta considerare quante poche stanze per i bisogni
reali degli abitanti sono presenti nella casa in confronto alla superficie
degli atri e dei due peristili, per rendersi conto dell'intento
eminentemente celebrativo di questa architettura. La casa fu costruita nel
II secolo a. C. distruggendo un più antico edificio, databile alla fine del
III secolo a. C., di cui sono stati portati alla luce soltanto alcuni
ambienti. Il suo proprietario doveva essere certamente un personaggio molto
in vista nella comunità di Pompei in età sannitica e di alto livello
economico come dimostra il gran numero di oggetti d'oro e d'argento
rinvenuti durante lo scavo e la lussuosa decorazione delle stanze di uso sia
pubblico sia privato. Non conosciamo purtroppo il suo nome. Sappiamo
soltanto che fece scrivere sul marciapiede, di fronte all'ingresso
principale, il saluto in latino HAVE per ostentare la sua cultura in un
periodo in cui, a Pompei, si parlava la lingua osca. Un suo antenato doveva
aver avuto probabilmente dei rapporti con la corte di Alessandro Magno.
Forse per questo motivo la grande sala colonnata dopo il primo peristilio
venne decorata con il grande mosaico che raffigura la vittoria di Alessandro
sul re persiano a Isso.
LA CASA DELLA FONTANA
PICCOLA
A Pompei non c'erano soltanto case di
grandi dimensioni, ma anche piccole abitazioni. Il minore spazio non
sembrerebbe comunque aver rappresentato un limite per i proprietari che
desideravano abbellire la propria casa secondo la moda corrente a partire
dal I secolo a. C., riproducendo cioè, dentro la città, gli elementi più
caratteristici delle villae, le dimore rurali dei ricchi proprietari
terrieri. La casa della Fontana Piccola rappresenta uno degli esempi
migliori di questo fenomeno. Si tratta di una delle case più piccole
dell'isolato in cui è inserita, molto simile, per la disposizione degli
ambienti interni e per superficie totale, alle piccole case "a schiera" che
si trovano nelle Regioni I e II. Tuttavia dopo l'atrio, che possiamo
immaginare scoperto, si accede a un piccolo peristilio su cui si affacciano
due sale. Al centro del peristilio è costruita la fontana che dà il nome
alla casa. Tutto è realizzato in uno spazio assai esiguo e così tutti gli
altri elementi necessari all'imitazione della villa sono rappresentati
sull'affresco che corre tutto intorno al peristilio. La fontana infatti è
immaginata entro un giardino riccamente decorato con piante e animali e
circondato da vedute di paesaggi di campagna o marittimi.
LA PIAZZA DEL FORO
Il
Foro era la piazza principale della città. Era chiuso al traffico e vi si
poteva accedere soltanto a piedi. Qui erano concentrati tutti i monumenti
necessari all'amministrazione politica, giudiziaria e alla vita religiosa ed
economica della città, ma una vera e propria piazza monumentale fu costruita
soltanto nel II secolo a. C. in un'area sostanzialmente priva di edifici più
antichi. Si dovette comunque abbattere una parte del muro perimetrale del
vicino santuario di Apollo, che avrebbe altrimenti invaso lo spazio
riservato alla nuova area aperta. In questa fase, la piazza era pavimentata
in lastre di tufo e aveva già una superficie totale di 5396 mq. Furono
subito costruiti tutti gli edifici sui lati Nord Ovest e Sud della piazza,
mentre sul lato Est si trovavano il primo macellum, taverne e forse
abitazioni private, distrutte in seguito per fare spazio a nuovi monumenti.
Per nascondere in parte il prospetto irregolare degli edifici della zona
meridionale della piazza, il questore Vibio Popidio fece costruire un doppio
porticato negli anni intorno alla fondazione della colonia sillana e poco
dopo fu restaurato anche il tempio di Giove sul lato opposto della piazza.
Un interesse maggiore per la sistemazione del Foro sorse in età augustea tra
la fine del I secolo a. C. e l'inizio del I sec. d. C. La vecchia
pavimentazione in tufo venne sostituita da una nuova in travertino su cui
venne scritto in grandi lettere di bronzo il nome, purtroppo ormai
illeggibile, del donatore. Sul lato Est vennero costruiti una serie di
edifici dedicati al culto dell'imperatore, venne restaurato l'antico
macellum, gli ingressi alla piazza vennero trasformati in archi monumentali.
Infine una particolarità: il Foro di Pompei è uno dei pochi del mondo romano
in cui le statue onorarie non sono concentrate al centro della piazza, ma
disposte sui lati o addirittura sotto il porticato.
IL TEMPIO DELLA FORTUNA AUGUSTA
Il tempio
della Fortuna Augusta è il primo tempio di Pompei dedicato esplicitamente
alla venerazione dell'imperatore. Autore della dedica fu un certo Marco
Tullio, della famiglia latina dei Tulli, la stessa da cui discendeva
Cicerone, che svolse la sua carriera politica tra il 25 e il 2 a. C.
All'interno fu sistemata la statua di Augusto assieme a quelle dei dedicanti
o, secondo un'ipotesi alternativa, a quelle dei suoi successori fino al
terremoto del 62 d. C. Si dovette trattare di una dedica piuttosto gravosa,
poiché il tempio fu realizzato a proprie spese e ricoperto interamente di
marmo. Anche il terreno su cui fu costruito l'edifico sacro apparteneva al
dedicante. È interessante notare che, anche se questa costruzione doveva
rappresentare la dedizione all'imperatore, non fu costruito nel Foro. Forse
prima della fine del I secolo a. C., epoca in cui furono costruiti
l'edificio di Eumachia e il tempio di Augusto, acquistare una proprietà
presso il Foro aveva un costo troppo elevato oppure era ancora troppo presto
per far affacciare sulla piazza principale un edificio di culto dal
carattere politico così evidente.
LA FULLONICA
A Pompei sono note quattro fulloniche; la Fullonica di Stephanus è la più
grande di queste e occupa una superficie pari a quella di un'intera casa. La
fullonica era una lavanderia, dove si potevano lavare le stoffe ma anche
tingerle o lavorarle. Deve il suo nome all'iscrizione dipinta sulla facciata
della casa con la quale un certo Stephanus, forse il padrone dell'officina,
raccomanda di votare per un candidato alle elezioni per i magistrati della
colonia. Da un ampio ingresso, dove si trovava una pressa, si accedeva a un
atrio. Qui si trovava l'impluvio trasformato in vasca per il lavaggio delle
stoffe. Gli ambienti infatti erano coperti da un terrazzo su cui venivano
stesi i panni lavati. Altre tre vasche comunicanti e cinque cosiddetti
bacini pestatoi si trovavano nel peristilio. Nella stessa area si trovava la
cucina per gli schiavi che lavoravano nella fullonica (gli operai liberi
potevano andare a mangiare a casa) e una latrina. Il lavaggio avveniva in
varie fasi. Prima si pestavano i tessuti con i piedi nei bacini pestatoi in
acqua mista a soda o ad urina (umana o animale) per smacchiarli. Poi
venivano ammorbiditi con argilla o terra, battuti con l'ausilio della pressa
per ricondensarne la trama e infine risciacquati in acqua per eliminare le
sostanze fulloniche.
