CUMA :  TRA  NATURA  E  MITO

Ogni qualvolta faccio ritorno a Cuma – e mi succede speso di accompagnare ospiti di passaggio - la sensazione è sempre la stessa, una sensazione che non ho mai provato in altri siti archeologici della Campania e che non è soltanto mia.
Appena varcato il cancello d’ingresso alla rocca ti accorgi di calpestare una terra speciale e, a mano a mano che sali nel viale appena sterrato, che taglia la verde collina, ti rendi conto, nella pace che ti circonda, del miracolo che questo luogo sprigiona. Qui la storia, la leggenda, il mito, il mistero si fondono nella natura e ti riportano indietro di secoli.
Gli antichi popoli, Micenei e Greci, che per primi approdarono su questi litorali, furono affascinati dalla loro bellezza e impararono a convivere con esplosioni, eruzioni, sconvolgimenti tellurici. Si accorsero che erano di breve durata e qui si fermarono perché questa era la meta indicata loro dall’oracolo di Delfo.
E qui, su questo lido esperio, navigatori egei, seguiti dai Calcidesi dell’isola di Eubea, dopo essersi attestati nel sec. IX nella vicina Pitecusa,  s’istallarono, guidati, secondo la leggenda, dal dio Apollo per mezzo di una bianca colomba che precedeva in volo la loro navigazione. E qui fondarono la città che chiamarono Kyme da kimata (sassi) per gli scogli che erano lì davanti, Cumae per i Romani, la più settentrionale e la più antica delle colonie greche in Italia.
Il dio che, attraverso il suo oracolo, aveva stabilito la loro meta e il loro rito e che presiedeva alla navigazione connessa con la fondazione di colonie in Occidente, sulla via tracciata dal cammino del sole, diventa il dio dominante della città,  colui che ne allontana i mali e le rovine. Egli è rappresentato con una colomba sulla spalla e sono tanti i colombi che hanno scelto a loro dimora, le rupi della rocca.. Essi svolazzano indisturbati; lì vivono felici  e muoiono, offrendo al visitatore il lugubre spettacolo di morte, sulle reti stese a protezione delle grandiose cavee, testimonianza del genio del famoso Cocceio. Esse fanno da vestibolo all’antro della sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Amaltea, chiamata Cumana dai Romani ed a loro tanto cara.
Ecco, l’antro è lì. Si profila nel buio col suo lungo dromos dal taglio trapezoidale, illuminato dalla luce proveniente dalle aperture sopraelevate che ne aumentano il fascino in un alternarsi di chiaro-scuri. Esso è vuoto, senza divinità, ma la magia è rimasta. Qui, in queste grotte l’uomo ha venerato ed ha interrogato la divinità per la sua ansia eterna di placare le sue incertezze. Qui, in queste cavee la Sibilla , secondo la poesia virgiliana, ha vaticinato ad Enea i destini di Roma.
Ma è proprio questo l’antro della profetessa? Lo stesso Maiuri restò in dubbio ma a noi piace crederlo. È bello ammantare la realtà di leggende;  è bello sognare.
Una lapide marmorea all’ingresso, una delle tante fatte apporre dal grande Amedeo Maiuri dopo il rinvenimento della porta dell’antro, tante volte cercata e ricercata con la sua tipica cocciutaggine, ci riporta ai versi del VI libro dell’Eneide:

“Excisum Euboicae latus ingens rupis in antrum
quo lati ducunt aditus centum, ostia centum,
rude ruunt totidem voces, responsa Sibyllae"
“E da l’un canto
dell’euboica rupe un antro immenso
che nel monte penètra. Avvi d’intorno
cento vie, cento porte; e cento voci
n’escono insieme allor che la Sibilla
le sue risposte intuona”

