CAMPI   FLEGREI:  MITI  E  MISTERI
IL  MITO  DELLA  SIBILLA

Campi Flegrei:, terra del fuoco, terra ardente (dal greco φλεγρός), fuoriuscita dalle viscere del grande vulcano di Pithekussa, (Ischia), lì di fronte e da tanti altri vulcani sottomarini; abbassamenti ed innalzamenti di una terra ballerina; sconvolgimenti, esplosioni apocalittiche, che si alternano a lunghi periodi di stasi, sussulti e tremori, ribollenti sorgenti d’acqua sulfurea, oscuri laghetti circondati da fitti boschi,  caverne,  fumarole e cenere  dappertutto: questo lo scenario sul quale fa la sua comparsa nella storia l’uomo miceneo approdato con le prime emigrazioni su questi lidi. Egli si aggira sgomento e nello stesso tempo affascinato dalla bellezza dei luoghi. Incomincia ad interrogarsi, a cercare un perché, una spiegazione a tutto quella rovina che si dispiega sotto i suoi occhi,  pur nella splendida natura che l’attornia.

Se la terra è nata dal fuoco e conserva le orme della potenza degli dei vuol dire che è divina. Nasce così il mito, il culto. Ed ecco che la terra diventa il teatro dell’ immane lotta sostenuta fra gli dei e i  Titani, i giganteschi semidei, figli di Urano (il cielo) e di Gea (la terra)  nel loro tentativo di  scalare le vette per arrivare al cielo. Vinti dalle potenti folgori di Zeus, fabbricate appositamente dai Ciclopi nelle officine di Efeso, già una volta, nel tentare la scalata all’Olimpo, furono vinti dagli strali divini, fatti prigionieri, incatenati e gettati nel Tartaro, ma essi proprio dalla Terra che li ha generati hanno recuperato le forze.

Il vulcano è il regno di Plutone, dio del fuoco, di quel fuoco tolto agli uomini un giorno dall’ira di Zeus e all’uomo ridato dal titano Prometeo per vendetta verso il dio. Grande dono, perché unitamente alla scintilla divina venne dato agli uomini il dono della saggezza. Saggezza che fece capire ai primi coloni giunti su questi lidi di aver scelto uno dei luoghi più suggestivi dell’universo per impiantarvi le loro divinità e iniziarvi la  loro nuova vita.

La terra ancora sussulta sotto i loro piedi - gli ultimi spasimi dei titani morenti - ma essi vedono che le eruzioni, gli sconvolgimenti tellurici avvengono improvvisamente, sono di breve durata ed improvvisamente finiscono. Le tracce degli dei sono disseminate dovunque. Fin dalle più antiche civiltà al mito è legato l’oracolo ed allora il lago oscuro e profondo,  circondato da una selva oscura emanante aria mefitica  a causa della quale gli uccelli che lo  sorvolano vi trovano la morte, diventa l’Averno,  (da α – avis ), la sede dell’Ade, con le sue caverne fitte di mistero e di superstizioni, in contrapposizione ai Campi Elisi nei quali passeggiano le anime dei Beati; la melma gorgogliante, i tanti crateri, le fumarole, le spelonche, diventano l’elemento catalizzatore e ispiratore di miti, di superstizioni, di mistero e di culti primitivi che fioriscono su quei sassi di cenere: dapprima i culti greci, poi  i romani ed infine gli orientali, prima di arrivare ai cristiani dei nostri tempi.

Nessun mito come quello della Sibilla, attraverso i secoli, è giunto a noi, popoli del Mediterraneo, conservando intatto il fascino della superstizione primitiva dalla quale ha avuto origine,  pur ambientato  in etnie diverse e in epoche diverse.  La Sibilla: chi era? Qual è la sua origine? E, innanzi tutto, qual è l’origine del nome? Il significato etimologico più attendibile, secondo i molti filologi, sembra esser dato dall’unione delle due parole greche θεός – ßouλή (la volontà di dio), la manifestazione divina, poiché la sua parola, il suo vaticinio è il responso della divinità

 

Il mito nasce in Grecia, nella notte dei tempi: il dio Apollo, uccisore del serpente Pitone, e perciò chiamato Pizio, per celebrare la morte del mostro, istituì le Feste Pitiche che, divenute feste nazionali, si svolsero in un primo momento nella pianura di Cirra, ai piedi del monte Parnaso, indi nello stadio e nel teatro di Delfi. Dal 528 a.C. in poi, sotto la presidenza degli anfizioni (i deputati delle varie città dell’antica Grecia che si riunivano a Delfi), si svolsero regolarmente ogni quattro anni. All’originaria gara poetico-musicale, vennero aggiunte, successivamente, gare ginniche e la solennità acquistò un’importanza inferiore solo a quella delle Olimpiadi. Apollo, oltre ad essere  la personificazione del sole è il dio della musica, della poesia, del  bel canto. È il dio della salute, colui che domina il male del corpo e dell’anima, quindi è il padre della scienza medica. È il sapiente e la sua sapienza trasmette alle profetesse che, ispirate da lui, possono conoscere il futuro e rivelarlo agli uomini.