IL TEMPIO DI GIOVE
Tra la fine del III e l'inizio del II secolo a. C., quando si volle creare
una piazza monumentale presso l'ingresso alla città dal porto, venne
costruito anche il tempio sul lato settentrionale della piazza. L'edifico
che vediamo è il risultato dei rinnovamenti successivi che hanno modificato
la struttura originaria del tempio. Di questa resta soltanto il podio,
comune alla maggior parte dei santuari di Pompei, che li identifica come
templi del tipo etrusco-italico. Questo podio è cavo all'interno poiché è
costituito da tre camere allineate coperte a volta. In questi sotterranei
venivano depositati tutti i doni votivi portati al tempio e le attrezzature
necessarie per lo svolgimento dei riti. Forse, al momento della fondazione
della colonia sillana, la parte superiore del tempio fu modificata con
l'erezione delle sei colonne di ordine corinzio sulla facciata. Durante lo
scavo, fu rinvenuto tra le macerie della cella un colossale busto di un
personaggio maschile seduto, probabilmente parte della statua di culto,
identificato come Giove. Da qui l'ipotesi che il tempio fosse
originariamente dedicato a Giove e poi trasformato nel tempio principale
della città, il Capitolium, localizzato nel Foro come nella gran parte delle
colonie fondate da Roma.
LA PRAEDIA DI GIULIA
FELICE
Il nome di Giulia Felice ci è stato
conservato da un'iscrizione in cui annunciava di essere disposta ad
affittare per cinque anni una parte della sua proprietà immobiliare, dopo il
disastroso terremoto del 62 d. C. Il complesso è infatti diviso in due
parti, con ingressi indipendenti, di cui una, più bella e riccamente
decorata, era privata e l'altra, con una stanza adibita alle terme, era
pubblica. Ritroviamo qui tutti gli elementi presenti nella Casa del
Centenario come il doppio atrio, il grande peristilio al centro
dell'edificio, un quartiere separato dagli ambienti del proprietario o di
rappresentanza, ma combinati in modo diverso. Anche qui era venerata una
divinità egiziana (Iside) in un sacello posto nel peristilio. La
proprietaria non si era comunque limitata a ingrandire e ad abbellire la sua
casa. Aveva voluto ricreare uno spazio che simboleggiasse allo stesso tempo
il paesaggio selvaggio e roccioso sacro al dio Pan e i giardini delle
accademie filosofiche greche. Infatti il triclinio che si apriva sul
peristilio è rivestito di frammenti di calcare come se fosse una grotta da
cui, grazie a una conduttura, sgorgava dell'acqua che veniva incanalata in
una piccola cascata. Nel giardino al centro del peristilio c'è una peschiera
(euripus), attraversata da tre ponticelli e sul lato opposto statue in
terracotta di sapienti e filosofi erano sistemate nelle nicchie ricavate
lungo il muro.
LA PALESTRA DEI GLADIATORI
Il quadriportico costruito dietro la scena del Teatro grande viene
comunemente chiamato "Caserma dei gladiatori". Questa definizione rispecchia
però soltanto l'uso più recente dell'edificio che era stato costruito nel I
secolo a. C. con diversa funzione. Purtroppo però non è ancora certo quale
fosse questa funzione originaria. Generalmente i teatri romani e greci
venivano dotati di un portico costruito dietro la scena (porticus post
scaenam) per offrire agli spettatori un luogo in cui passeggiare e attendere
durante gli intervalli degli spettacoli. Il Teatro grande e il quadriportico
non sono però disposti sullo stesso asse, cosa difficile da spiegare se si
trattasse dello stesso monumento. Si è allora pensato di riconoscere nel
quadriportico un ginnasio, un luogo cioè dove i giovani della città potevano
praticare sport e avere una formazione artistica e culturale. Dopo il
terremoto del 62 d. C. tutto il monumento venne restaurato. Le pitture che
raffigurano trofei e scene gladiatorie, le dimensioni delle piccole celle ai
lati del porticato, la scoperta di armature da gladiatore, di abiti da
parata ricamati in oro e di ceppi di ferro con cui incatenare gli schiavi,
dimostrano chiaramente il nuovo uso che si fece del monumento.
IL TEMPIO DI ISIDE
La
costruzione del Tempio di Iside si inserisce nel progetto di
monumentalizzazione del quartiere attorno ai teatri. Verso la fine del II
secolo venne costruito infatti il recinto porticato dell'area sacra con il
tempio al centro. Iside era una divinità egiziana. Il suo culto fu creato
appositamente nel III secolo a. C. da Tolomeo I, il generale di Alessandro
Magno divenuto faraone dell'Egitto conquistato dai Greci, per favorire
l'unione tra due popoli così diversi tra loro. Furono infatti uniti nella
stessa divinità elementi di culto egiziani ed ellenici. Il culto ebbe
comunque grande fortuna anche fuori dall'Egitto e giunse ben presto in
Campania grazie ai commercianti orientali che frequentavano lo scalo di
Pozzuoli. Per venerare una divinità straniera fu costruito così un tempio
che utilizzava tutti gli elementi ricorrenti nell'architettura sacra del
momento, pur essendo diverso da tutti gli altri santuari della città. Dopo
il terremoto, il santuario fu completamente ricostruito. Del tempio
originario resta soltanto una parte del podio. Con il restauro si operò
addirittura un'estensione dell'area sacra a danno della vicina palestra
sannitica. Due ambienti che appartenevano originariamente alla palestra
furono infatti utilizzati per creare una grande sala per le cerimonie e un
nuovo ingresso monumentale.
LA PRAEDIA DI GIULIA
FELICE
Il nome di Giulia Felice ci è stato
conservato da un'iscrizione in cui annunciava di essere disposta ad
affittare per cinque anni una parte della sua proprietà immobiliare, dopo il
disastroso terremoto del 62 d. C. Il complesso è infatti diviso in due
parti, con ingressi indipendenti, di cui una, più bella e riccamente
decorata, era privata e l'altra, con una stanza adibita alle terme, era
pubblica. Ritroviamo qui tutti gli elementi presenti nella Casa del
Centenario come il doppio atrio, il grande peristilio al centro
dell'edificio, un quartiere separato dagli ambienti del proprietario o di
rappresentanza, ma combinati in modo diverso. Anche qui era venerata una
divinità egiziana (Iside) in un sacello posto nel peristilio. La
proprietaria non si era comunque limitata a ingrandire e ad abbellire la sua
casa. Aveva voluto ricreare uno spazio che simboleggiasse allo stesso tempo
il paesaggio selvaggio e roccioso sacro al dio Pan e i giardini delle
accademie filosofiche greche. Infatti il triclinio che si apriva sul
peristilio è rivestito di frammenti di calcare come se fosse una grotta da
cui, grazie a una conduttura, sgorgava dell'acqua che veniva incanalata in
una piccola cascata. Nel giardino al centro del peristilio c'è una peschiera
(euripus), attraversata da tre ponticelli e sul lato opposto statue in
terracotta di sapienti e filosofi erano sistemate nelle nicchie ricavate
lungo il muro.
