IL
FASCINO DI UN MONTE
IL GELBISONNel cuore del Cilento, proprio alle
spalle del capoluogo, Vallo della Lucania, si erge in tutta la sua potenza,
solitario gigante della valle di Novi, il massiccio del Gelbison, sulla cui
vetta si trova il più alto Santuario d'Italia, dedicato alla Vergine Maria.
Il nome del monte è di chiara etimologia saracena, Gebil-el-Son, il Monte
dell'Idolo, come di origine araba sono tanti toponimi cilentani, dovuti alla
lunga permanenza dei Saraceni nel territorio. E se il monte fu chiamato con
questo nome, vuol dire che già al tempo dei Saraceni esisteva un luogo di
culto lassù, sulla vetta. Per i Cilentani il Gelbison è semplicemente "il Monte Sacro", che attira
annualmente migliaia di fedeli che lassù confluiscono non solo dalla regione
campana ma anche dalla Basilicata, dalla Puglia e dalla Calabria per deporre
ai piedi di Maria le loro pene e chiedere le sue grazie celesti.
La "Madonna del Monte", come viene chiamata dai Cilentani, la cui
venerazione risale al 1300, è una statua lignea, in origine rozzamente
scolpita e restaurata in epoca moderna. La Vergine è rappresentata seduta,
col Bambino sul braccio sinistro e con la destra atteggiata a distribuire i
suoi favori divini. Il viso bruno, allungato, gli occhi alla greca, tutta la
figura slanciata, ci riportano all'iconografia bizantina e alla
colonizzazione "basiliana" del primo millennio della nostra era, cioè dei
monaci italo-greci, seguaci dei precetti di San Basilio, fondati sulla
preghiera, la meditazione e lo studio delle Sacre Scritture. Essi, fuggiti
da Bisanzio e dalla penisola balcanica, in seguito alle invasioni degli
Avari e degli Slavi e alle lotte iconoclaste del 726, si rifugiarono
nell'Italia Meridionale e, risalendo, trovarono nel Cilento, a quei tempi
aspro e selvaggio, con i suoi boschi fittissimi e le mille grotte e
anfratti, il luogo ideale per l'isolamento necessario alla loro vita
eremitica e cenobitica.
I fondatori del santuario, che in origine era solo un piccolo tempio,
sicuramente vissero, all'inizio, in grotte naturali o intorno alla grotta
nella quale avevano sistemato l'Immagine della Madonna, alla quale è legata
una leggenda, riferita dal monaco celestino Bernardo Conti nel suo libro:
"Storia e miracoli della Beata Vergine del Monte Sacro di Novi":
"Alcuni pastori di Novi Velia, volendo edificare per loro comodità un
piccolo tempio dedicato alla Madonna, alle falde del monte, ed essendo
riusciti vani tutti i loro tentativi poiché al mattino si trovava disfatto
il lavoro del giorno innanzi, deliberarono di vegliare di notte per scoprire
gli autori e portarono con loro un agnello per cibarsene. Ma, sul punto di
essere ucciso, l'agnellino sfuggì loro dalle mani e, saltando di balza in
balza, arrivò sulla vetta, arrestandosi tutto tremante davanti ad un muro
che ostruiva una piccola grotta. In essa era l'Effige della Madonna.
Attoniti, i pastori ridiscesero a raccontare l'accaduto ai compaesani e al
vescovo di Capaccio, poiché allora non c'era ancora il vescovado a Vallo. Il
vescovo si recò sul luogo per constatare con i propri occhi
ma, al momento di benedire la grotta, risuonò una voce dall'alto: "Questo
luogo è santo ed è stato consacrato dagli Angeli".
Questa la leggenda che, per altro, è comune a molti santuari.
Il primo documento storico che parla di una "rupis Sanctae Mariae" nel feudo
di Rofrano (l'altro versante del monte) risale al 1131 e si trova in un
Diploma dato da Ruggero II, il Normanno, all'abate Leonzio di S.Maria
Grottaferrata.
Il citato monaco celestino narra che il tempio, ampliato e divenuto
santuario, fu posseduto per alcuni anni dal vescovo di Capaccio ma nel 1323
Riccardo di Marzano, Maresciallo del Regno di Sicilia, duca di Sessa, conte
di Squillace, barone di Novi, principe di Rossano, lo comprò per darlo in
uso ai monaci celestini di Novi, per i quali aveva mutato in convento il suo
castello. L'Ordine dei Celestini, fondato, nel 1264 da Pietro Angelerio,
chiamato Pietro del Morrone, (dal monte, vicino ad Isernia, sul quale egli
visse da eremita per parecchi anni), divenuto papa col nome di Celestino V,
era una congregazione di eremiti i quali, per il loro tenore di vita
austero, solitario e contemplativo, erano i più adatti per un santuario
posto in cima a un monte alto 1700 metri.