Nacque così il culto divinatorio, l’oracolo, e Delfi, città nella quale il dio solare aveva  ucciso il serpente, simbolo delle tenebre, ne diventò  la più importante sede nell’antichità. La Pizia, la sacerdotessa di Apollo, una fanciulla illibata scelta nella popolazione, dopo essersi purificata con l’acqua della fonte Castalia e aver masticato foglie di alloro ( a simboleggiare l’ingresso del dio in lei) occupava un seggio sul tripode aureo collocato su una fenditura del terreno esalante vapori. Per effetto di questi, entrata in estasi, pronunziava parole che venivano interpretate da un collegio di sacerdoti  La sposa scelta da un dio non poteva  che essere  vergine perché l’amplesso divino era  solo un  soffio, un afflato un “πνεữma” , con il quale Apollo trasmetteva alle sua sposa la purezza del suo amore

Le sacerdotesse di Apollo, le Pizie, furono  tutte donne perché più influenzabili dell’uomo e più soggette all’isterismo. La diffusione del culto divinatorio, che ben presto si estese a tutto il bacino del Mediterraneo, è dovuta al fatto che le credenze e i riti della più antica religione greca, quella cretese-micenea, -  chiamata anche minoica, dal nome del re Minosse -   si andò sviluppando con analoghe forme culturali in altre isole dell’Egeo,  una volta scomparsa, sotto cataclismi naturali,   l’isola che ne era stata la culla. Iniziati i flussi  emigratori  dei popoli del bacino del Mediterraneo , iniziati nel XVII secolo e continuati ininterrottamente nei secoli successivi, portarono come conseguenza  la fusione fra le religioni dei protogreci e quelle degli indigeni delle regioni soggette a flussi immigratori per cui gli dei vennero congiuntamente adorati e fatti oggetto di culto e di riti sacrificali intesi a propiziarsene i favori. Ogni partenza dai luoghi natii ed ogni arrivo nella nuova patria era preceduta dall’oracolo Era il dio ad indicare la strada in mari e terre sconosciute e il luogo dove approdare. I depositari del culto divinatorio dell’oracolo furono i sacerdoti che, con l’andare del tempo, dai primi altari all’aria aperta, di solito posti alla foce di un fiume per avere una via immediata nell’entroterra, lo trasferirono all’interno dei templi, sempre più grandiosi e ricchi. Da qui la moltitudine di santuari nell’antichità.

Ad un certo punto della storia la Pizia subisce un’evoluzione anche nel nome. Diventa la Sibilla ma non è più la casta sposa legata alla dolorosa unione gamica (da “γαμoς”- matrimonio) col dio ma si affranca da lui. Diventa una libera profetessa: non più la donna isterica che vaticinia sotto l’effetto delle mofete ma una donna saggia che solleva il velo del futuro agli uomini desiderosi di  realizzare le loro speranze, i loro sogni. Scende dal trono aureo per sedersi su un umile sedile di pietra. Non più il fastoso tempio ma un’umile grotta, sarà da lì in poi la sua casa. Emigra, si moltiplica ed ogni paese ne vanta i natali. Varrone ne annovera dieci: la Eritrea, la più antica, la Delfica, la Persica, la Libica, la Cimmeria, la Samia, la Cumana. l‘Ellespontica, la Frigia, la Tiburtina.

La prima Sibilla fu Erofile, nata dall’unione di una ninfa col pastore Teodoro, chiamata anche Delfica  ed Eritrea perché venerata ad Eritre, antica città dell’Asia Minore, nella Ionia, situata sulla costa occidentale della penisola che si protende verso l’isola di Chio. Ad Eritre approdarono i primi navigatori ioni. Esiste un leggendario collegamento tra la sibilla Eritrea e le Cumana . Il mito racconta che il dio Apollo avesse concesso ad Erofile moltissimi anni di vita, tanti quanti i granellini di fine sabbia fosse riuscita a contenere nella sua mano, a condizione, però, che si trasferisse a Cuma, sulla cui acropoli preesisteva un tempio dedicato al dio.