IL TEMPIO DEI LARI PUBBLICI
Il cosiddetto Tempio dei Lari Pubblici è l'ultimo monumento a essere stato
costruito intorno alla piazza del Foro. Non si tratta di un tempio dedicato
ai Lari, cioè gli dei protettori della città. Come tutti gli edifici
costruiti o restaurati sul lato Est del Foro tra la fine del I secolo a. C.
e la metà del I secolo d. C. (edifico di Eumachia, tempio di Augusto,
Macellum) è un edificio dedicato al culto dell'imperatore. Non sappiamo con
esattezza cosa ci fosse in quest'area prima della costruzione del nostro
edificio, probabilmente botteghe e forse anche case private. Per la
costruzione di questo monumento, databile agli anni successivi al terremoto
del 62 d. C., furono comunque interrotte due strade che consentivano di
accedere alla piazza del Foro. Questa struttura, completamente aperta sul
Foro, probabilmente senza tetto e decorata con marmi di vari colori, non
assomigliava molto a un tempio. Si presentava piuttosto come un grande
cortile destinato ad accogliere una serie di sculture nelle nicchie che lo
circondavano, una galleria di statue che dovevano rappresentare i membri
della famiglia imperiale. Dopo il terremoto, Nerone partì da Roma per
visitare personalmente le città campane colpite dal sisma per dimostrare
l'attenzione dell'imperatore verso i suoi sudditi in difficoltà. In questo
quadro possiamo immaginare la dedica del nostro edificio.
LA CASA DI OCTAVIO QUARTIO
Anche per questa casa, conosciamo il nome del proprietario grazie al
ritrovamento di un sigillo bronzeo in una delle stanze da letto (cubiculum)
intorno all'atrio. Si chiamava Decio Ottavio Quartio e continuò a lavorare
per abbellire la sua casa fino al momento dell'eruzione, senza poter
terminare i lavori. La sua casa si trovava all'interno di un isolato che
doveva ospitare in origine ben nove case, ma dopo il terremoto del 62 d. C.,
Ottavio Quartio trasformò integralmente l'aspetto dell'isolato, distruggendo
tutte le vecchie proprietà tranne una. Al loro posto fece costruire una
piccola casa ad atrio tuscanico e un enorme giardino, decorato come le più
lussuose ville dell'aristocrazia romana. L'esigenza di risparmiare spazio
per il giardino era tale che il peristilio della casa fu inserito in modo
maldestro dentro il tablino. Come nel peristilio di Giulia Felice, si cercò
di riprodurre, all'interno della casa, paesaggi e ambienti esterni e
lontani. Tutto il giardino è attraversato da un canale (euripus) con
fontanelle e ponticelli, posto sotto un pergolato e circondato da statue di
divinità fluviali e orientali, di muse, di personaggi legati a Bacco, il dio
del vino. Il canale non si trovava esattamente al centro del giardino, ma
era stato intenzionalmente realizzato in asse con la sala principale della
casa, collocata di fianco al peristilio/tablino e aperta su una terrazza
porticata, da cui si poteva godere lo spettacolo dell'acqua che scorreva e
del giardino fiorito e decorato.
LE LUPANARE
A Pompei sono noti circa venticinque bordelli, quasi tutti posti presso un
incrocio di strade secondarie. Questo è il più grande, costruito
appositamente per questo scopo, con dieci stanze distribuite su due piani.
In genere, infatti, i bordelli erano associati a taverne e osterie oppure
ricavati in stanze singole con porta direttamente sulla strada. L'atrio e le
porte delle stanze erano decorate con pitture a carattere erotico. In ogni
stanza c'era un basamento in muratura su cui veniva appoggiato un materasso.
In questo edificio abbiamo una delle prove che l'attività di restauri
imposta dai terremoti che caratterizzarono gli ultimi anni della vita di
Pompei, fu praticamente ininterrotta fino alla disastrosa eruzione del 79.
Sull'intonaco di una delle celle al primo piano sono impresse le tracce di
monete coniate nell'anno 72.
IL MACELLUM
Macellum è forse una parola fenicia che vuol dire "recinto" e i Romani e i
Greci ricevettero probabilmente dai Fenici il modello per questo tipo di
monumento. Il Macellum era il mercato delle carni e del pesce. Come l'altro
mercato alimentare, il Foro Olitorio, si trovava presso il Foro fin dal
momento della sistemazione monumentale di questa piazza nel corso del II
secolo a. C., ma in un settore un po' appartato rispetto agli altri
monumenti. Come in molti monumenti di Pompei, gli interventi successivi al
terremoto del 62 d. C. hanno nascosto i resti delle fasi più antiche del
monumento. Tuttavia l'aspetto del macellum non dovrebbe essere cambiato di
molto nel corso dei secoli. Tutte le decorazioni che possiamo osservare
risalgono però all'ultima fase di vita dell'edificio. Nel portico erano
rappresentate scene della mitologia greca mentre nell'ambiente di vendita
più grande troviamo personificazioni del fiume Sarno e paesaggi marittimi.
Sono i luoghi da cui proveniva la merce. Nonostante la sua specifica
funzione, anche questo edificio fu deputato alla celebrazione della famiglia
imperiale, come tutti quelli che furono costruiti sul lato Est del Foro
dall'età di Augusto in poi. Sul lato in fondo al cortile, venne infatti
costruito un piccolo tempio in cui vennero collocate le statue
dell'imperatore, dei dedicanti e dei membri della famiglia imperiale.
LA CASA DEL MENANDRO
Questa abitazione faceva parte dei possedimenti di una potente e ricca
famiglia pompeiana, i Poppei, che vantava il fatto di essere imparentata con
Poppea, la seconda moglie dell'imperatore Nerone. La stessa famiglia
possedeva a Pompei la Casa degli Amorini dorati, una fornace e aveva visto
eleggere diversi suoi membri alle magistrature cittadine. Il nome attuale è
dovuto a un dipinto nel peristilio che ritrae il famoso poeta greco. La casa
del Menandro rappresenta uno degli esempi più classici del tipo di casa
romana con peristilio, conservato qui nel semplice schema originario, in
asse con l'atrio. Intorno al peristilio, come di consueto, si aprono piccoli
ambienti, una stanza adibita alle terme e un triclinio che è, al momento, il
più grande di Pompei. La casa si sviluppa su due piani. Il corpo centrale è
infatti costruito a un livello superiore rispetto a quello del cortile con
il forno e i sotterranei e a quello dell'ergastulum, il quartiere riservato
ai servi. Per fare ciò dovettero essere interrate alcune stanze delle
abitazioni che occupavano l'isolato prima della realizzazione di questa
unica, grande dimora nel I secolo a. C. Lo scavo ha restituito una serie di
oggetti molto interessanti per ricostruire la vita che si svolgeva nella
casa, primo fra tutti un intero servizio di argenteria, avvolto in panni di
lana, accuratamente custodito in una cassa di legno posta nei sotterranei
del cortile. Nel quartiere servile invece erano conservati un carro, un
corredo di attrezzi agricoli, anfore con miele, aceto, vino di Sorrento e
una con una scritta che raccomandava di riempirla con salsa di pesce di
prima qualità.