Allorché l'Ordine dei Celestini decadde e si estinse del tutto nel sec. XVIII,
il santuario ritornò al vescovo di Capaccio.
Ad ogni santuario è legato il pellegrinaggio, come forma di devozione,
insita in tutti i popoli e in tutte le religioni. Nell'antichità poteva
trattarsi di una selva, di un fiume, di una roccia, di un albero, di un
monte sacro o di una divinità taumaturgica. Il Cristianesimo ha offerto alla
venerazione luoghi che evocassero un evento divino o una chiesa.
Maria Santissima del Sacro Monte è la Madonna del Cilento. I pellegrini che
ogni anno a migliaia accorrono ai suoi piedi nei mesi in cui il santuario è
aperto (dal martedì di Pentecoste al 18 novembre), provengono non solo da
tutto il Cilento e dalla Campania ma anche dalla Basilicata, dalla Calabria, dalla Puglia e dal Centro Italia.
Le strade carrozzabili, una volta semplici mulattiere ad uso dei carbonai e
dei venditori di stecche di neve provenienti dalle "nevere" di monte
Belvedere (una delle cime del massiccio; l'altra è il monte Scanno, sul
quale una grande croce luminosa, visibile da tutto il Cilento, irradia la
sua luce verde sul complesso del Santuario e sulla vallata), sono due: la
Vallo-Novi Velia e la Rofrano-Laurito e tutt'e due confluiscono sulla vetta
alla prima stazione della Via Crucis.
Il Gelbison, a detta di tutti, è la più bella montagna d'Italia, non solo
per la sua vegetazione lussureggiante che arriva fino alla cima, ma
specialmente per il panorama che si gode da lassù, che abbraccia tutta
l'Italia meridionale, fino alle isole Eolie e, nei giorni molto tersi fino
all'Adriatico e la costa balcanica.
Iniziamo la salita, preferibilmente di buon mattino. Scegliendo la strada
che parte dal capoluogo, la più vicina a Napoli, si entra subito in boschi
di castagni giganteschi. La strada, con mille curve, prosegue poi in una
vegetazione fittissima di ontani e faggi secolari che, partendo da un
tappeto di felci, svettano possenti, lasciando a stento penetrare la luce
del sole. Vegetazione intersecata dallo scorrere di ruscelli e torrentelli,
da pareti a strapiombo, orridi burroni e colossali massi. Fra tronco e
tronco, ogni tanto l'occhio corre in basso, al panorama ai tuoi piedi, che
si allarga a mano a mano che si sale.
Laggiù è Vallo, ancora sonnecchiante alle prime luci dell'alba, tutta
distesa ai piedi del monte e, un poco più su, ad ovest, la turrita Novi, un
tempo sede della più estesa e potente baronia del Cilento.
Prima tappa d'obbligo, Fiumefreddo, una sorgente d'acqua freschissima con
l'abbeveratoio per gli animali. Qui si fermano tutti i pellegrini sia nel
salire che nello scendere ed è facile incontrare un pellegrinaggio in
discesa, i volti soddisfatti, le "frasche" del monte in mano; cantano inni
sacri, ridono, scambiano saluti con quelli che salgono.
E, dopo un'altra serie di curve si arriva al piazzale Belvedere, dove
sostano i pullman, che non vanno oltre. E' la prima terrazza sul Paradiso.
Le verdi colline sottostanti si alternano alle vallate e decine di paeselli
e di borghi ridono sotto il sole appena sorto; castelli e torri svettano
sulle alcune cime e laggiù la torre angioina di Velia si profila come un
giocattolo su un Tirreno azzurrissimo. I fiumi Lambro, Mingardo e Alento
serpeggiano nelle valli come tenui nastri d'argento; di fronte la sagoma
inconfondibile, a pan di zucchero, del Monte Stella e, ad ovest Capo
Palinuro, il monte Bulgaria, il Cervati; ad est la pianura di Paestum, tutto
il golfo di Salerno con la Riviera Amalfitana e gli isolotti de I Galli, di
fronte all'incantevole Positano.
Paurosi burroni, una volta habitat di numerosi lupi, oggi scomparsi del
tutto, fanno da contrasto a tanta bellezza del Creato:
Si continua a salire. L'aria si fa sempre più frizzante e dilata i polmoni.