Particolare importanza riveste il mito della Sibilla Cumana, chiamata anche Amaltea dal nome della vecchia che offrì i libri sibillini al re di Roma Tarquinio, non si sa se Prisco o Il Superbo. Indipendentemente dalla leggenda, la fama della Sibilla Cumana nasce in tempi antichissimi per i riferimenti che ce ne fa Omero, l’”auctor”, l’iniziatore del genere storico - epico. (Cassandra, la figlia di Priamo, dotata di spirito profetico, che sempre vaticinava il vero e non era mai creduta; l’ingresso di Ulisse nell’Ade per interrogare il vate Tiresia circa la possibilità del suo ritorno in patria; la maga Circe ecc. ) e  per la grande importanza che i popoli antichi davano agli oracoli. Ancor prima della dominazione di Roma la profetessa meritò la venerazione della gente,  alimentando le speranze degli uomini e rincuorandoli. La Pizia è morta ma resuscita illustre in letteratura sotto il nuovo nome. Viene evocata da poeti, scienziati, scrittori e storici insigni: Eraclito, Platone, Aristotele, Strabone, tanto per citarne qualcuno. Vecchia, saggia, immortale, secondo Ovidio e secondo i grandi poeti latini, la sua voce sopravvive anche dopo morta. Le si attribuiscono invenzioni, conoscenze astrologiche e perfino militari. Con Virgilio diventa l’autorevole consigliera di Enea; entra nella tradizione cristiana con Lattanzio; Michelangelo l’ immortala nella volta della Cappella Sistina.

Ma perché proprio Cuma? La vicinanza alla sede di Apollo a Cuma è un  mito. La trasposizione nasce con Virgilio. L’Eneide è il poema di Roma, il poema che esalta la gloria  di  Roma Virgilio lo inizia a scrivere nel 29 a. C., l’anno del trionfale ritorno di Augusto dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra. Roma, la città dalle umili origini, ha dato al mondo la pace e alla pace  la  “norma di legge eterna”, la “Lex Romana”. Per la prima volta nella storia, con Augusto vengono imposti  ai popoli di tutto il mondo allora conosciuto, il rispetto della legge e l’ordine civile. Enea è il “pius per eccellenza, l’uomo rispettoso della volontà divina  e dei doveri che ne conseguono, non solo verso l’umanità e la famiglia, ma, innanzi tutto, verso la Patria.

Egli fuggito da Troia in fiamme,  con il vecchio padre Anchise sulle spalle, approda in Italia dove consulta la Sibilla, che fa le sue profezie ai mortali e vive nella città dei Cimmeri, ossia Cuma. La localizzazione dei Cimmeri, figli delle tenebre, abitanti nei folti e tenebrosi boschi che circondano il lago d’Averno, la descrizione dei luoghi che ne fanno Eforo e principalmente il grande storico e geografo greco  Strabone, vissuto dal 63 a. C. al 20 d. C., nel V libro (4,5) e (4,6) de “La Geografia”, quella sua bella opera in 17 libri  pervenutaci quasi intatta (grande fonte di sapere, perché in essa l’autore prende in esame tutto il mondo allora conosciuto), unite al fatto che Roma è una custode gelosa dei libri sibillini, portano il vate latino ad ambientare il suo poema in quei luoghi. Non dimentichiamo poi che ai tempi di Virgilio i Campi Flegrei, con tutte quelle  fumarole, i tanti laghetti mefitici, i ribollimenti di melma a temperatura elevatissima, i rimbombi sotterranei, il puzzo di zolfo e le improvvise esplosioni di cenere e di lapilli, l’ultima delle quali avvenuta addirittura nel 1538, che portò alla formazione del Monte Nuovo, ad W di Pozzuoli, dovevano dare effettivamente l’aspetto di un Inferno.

Sulla scorta di Virgilio e di tante altre fonti storiche, una grotta veniva indicata da sempre come l’antro della Sibilla. Si pensò in un primo tempo che l’ingresso fosse ubicato sul lago d’Averno,  per i miasmi e i fumi che uscivano dal lago scuro ed immobile, ma la “messa in scena “ del mito degli Inferi che se ne faceva ai primi viaggiatori del Gran Tour non aveva alcun fondamento storico, nè topografico. Si deve al grande archeologo Amedeo Maiuri la scoperta di quello che oggi viene indicato come “Antro della Sbilla”  Egli è a Rodi, dove ha condotto grandi scavi e fondato il Museo Archeologico con tutti i reperti delle isole Egee,  allorché viene nominato, inaspettatamente, soprintendente per la Campania. Ovvio l’incarico, dal momento che furono proprio gli antichi navigatori rodii a fondare, nella terra degli Opici, Partenope, importandovi il mito della Sirena.