LA NECROPOLI DI PORTA ERCOLANO
Al di fuori della porta che guardava verso Ercolano, si sviluppò una
necropoli a partire dalla fondazione della colonia sillana. Sono state
individuate e scavate circa trenta tombe, tutte databili tra l'80 a. C. e il
79 d. C. Qui furono sepolti tra gli altri Marco Porcio, il costruttore del
Teatro Coperto e dell'Anfiteatro e Mammia, la sacerdotessa che dedicò il
tempio del Genio di Augusto nel Foro. Il rito più usato era quello
inumatorio e anche l'abitudine di costruire tombe familiari era assai
diffusa, anche se non mancavano inumazioni e tombe singole. In questo
settore, seppure non eccessivamente esteso, erano presenti tutti i tipi di
tombe comuni in questo periodo. Il più attestato è il tipo a edicola su
podio, in cui veniva sistemata l'urna con le ceneri del defunto. Al posto
dell'edicola si poteva costruire anche un altare, ma il tipo di costruzione
restava sostanzialmente lo stesso. Ci sono anche tombe semicircolari, dette
a schola e piuttosto diffuse in età augustea, e tombe costituite da una
facciata monumentale che nasconde un recinto, in genere alberato, in cui
venivano sepolte le urne. Dopo il terremoto del 62 d. C. le autorità della
città posero, nella zona della necropoli subito all'esterno della porta,
come a Porta Vesuvio e a Porta Nocera, un'iscrizione che sanciva il recupero
dei terreni entro il limite pomeriale, abusivamente occupato dai privati per
le loro tombe.
LA NECROPOLI DI PORTA ERCOLANO
Al di fuori della porta che guardava verso Ercolano, si sviluppò una
necropoli a partire dalla fondazione della colonia sillana. Sono state
individuate e scavate circa trenta tombe, tutte databili tra l'80 a. C. e il
79 d. C. Qui furono sepolti tra gli altri Marco Porcio, il costruttore del
Teatro Coperto e dell'Anfiteatro e Mammia, la sacerdotessa che dedicò il
tempio del Genio di Augusto nel Foro. Il rito più ricorrente era quello
inumatorio e l'abitudine di costruire tombe familiari era assai diffusa,
anche se non mancano inumazioni e tombe singole. In questo settore, seppure
non eccessivamente esteso, erano presenti tutti i tipi di tombe comuni in
questo periodo. Il più attestato è il tipo a edicola su podio, in cui veniva
sistemata l'urna con le ceneri del defunto. Al posto dell'edicola si poteva
costruire anche un altare, ma il tipo di costruzione restava sostanzialmente
lo stesso. Ci sono anche tombe semicircolari, dette a schola e piuttosto
diffuse in età augustea e tombe costituite da una facciata monumentale che
nasconde un recinto, in genere alberato, in cui venivano sepolte le urne.
Dopo il terremoto del 62 d. C. le autorità della città posero, nella zona
della necropoli subito all'esterno della porta, come a Porta Vesuvio e a
Porta Nocera, un'iscrizione che sanciva il recupero dei terreni entro il
limite pomeriale, abusivamente occupato dai privati per le loro tombe.
LA NECROPOLI DI PORTA NOCERA
All'esterno di Porta Nocera la necropoli si sviluppò seguendo il percorso
della strada che conduceva a Nocera. Questa è la zona sepolcrale in cui sono
state riportate alla luce alcune delle tombe più monumentali di Pompei. I
sepolcri sono quarantaquattro, tutti databili tra la fondazione della
colonia sillana e l'eruzione del 79 d. C. Il tipo più attestato è quello
costituito da un dado in calcestruzzo, decorato da elementi architettonici,
che nasconde la camera sepolcrale. Non mancano tuttavia più semplici tombe a
esedra o a edicola su podio. Qui vennero sepolti Eumachia, la sacerdotessa
che dedicò l'edificio di Eumachia nel Foro e Lucio Ceio Serapio, liberto
della famiglia che abitava nella casa detta dei Ceii. Questo personaggio,
vissuto nel I secolo a. C., fu probabilmente il più antico banchiere di
Pompei. Dopo il terremoto del 62 d. C., le autorità della città posero nella
zona della necropoli subito all'esterno della porta, come a Porta Vesuvio e
a Porta Ercolano, un'iscrizione che sanciva il recupero dei terreni entro il
limite pomeriale, abusivamente occupato dai privati per le loro tombe.
Questa necropoli non ha conservato soltanto le tracce della cura che i
Pompeiani prestavano ai loro defunti. Alcuni graffiti di argomento erotico
incisi sulle tombe sono il ricordo delle coppie che venivano ad appartarsi
qui!
LA CASA DELLE NOZZE D'ARGENTO
Alla casa delle Nozze d'argento spetta il primato di possedere il più grande
atrio tra le case di Pompei. Si tratta del tipo più elaborato tra gli atri
romani, detto tetrastilo perché intorno all'impluvio venivano collocate
quattro colonne per sorreggere il tetto. Anche di questa casa conosciamo
l'ultimo proprietario che si chiamava Lucio Albucio Celso. Nonostante le
successive acquisizioni di ambienti a danno delle case vicine, questa casa
ha conservato intatto l'impianto originario, databile al II secolo a. C.,
con atrio e peristilio in asse con l'ingresso. Più tardi, forse dopo il
terremoto del 62 d. C., la casa fu completata con il grande giardino
porticato, decorato da una vasca centrale in asse con un piccolo triclinio
all'aperto. Come nella Casa di Menandro, anche qui troviamo una stanza
adibita alle terme presso il peristilio, ma di dimensioni minori, con
decorazioni meno sfarzose e unita alla cucina della casa. Una particolarità
di questa abitazione è la struttura del peristilio, del tipo cosiddetto
"rodio". Il colonnato su uno dei lati, il più esposto al sole, era più alto
di quello sugli altri tre per poter avere una parte della casa sempre
illuminata dal sole, anche nel periodo invernale.
LA VILLA DEI MISTERI
Negli ultimi decenni del II sec. a.C. prese il via la moda, da parte
dell'aristocrazia romana, di costruirsi lussuose ville in Campania. Lungo
tutta la costa, dai Campi Flegrei a Punta della Campanella, i più importanti
personaggi storici di Roma vennero a costruire le loro ville: da Scipione
l'Africano che possedeva una villa a Liternum, alla figlia Cornelia, che
nella villa di Miseno educò i suoi figli, i celebri Gracchi, a Mario, Silla,
Pompeo, Cesare, Bruto, Cicerone. Una accanto all'altra, prima sulle colline,
poi sempre più vicine al mare, e infine nel mare stesso, grazie alla
scoperta di una malta idraulica che permetteva di costruire nell'acqua,
sorsero ville lussuosissime, ove i ricchi romani potevano godere del
meritato riposo dopo le fatiche della città. Queste ville erano tutte dotate
di giardini e fontane con scenografici giochi d'acqua, piscine
"olimpioniche", ricchi settori termali, statue ornamentali e fastose
decorazioni parietali e pavimentali.