Il profumo delle felci e quello delle fragole, che crescono dovunque, si
mischiano a quello delle erbe selvatiche.
Ed ecco la vetta. Da un monticello di pietre, formatosi con quelle portate
dai pellegrini in segno di devozione, si erge una croce di ferro e da qui
comincia la bella Via Crucis in maioliche del '700, che ti porta davanti al
complesso del Santuario. Oltre la chiesa, ingrandita nel 1908, molto
semplice, data l'altitudine, (marmi e sculture si sgretolerebbero al gelo
invernale) fanno parte di esso la bella cappella di S.Bartolomeo, patrono di
Novi, recentemente restaurata dall'attuale Rettore, don Carmine Troccoli, il
convento, la foresteria, un bar, un ristorante, un negozio di souvenirs.
E finalmente ti trovi al cospetto della Madonna che, fra una selva di
candele accese ai suoi piedi e fra i riflessi degli ori di cui è ricoperta,
sembra sorriderti e il suo sorriso compensa i suoi devoti figli della fatica
del viaggio.
E molto commovente vedere arrivare una comitiva di pellegrini sul sagrato.
Annunziati dalle loro litanie, dai canti liturgici accompagnati spesso da
fisarmoniche e da rudimentali strumenti musicali, si fermano al monticello
di pietre, compiono i tre giri regolamentari intorno alla croce ed iniziano
l'ultimo breve tratto, ricomposti e in fila, preceduti dallo stendardo del
loro paese di provenienza; i più a piedi scalzi per voto o devozione.
Un prete o il sorridente Rettore va loro incontro per benedirli e benedire
le loro "cente", prima di far aprire le porte della chiesa. Le "cente", di
solito in numero di due, sono i ceri votivi che ogni pellegrinaggio porta,
umile dono, alla Vergine. Sono conficcati su ossature di legno leggero, a
forma di barca o di torre, a seconda del paese di provenienza e addobbati
con nastri multicolori.
Delle volte portano anche i "torcioni", che sono delle grandi candele
dipinte, come ceri pasquali.
Prima di entrare in chiesa fanno sette giri intorno alle sue mura, (altra
tradizione di cui non si conosce il significato), e finalmente le porte
della chiesa si spalancano ed è tutto un gridare, un pianto dirotto,
trattenuto a stento fino a quel momento, un gettarsi in ginocchio o un
correre a prostrarsi ai piedi della Madonna Molti compiono in ginocchio il
percorso dalla soglia all'altare, implorando la loro Mamma Celeste con gli
appellativi più belli; ognuno ha una grazia da chiedere, ognuno depone ai
suoi piedi le sue pene e la devozione di tanta povera gente commuove anche
gli animi più insensibili. E' la religiosità popolare nelle sue forme più
semplici e spontanee.
Uscendo dalla chiesa ci viene a salutare il Rettore, don Carmine Troccoli, e
ci accompagna a visitare le nuove strutture del Santuario, giustamente
orgoglioso. Come tutto è cambiato dalla mia prima visita, alla tenera età di
tre anni, in braccio a mia madre e a cavallo di un asino ! ... Ed infine ci
affacciamo alla balaustra del sagrato ad ammirare la magica visione che si
dispiega davanti ai nostri occhi. E uno spettacolo mozzafiato: davanti a
noi, al di là del monte Stella, l'infinito Tirreno azzurro; ad est, oltre la
Costiera Amalfitana, Li Galli, Capri, i monti della Basilicata, la Sila e,
ben visibile lo Stromboli col suo pennacchio di fumo; a sinistra Capo
Palinuro, Sapri, il golfo di Policastro e i monti Bulgaria, il gruppo del
Cervati e l'Appennino Centrale. Don Carmine ci dice che nei giorni molto
tersi si vede perfino l'Adriatico e la costa balcanica.
E mentre i pellegrini si apprestano a riposare, in attesa delle funzioni
religiose dell'indomani, dopo un ultimo saluto alla Vergine, prendiamo la
via del ritorno, non senza aver visitato "II giardino della Madonna", il
punto più alto del Gelbison ed aver bevuto " L'acqua della Madonna", che
scaturisce ai piedi della roccia sulla quale si erge la chiesa.
Lassù un senso di pace, di serenità ha colmato il tuo cuore: hai ritrovato
te stesso; ti sei sentito, nell'immensità del Creato, più vicino a Dio.
Renata Ricci Pisaturo |
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