Il territorio della Soprintendenza è estesissimo  ed  inoltre ha visto l’alternarsi di tantissime civiltà nell’arco di 15 secoli, dai  Preellenici ai Romani, passando per Greci, Osci, Sanniti. Il giovane archeologo non si avvilisce. È forgiato con la forte tempra ciociara. Volge i primi passi verso Cuma, avendo come riferimento il mito di Dedalo, che da Creta era fuggito e sulla rocca  di Cuma si era fermato, innalzandovi un grande tempio sacro ad Apollo. La localizzazione del tempio, messo in luce dal soprintendente Vittorio Spinazzola, suo predecessore, nel 1912, lo porta automaticamente a ricercare l’antro della sacerdotessa di Apollo. Dal momento che il tempio era sull’acropoli della città, il suo oracolo doveva esser per forza nelle vicinanze. Con i versi virgiliani nella mente, incomincia  ad esplorare tutte le caverne scavate “da quella talpa di Cocceio”, alla ricerca dell’ “Excisum Euboicae latus ingens rupis in antrum / quo lati ducunt aditus centum, ostia centum”....... L’antro, deve essere per forza nell’ “ampio fianco / della rupe cumea a guisa d’antro / s’apre d’intorno; e cento porte, e cento / ivi conducon aditi, dai quali / della Sibilla in altrettanti voci / erompono i responsi. E sulla soglia / erano appena, quando la ministra: / “L’ora è questa di chiedere il destino!”……

Perlustrando ogni anfratto, ogni fessura della collina; fidandosi del suo fiuto di archeologo;  esplora le gallerie romane, le caverne, gli antri anche dal lato del lago e ai piedi della rocca,  liberandoli  dalle frane e dall’ignominia dei secoli dopo la distruzione della rocca di Cuma operata da Narsete nel 553 d. C. Esplora cave di pietra, antichi covi di pirati, ogni fresco cellaio o stalla; sconvolge vigneti ed orti alla ricerca del tipico taglio greco trapezoidale (i Greci non conoscevano l’arco a  tutto sesto. L’unico che si è trovato è la celebre “Porta Rosa “ di Elea-Velia, nel Cilento, per opera di un altro grande soprintendente, Mario Napoli). I risultati di tale sconvolgimento sono evidenti: frammenti scolpiti,  pezzi di colonne di marmo; in una stalla  scopre le statue in marmo della coppia divina Hades e Persefone e, ai piedi della rocca, una bellissima statua di Diomede, immerso a testa in giù in uno scarico. A mano a mano che fa togliere  tonnellate di terra, un giorno ha un tuffo al cuore: gli scavatori hanno messo in luce un grande vestibolo,  ampio e profondo dal quale parte un “δρoμος”, un corridoio lunghissimo a volta. Finalmente l’antro è trovato ma da un più attento esame, risulta non essere quello. Una grossa cantonata, che lo avvilisce in un primo momento ma, con la sua cocciutaggine, si rimette al lavoro.

Un giorno in un ampio cellaio, fra le grossi botti, individua la sommità di un arco, dal preciso taglio greco. Immediatamente fa spicconare il muro e a mano a mano che i mattoni cadono l’emozione cresce: un lungo corridoio, uguale a quelli scavati a Rodi,  con tante “finestre” coperte da erbacce e terriccio, porta ad un vasto antro a volta con sedili di pietra qua e là. Riconosce, VI canto dell’Eneide alla mano, la descrizione che ne fa Virgilio. Sì, è questo il luogo: l’ampio vestibolo ai piedi della rupe, le cento porte, ostruite a metà dal terriccio e dalle erbacce, l’antro della sacerdotessa, il sedile in pietra sotto una nicchia.  Felice come un bambino, ci racconta  il professor  Giuseppe Maggi,  suo  braccio destro  nell’avventura  campana, mette lapidi di marmo dappertutto sulla collinetta di Cuma, riportando i bellissimi esametri del Vate ad ogni riferimento,. Ripianta alberi sulla rocca per dare l’illusione di quello che doveva essere la selva Trivia.

Oggi, purtroppo molte di quelle lapidi sono scomparse, come è scomparso il bosco Trivio  intorno al tempio di Apollo. Sarà quello l’antro della Sibilla?  Lo stesso Maiuri non ne fu sicuro. Erano troppe le grotte scavate da Cocceio,  ma abbandonò le ricerche per dedicare le sue cure ad un’altra area della Campania, nel versante opposto, mettendo alla luce rovine ben “più parlanti” al suo cuore: quelle di Pompei, di Ercolano, della  grande area vesuviana.

Ma la Sibilla sta sempre lì, con la grande suggestione che ti danno quei ruderi,  con la sua voce eterna perché eterno è l’interrogarsi dell’uomo che non sa darsi una risposta.

   

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