Per quanto numerosi siano i resti archeologici, essi non sono in grado di
dare l'idea della ricchezza architettonica e decorativa di queste ville. La
ricostruzione che Paul Getty ha fatto realizzare a Malibu (California) della
Villa dei Papiri, e la Villa di Oplontis a Torre Annunziata, danno forse
l'idea migliore delle dimensioni e della ricchezza degli ambienti di queste
ville.
Ma accanto a queste ville di villeggiatura, chiamate dai Romani, "ville di
ozio" (otium) esisteva un altro tipo di villa, definita rustica, che era
destinata alla produzione agricola. L'eccezionale fertilità del territorio
campano, il clima mite che permetteva diversi raccolti durante l'anno,
determinarono il proliferare anche di questo tipo di villa. Nell'area
circostante Pompei (Boscoreale, Boscotrecase, Scafati, Angri, Terzigno),
sono state scoperte un centinaio di antiche fattorie, molte delle quali sono
state nuovamente sepolte dopo essere state private degli oggetti e delle
pitture che contenevano. Le ville rustiche erano generalmente di medie
proporzioni, distinte in un quartiere residenziale per il proprietario (pars
urbana), e un quartiere servile (pars rustica) con le stalle, gli impianti
produttivi, le abitazioni dei servi. Le ville rustiche potevano essere
abitate direttamente dal proprietario, ma più spesso la conduzione della
tenuta era affidata a un colono (vilicus). La manodopera era costituta
prevalentemente da schiavi, ma non mancava anche personale di condizione
libera. Il vino era il prodotto principale delle numerose aziende agricole
sparse nel territorio dell'antica Pompei. Estesi vigneti esistevano sulle
pendici del Vesuvio, sulle colline adiacenti e nella stessa città.
Gli autori antichi ci tramandano i nomi dei maggiori vitigni dell'area
vesuviana: l'Aminea, caratterizzata da grossi grappoli, la Pompeiana, la
Holconia, la Vennuncula. Abbondante era anche la produzione di olio, frutta
e cereali, e l'allevamento del bestiame. In alcuni casi una proprietà
agricola poteva comprendere anche ambienti residenziali di lusso, mentre una
villa al mare poteva essere circondata da terre produttive, e attrezzata con
tutto il necessario per sfruttarne le risorse agricole. La Villa dei Misteri
a Pompei costituisce uno dei migliori esempi di queste ville suburbane,
signorili e rustiche insieme, che sorsero numerose nel territorio vesuviano,
unendo la parte residenziale lussuosa, ad una zona produttiva.
O scavo della Villa, condotto fra il 1909 e il 1910 dallo
stesso proprietario del terreno ove fu scoperto l'importante edificio, fu
ripreso in modo scientifico negli anni 19291930, dopo l'esproprio dell'area
da parte dello Stato Italiano. Nel 1931 l'archeologo Amedeo Maiuri fornì la
prima edizione del complesso, corredata da splendide tavole a colori. Fin
dal primo momento la scoperta suscitò il più vivo interesse, grazie
soprattutto al ritrovamento di un ciclo pittorico importantissimo, da cui la
villa prende il nome, e sulla cui interpretazione oggi ancora si discute.
Nel corso dello scavo non fu recuperata molto suppellettile, né oggetti di
lusso, come ci si sarebbe aspettati da una dimora tanto signorile. Ciò ha
indotto gli studiosi a supporre che il settore padronale della Villa non
fosse abitato al momento dell'eruzione, forse a causa dei lavori di
ristrutturazione che vi si stavano eseguendo. Al contrario la presenza di
numerosi attrezzi agricoli e di altro materiale, ha dimostrato che la parte
rustica era abitata, così come gli alloggi per gli schiavi. Questo dato è
stato confermato anche dal ritrovamento di scheletri umani - molto
probabilmente si trattava di personale di servizio - tornati alla luce
proprio nella parte servile della casa.
Una prima vittima si rinvenne nel vestibolo d'ingresso della Villa. Vi si
riconobbe il corpo di una giovinetta che forse aveva cercato di uscire di
casa per tentare una via di scampo attraverso i campi, ma era stata
soffocata dalla nube di cenere e gas sprigionatasi dal vulcano nelle ultime
fasi dell'eruzione. Il corpo di un uomo fu invece ritrovato nello stanzino
n. 35, ove si era rifugiato sperando di ripararsi dalla tempesta di ceneri e
lapilli che imperversava fuori. Durante lo scavo fu effettuato il calco
dell'uomo: attraverso il vuoto lasciato dalla decomposizione del corpo nella
cenere solidificata, venne colato del gesso liquido che una volta rappreso
ha restituito l'immagine della vittima. Altre tre donne si erano rifugiate
nelle stanze del piano superiore del vestibolo. Sotto il peso dei lapilli le
scale erano crollate, lasciando le sventurate tagliate fuori da ogni
possibilità di fuga. In seguito l'intero pavimento della stanza crollò ed i
corpi precipitarono nell'ambiente sottostante (n. 55), ove furono ritrovati
dagli scavatori. Infine altri quattro corpi furono trovati nel criptoportico
della Villa.
La Villa dei Misteri é forse l'edificio più noto ed ammirato di Pompei, e
non senza motivo, sia perché é il più bello e completo esempio di una grande
villa suburbana, sia perché i suoi vari ambienti sono decorati con pitture
di alto livello artistico, in particolare la sala tricliniare ove é il
grandioso fregio figurato che ha dato il nome alla villa. Lo scavo, iniziato
nel 1909-10 e poi proseguito nei decenni successivi non é ancora completato,
ma ne resta sotterra soltanto una piccola parte che si presume poco possa
aggiungere a quanto già conosciamo.
Il primo impianto della villa risale al II secolo avanti Cristo, e
successivamente essa subì vari ampliamenti e rifacimenti: sorta come dimora
signorile sullo schema dell'abitazione urbana ebbe il suo momento di
splendore in età augustea ed in questo stesso periodo entrò a far parte del
dominio imperiale. Dopo il terremoto dell'anno 62 decadde a villa rustica;
gli ultimi suoi proprietari appartenevano alla famiglia degli Istacidi. E'
un grande edificio quadrilatero costruito sopra un terreno scosceso sicché
in parte poggia sopra un terrapieno ed un criptoportico L'ingresso, non
completamente messo in luce, si trova su di una strada di cui si conosce
solo un breve tratto, e che forse era collegata con la Via delle Tombe.
Ai lati dell'ingresso si sviluppa il quartiere rustico ed il quartiere
servile con varie attrezzature come il pastificio, il forno, le cucine, la
dis-pensa dei vini ed il torchio per la pigiatura dell'uva. Dall'ingresso,
attraverso un piccolo atrio si giunge nel peristilio, e qui inizia il vero e
proprio nucleo dell'abitazione signorile, con stanze e sale adibite a vario
uso ed un gruppo di ambienti a destinazione termale.
In questo quartiere signorile, in asse col peristilio é l'atrio maggiore,
il tablino ed una veranda absidata con veduta sul mare. Ai lati sono ancora
vari ambienti cubicoli, il triclinio del grande fregio, con portici di
disimpegno tra i diversi gruppi di stanze. Attualmente é per l'appunto dalla
veranda che si accede per visitare la villa, e questa parte dell'edificio
possiede anche giardini pensili ed é sorretta dal criptoportico cui si é giá
accennato.
La decorazione parietale dipinta é di disuguale interesse e rispecchia le
diverse fasi della vita dell'edificio e le diverse destinazioni che esso
ebbe. Meno interessanti sono le decorazioni di terzo e di quarto stile, ma
degno di nota é il tablino, con pareti a fondo nero e motivi di tipo
egittizzante, mentre di molto maggiore pregio sono i dipinti di secondo
stile che furono risparmiati dai rimaneggiamenti che la villa ebbe nel suo
ultimo periodo. Di tale stile é un cubicolo con figure connesse con il mito
ed il culto di Dioniso, e questo cubicolo fa quasi da anticamera alla sala
tricliniare.
Il grande fregio della sala appartiene anch'esso al secondo stile e
costituisce l'esempio piú completo di un particolare tipo di decorazione che
raramente s'incontra nella pittura di quell'epoca; abbiamo infatti qui una
rappresentazione continua che occupa tutte le pareti della stanza, con
figure a grandezza naturale o quasi. Secondo la più accettabile ipotesi il
fregio deve essere stato eseguito verso la metà del 1 secolo avan-ti Cristo
da un artista locale, che si é ispirato ad opere della pittura greca o che
comunque di quella pittura e dei suoi canoni classici ha subito l'influenza.
L'interpretazione del dipinto non trova concordi tutti gli studiosi, poiché
esso non svolge un soggetto noto o facilmente identificabile, come ad
esempio un mito, ma é formato di varie scene che si susseguono senza
distinguersi l'una dall'altra e che sono certamente allusive a vari momenti
di un rito del quale non possediamo altre testimonianze sicure. Di qui
l'ipotesi che si tratti di uno dei culti misterici che convivevano nel mondo
greco-romano accanto alla religione ufficiale e che erano noti soltanto a
pochi eletti. É tuttavia opinione accettata dai più che il fregio
rappresenti le varie fasi della iniziazione di una sposa ai misteri
dionisiaci, misteri che ebbero diffusione anche nella Campania in etá
romana. Perciò vediamo che nelle varie scene si trovano figure umane
alternate con figure della sfera divina. Il fatto che qui si sia voluto
realizzare un tale ciclo pittorico può spiegarsi con la circostanza che in
quel momento la signora della villa era una iniziata e min-istra per
l'appunto di quel culto.
Considerando che il ciclo abbia inizio dalla parete nord, accanto alla
porticina, nella prima scena é la lettura del rituale sacro, eseguita da un
fanciullo sotto la guida di una matrona seduta, mentre una donna ammantata
ascolta. Quindi il rito si svolge in una scena di sacrificio e di offerta e
con un gruppo pastorale ove un Sileno suona la lira. La parete di fondo
della sala é dominata dalle due divinità cui erano legati questi riti,
Dioniso ed Arianna, con altre due scene: da un lato Sileni e satiri intenti
ad una azione di oscuro significato, dall'altro una donna che scopre il
simbolo della fecondità ed una figura alata in atto di percuotere col
flagellum levato. Lungo l'altra parete una donna flagellata si rifugia nel
grembo d'una sua compagna, ed appresso una baccante ignuda danza in preda
all'esaltazione orgiastica. Infine la sposa si abbiglia portando a
compimento il rito ed a chiusura del ciclo essa é rappresentata seduta e
nobilmente ammantata, ormai iniziata e mistica sposa del dio.
La parola villa in latino non è
l'equivalente del corrispettivo termine italiano. Indica piuttosto le
fattorie o le case di campagna utilizzate per la produzione agricola di
cereali, olio, vino o per altri tipi di colture e allevamenti. La Villa dei
misteri, però, non era una vera e propria villa, ma una residenza signorile,
una domus, fuori dalle mura della città. Solo nel I secolo d. C., prima del
terremoto del 62, alla residenza fu aggiunto un quartiere rustico con due
torchi per la spremitura dell'uva.
Fu costruita nel II secolo a. C. in posizione panoramica con sale dipinte e
giardini pensili. Non conosciamo il proprietario di questa residenza.
Sappiamo soltanto che, in età augustea, la villa era custodita da un
guardiano (procurator) di nome Lucio Istacidio Zosimo. Come gran parte delle
residenze di campagna, anche la Villa dei misteri presentava la
caratteristica inversione del peristilio costruito prima dell'atrio. Dopo il
peristilio, sui tre lati dell'atrio si trovano le stanze padronali,
riccamente decorate e affacciate sulla costa. La villa deve il suo nome al
famoso fregio dipinto nel triclinio a sinistra dell'atrio.
Qui sono rappresentate dieci scene in cui si è voluta riconoscere la
rappresentazione di riti misterici. L'interpretazione di queste scene è in
realtà piuttosto problematica. Si è pensato anche alla rappresentazione di
uno spettacolo di mimi o al ricordo dei preparativi per il matrimonio di una
donna, da identificare con la giovane seduta raffigurata sulla parete di
destra. Non si è raggiunta una soluzione definitiva, ma sono comunque
sicuramente raffigurati nell'affresco Dioniso ubriaco con Arianna o Venere
sulla parete di fondo, Pan e Aura (il vento) sulla parete sinistra con le
quattro Stagioni.
gli scavi di
notte
la
storia fa spettacolo
Un percorso multimediale
nella Pompei antica con immagini, suoni, racconti, luci e le musiche firmate
da Ennio Morricone per far rivivere ai visitatori le atmosfere di 2000 anni
fa. 'Suggestioni al foro' é passeggiata notturna, in gruppi fino a 100
persone, che parte dalle Terme Suburbane e si addentra tra le domus, i
templi, i giardini svelando particolari ed esaltando i monumenti del sito
archeologico, grazie ad una voce narrante e alle luci ad effetto che si
accendono progressivamente. Dal Tempio di Apollo al Foro con il Tempio di
Giove Capitolino, dal Macellum ai templi dedicati a Vespasiano e ai Lari
protettori. Ed ancora: l'opificio tessile di Eumachia con la vendita dei
tessuti, gli slogan delle campagne elettorali, gli Edifici Curiali ed infine
la Basilica dove, come su un grande schermo di 24 metri per 6, circondati
dal suono in surround, gli spettatori assisteranno ai momenti drammatici
dell'eruzione in un collage di immagini appositamente scelte.
Plinio il
Giovane
Lettere, VI, 16\h
Caro Tacito
Mi chiedi di scriverti della morte di mio zio affinché tu possa tramandarla
ai posteri più adeguatamente. Te ne ringrazio: ritengo, infatti, che, se da
te celebrata, alla sua morte potrà essere assicurata un'immortale gloria.
Sebbene, infatti, egli sia morto in mezzo alla distruzione di un paese
bellissimo per città e popolazioni, in una situazione degna di memoria,
quasi per sopravvivere per sempre nel ricordo, e sebbene egli stesso abbia
composto molte e durevoli opere, molto aggiungerà, al perdurare della sua
fama, l'immortalità dei tuoi scritti. Io reputo, invero, beati coloro ai
quali, per dono degli dei, sia dato di fare cose degne d'esser narrate e di
scriverne degne d'essere lette; fortunati oltremodo coloro cui è dato questo
e quello. Fra costoro, per i suoi ed i tuoi libri, sarà mio zio. È per
questo che sono ben lieto di fare ciò che mi chiedi, ed anzi te lo chiedo io
stesso come favore.
Egli (Plinio il Vecchio) era a Miseno ove personalmente dirigeva la flotta.
Il nono giorno prima delle calende di settembre (24 agosto), verso l'ora
settima, mia madre gli mostra una nube inconsueta per forma e grandezza.
Egli, dopo aver fatto un bagno di sole ed uno d'acqua fredda, se ne stava
disteso, fatta una piccola colazione, a studiare: chiese le scarpe e salì in
un sito donde poteva essere meglio osservato tale fatto straordinario. Una
nube stava sorgendo e non era chiaro all'osservatore da quale monte
s'innalzasse (si seppe, poi, essere il Vesuvio), il cui aspetto fra gli
alberi s'assimilava soprattutto al pino. Essa, infatti, levatasi
verticalmente come un altissimo tronco, s'allargava in alto, come con dei
rami; probabilmente perché, innalzatasi prima spinta da una corrente
ascendente, esauritasi, poi, o per cessazione della sua spinta, o vinta dal
suo stesso peso, distesamente si espandeva: bianca a tratti, altra volta
nera e sporca a causa della terra e della cenere che trasportava.
Da uomo eruditissimo qual era, egli ritenne che il fenomeno dovesse essere
osservato meglio e più da presso. Ordina, allora, che gli sia apprestata una
liburna (battello veloce), mi autorizza, se voglio, ad andare con lui, ed io
gli dico che preferisco restare a studiare e, per puro caso, egli mi aveva
assegnato dei lavori da stendere. Era sul punto d'uscir di casa: riceve un
messaggio di Rectina, moglie di Tasco, atterrita dal pericolo che vedeva
sovrastarla (la sua villa era, infatti, ai piedi del monte, e nessuna
possibile via di scampo v'era tranne che con le navi); supplicava d'esser
sottratta a tale pericolo. Egli, allora, mutò consiglio e, quello che
intendeva compiere per amor di scienza, fece per dovere. Dette ordine di
porre in mare le quadriremi e s'imbarcò egli stesso, per portare aiuto non
alla sola Rectina, ma a molti (infatti, per l'amenità dei siti, la zona era
molto abitata). S'affretta proprio là donde gli altri fuggono, va diritto,
il timone volto verso il pericolo, così privo di paura da dettare e
descrivere tutti i fenomeni della tragedia che si compiva esattamente come
si presentava ai suoi occhi. Già la cenere pioveva sulle navi, sempre più
calda e densa quanto più esse si avvicinavano; e si vedevano già pomici e
ciottoli anneriti e bruciati dal fuoco e spezzati, poi un passaggio e la
spiaggia bloccata dai massi proiettati dal monte. Dopo una breve esitazione
indeciso se tornare indietro come gli suggeriva il pilota, esclama: la
fortuna aiuta gli audaci, dirigiti verso Pomponiano! Questi si trovava a
Stabia, dall'altro lato del golfo, verso la meta di esso; infatti, il mare
ivi s'incunea seguendo la linea di costa disegnando una curva. Quivi
Pomponiano, sebbene il pericolo non fosse imminente, ma considerando che
tale potesse presto divenire, aveva trasferito su navi le sue cose, pronto a
fuggire non appena il vento si fosse calmato. Ma questo era, invece,
favorevole a mio zio che veniva in direzione opposta, abbraccia l'amico
impaurito, lo incoraggia, lo conforta e, per calmarne le paure con la
propria sicurezza, chiede di essere portato al bagno, si lava, cena
allegramente o, assai più probabilmente, fingendo allegria. Frattanto dal
monte Vesuvio, in molte parti risplendevano larghissime fiamme e vasti
incendi, il cui risplendere e la cui luce erano resi più vividi dalla
oscurità della notte. Per calmare le paure, mio zio diceva che si trattava
di case abbandonate che bruciavano, lasciate abbandonate dai contadini in
fuga. Poi se ne andò a dormire e dormì di un autentico sonno, se il suo
rumoroso russare, reso più fragoroso dalla corporatura massiccia, veniva
udito da quanti origliavano oltre la soglia. Nel frattempo, il livello del
cortile s 'era cosi tanto innalzato per la caduta di cenere e pomici che non
sarebbe più potuto uscire dalla stanza se avesse più oltre atteso.
Ma, nel cortile, attraverso il quale si andava a quell'appartamento, si era
tanto accumulata la cenere mista a pietre, che per poco che egli si fosse
fermato nella stanza non avrebbe potuto più uscirne. Svegliato egli ne esce
e ritorna da Pomponiano e dagli altri che non avevano chiuso occhio. Si
consultarono tra di loro se dovessero restare in casa o uscire all'aperto,
dal momento che la casa era colpita da frequenti e lunghe scosse, e come
colpita nelle fondazioni, mostrava or qua or là di cadere. Ma, ad uscire
allo scoperto si temeva nuovamente il cadere delle pietre, sebbene leggere e
prive di forza. Valutati i pericoli fu scelto quest'ultimo partito,
prevalendo in lui una più matura riflessione; negli altri un più forte
timore. Messi dei cuscini sul capo li legano bene con lenzuoli; questo
faceva da riparo a ciò che cadeva dall'alto.
Già altrove faceva giorno, ma là era notte, più scura e fitta di ogni altra
notte; ancor che molte fiamme e varie luci la rompessero. Egli volle uscire
sul lido e guardare da vicino se fosse il caso di mettersi in mare; ma
questo era, tuttavia, tempestoso ed impraticabile. Quivi, buttatosi su un
lenzuolo disteso, domanda dell'acqua e beve per due volte. Intanto le fiamme
e un odore sulfureo annunziatore delle fiamme fanno sì che gli altri fuggano
ed egli si riscuote. Sostenuto da due servi si leva e spira nel punto
stesso; dal momento che il vapore che aumentava gli impedì, cosi come io
penso, il respiro e gli serrò lo stomaco, già di sua natura debole, stretto
e soggetto ad un frequente bruciore. Come fu giorno (era il terzo da quello
della sua morte) il corpo di lui fu ritrovato intero ed illeso, con indosso
i medesimi vestiti, ed in atteggiamento più di un uomo che dorme che di un
uomo già morto. Io e mia madre eravamo intanto a Miseno. Ma ciò non riguarda
questa storia; né tu da me volesti sapere altro che della sua morte. Dunque
concluderò. Aggiungerò solo che ho fedelmente esposto tutto ciò che vidi io
medesimo o che subito dopo (quando i ricordi sono più veritieri) intesi
dagli altri. Tu tirane fuori il meglio, poiché altro è scrivere una lettera;
altro (raccontare) una storia; altro parlare ad un amico; altro (parlare) a
tutti. Addio.
Plinio il Giovane
Lettere, VI, 20\h
Caro Tacito
Tu dici che, mosso dalla lettera che io ti scrissi, a tua richiesta circa la
morte di mio zio, desideri sapere (ciò che avevo cominciato e poi
interrotto) non solo i timori, ma anche quali avvenimenti abbia io sofferto
essendo rimasto a Miseno.
Benché l'animo inorridisca a ricordare, comincerò.
Partito lo zio, passai il restante tempo (perché ero rimasto per questo) a
studiare, poi il bagno, la cena ed un sonno breve ed inquieto. Molti giorni
prima si era sentita una scossa di terremoto; senza però che vi si desse
molta importanza, perché in Campania è normale; ma in quella notte fu così
forte che sembrò che non si scuotesse, ma che crollasse ogni cosa. La madre
corse nella mia stanza, ed io pure mi alzavo per risvegliarla se mai
dormisse. Ci sedemmo nel cortile della casa che la separava dal mare, per un
breve tratto. Io non so se chiamarlo coraggio o imprudenza perché toccavo
appena i 18 anni. Chiedo un volume di Tito Livio e così, per ozio, mi metto
a leggere e continuavo anche a farne appunti. Quand'ecco un amico ed ospite
dello zio, appena venuto dalla Spagna, alla vista mia e di mia madre seduti,
ed io che per giunta leggevo, rimprovera lei per la propria indolenza e me
di poco giudizio, ma non per questo io levai l'occhio dal libro. Già faceva
giorno da un'ora e pur tuttavia la sua luce era incerta e quasi languente,
già erano crollate le case intorno e benché fossimo in un luogo aperto ma
angusto grande e certo era il timore di un crollo.
Allora, finalmente ci parve bene di uscire dalla città. Ci segue una folla
sbigottita e ciò che nello spavento appare come prudenza, antepone il
proprio parere all'altrui e in gran massa incalza e preme chi fugge. Usciti
dall'abitato ci fermammo. Quivi assistiamo a molti fenomeni e molti
pericoli. Infatti i carri che ci facemmo venire dietro sebbene il terreno
fosse pianeggiante andavano indietro e neppure con il sostegno di pietre
restavano nello stesso punto. Inoltre si vedeva il mare riassorbito in sé
stesso e quasi respinto dal terremoto. Certamente il litorale si era
allargato e molti pesci restavano a secco. Dal lato opposto una nera ed
orrenda nube squarciata dal rapido volteggiare di un vento infuocato si
apriva in lunghe lingue di fuoco; esse erano come lampi e più che lampi.
Allora, quel medesimo amico venuto dalla Spagna, con più forza ed
insistenza: "Se tuo fratello, disse, se tuo zio vive, vi vorrebbe salvi; se
è morto vorrebbe che voi gli sopravviviate; perché dunque indugiate a
scappare?" Al che rispondemmo: "Non abbiamo l'animo, incerti della sua
salvezza, di provvedere alla nostra". Egli non esita oltre e se la dà a
gambe e a gran corsa si sottrae al pericolo; né passò molto tempo che quella
nube discese a terra e coprì il mare. Aveva avvolto e nascosto Capri e tolto
dalla vista il promontorio di Miseno. Allora la madre cominciò a pregarmi, a
scongiurarmi, a ordinarmi, che, in qualunque modo io fuggissi; lo facessi io
perché giovane; ella, appesantita dall'età e dalle (stanche) membra sarebbe
morta felice di non essere stata la mia causa di morte.
Ma io risposi di non volermi salvare che con lei; poi pigliandola per mano
la costringo ad affrettare il passo; ella mi segue a stento e si lamenta
perché mi rallenta (il cammino).
Cadeva già della cenere, non però ancora fitta; mi volto e vedo sovrastarmi
alle spalle una densa caligine che quale torrente spargendosi per terra ci
incalzava. Deviamo, io dissi, finché ci si vede, per non essere travolti,
una volta raggiunti, dalla folla che ci viene dietro.
Appena fatta questa considerazione si fa notte, non di quelle nuvolose e
senza luna, ma come quando ci si trova in un luogo chiuso, spente le luci.
Avresti udito i gemiti delle donne, le urla dei bambini, le grida dei
mariti; gli uni cercavano a gran voce i padri; gli altri i figlioli; gli
altri i consorti; chi commiserava la propria sorte; chi quella dei suoi. Vi
erano di coloro che, per timore della morte, la invocavano. Molti
supplicavano gli dei; molti ritenevano che non ve ne fossero più e che
quella notte dovesse essere l'ultima notte del mondo. Né mancavano quelli
che con immaginari e bugiardi spaventi accrescevano i veri pericoli. Vi
erano di quelli che, bugiardi, ma creduti, dicevano di venire da Miseno e
che esso era una rovina e (completamente) incendiato.
Fece un po' di chiaro; né questo ci sembrava giorno, ma piuttosto la luce
del fuoco che si avvicinava. Se non che il fuoco si arrestò più lontano;
nuova oscurità e nuovo nembo di fitta cenere; noi ci alzavamo a tratti per
toglierla di dosso; altrimenti ne saremmo stati se non coperti schiacciati.
Potrei gloriarmi che in tante calamità non mi sia uscito un lamento, né una
parola men che virile, se non avessi trovato gran conforto alla morte il
credere che in quel momento con me periva tutto il mondo. Finalmente si
attenuò quella caligine e svanì come in fumo e nebbia; quindi fece proprio
giorno ed apparve anche il sole, ma scolorito come suol essere quando è in
ecclisse. Agli occhi ancor tremanti tutto si mostrava cambiato e coperto da
un monte di cenere, come se fosse nevicato. Ritornati a Miseno e ristorate
alla meglio le membra si passò una notte affannosa ed incerta tra la
speranza ed il timore. Ma il timore prevaleva.
Intanto continuavano le scosse di terremoto e molti, fuori di senno, con le
loro malaugurate predizioni si burlavano del proprio e del male altrui. Noi,
però, benché salvi dai pericoli ed in attesa di nuovi, neppure allora
pensammo di partire, finché non si avesse notizia dello zio. Queste cose,
non degne certamente di storia, le leggerai senza servirtene per i tuoi
scritti; né imputerai che a te stesso, che me le hai chieste, se non ti
parranno degne neppure di una lettera. Addio.