Ti inoltri nel buio quasi in timore reverenziale fino ad arrivare in fondo, alla cella della sacerdotessa. Ti sembra di vederla - invisibile a tutti - seduta su quel trono di pietra, mentre fa scorrere in una mano i granelli di sabbia a significare lo scorrere ineluttabile del tempo.
Sembra di udire la sua voce profonda,  moltiplicata dall’eco e ti coglie spontaneo il desiderio di udire la tua voce rimbombare nelle cento vie e nelle cento porte: “Ibis et redibis non….”, quante volte abbiamo udito questo ambiguo vaticinio dalle labbra dei nostri professori di latino! Oggi nessuno più ascolta l’oracolo. L’uomo moderno, nella sua vanità e nella sua presunzione,  sa tutto, anche il suo futuro, esplora  il cosmo, s’identifica con Dio. L’antro è stato profanato dalla sua empietà e il tempio del Dio del Sole, lassù, non è che un mucchio di rovine.
Gli esametri virgiliani  su un’altra lapide, raccontano di un altro mito. Ci sembra di vederlo, il tempio del Dio del Sole, nel suo splendore, tutto di marmo bianco e ricoperto d’oro, con le sue istoriate porte bronzee davanti alle quali si fermò Enea in estatica contemplazione. La leggenda vuole fosse stato costruito da Dedalo in fuga dalla dorata prigionia di Creta, librandosi in volo  con la ali  che furono fatali al diletto figlio.
Possenti mura greche, opus reticolatum e laterizi occupano la spianata contornata dai radi  alberi a ricordarci il virgiliano bosco di Trivia. Questo luogo e le basole della “via sacra” hanno visto il passaggio di troppi popoli: Preellenici, Greci, Etruschi, Sanniti, Romani e ognuno di essi ha lasciato la sua orma. Gli dei che coronavano questa acropoli, il grande Giove, che svettava su tutti, sulla cima più alta, Apollo, Poseidone, Demetra, Hera, non ci sono più. Hanno ceduto il passo ai santi cristiani nelle loro basiliche ma anche queste sono crollate sotto l’empietà umana. Ormai questa rocca è solo un Olimpo di fantasmi sul quale l’uomo si aggira con i suoi incerti passi.
Le formidabili mura di questa città che ha illuminato di civiltà il mondo antico, caddero sotto i colpi inferti da Narsete ma gli esuli cumani si rifugiarono in massa entro le mura di un’altra città, una città fondata precedentemente, non molto lontano dall’antico santuario della sirena Partenope, morta d’amore per l’eroe uticense. In essa portarono quanto di più vitale l’antichissima colonia era riuscita a conservare e, insieme ai prodotti del commercio e alle conquiste dell’ingegno , il bene più prezioso: l’alfabeto. Quella città era Neapolis.
Dalla vetta dell’Olimpo lo sguardo spazia sulla città bassa e sulla campagna tutt’intorno, con le sue verdi colline distanziate da crateri, da piccoli laghi, da bianchi blocchi di tufo, incorniciata dalla luminosità di coste, di spiagge, di mare. La terra degli dei, il regno di Plutone, dio del fuoco,  si è placata. I Titani, colpiti dai fulmini di Zeus, sono sprofondati nel Tartaro; Tifeo non lancia più i grossi macigni infuocati ; l’ingresso agli Inferi è occultato da terra e da sterpi; nell’Averno non c’è più Caronte.
“Oh geologi e vulcanologi, abbandonate per un istante le formule di composizione mineralogica e spiegatemi, di grazia, questo miracolo della vita, della terra riarsa per cui il fango viscido, la lava di fuoco, si coagulano, si suggellano e accolgono nelle loro aride vene il seme e il polline, le nutrono, le allevano in radici e germogli, le crescono in tronchi e rami con infiniti abbracci nella terra e nell’aria, fino ad esserne posseduti, dominati e sommersi; una vita delle piante fatta di linfa, di succhi, di umori, di senescenza e di rinascita, di corteccia rugosa e squamata”.
Così scriveva il Maiuri, in una lettera a “Il Mattino”,  pochi anni prima di morire.
E Cuma la splendida, fiore delle colonie elleniche, sopravvive oggi con le sue rovine parlanti come nei giorni della luce imperiale, prima che calasse la nube dell’abbandono, allorché dominava  tutto il litorale, da Formia alla Punta della Campanella.
Le ultime campagne di scavi, infatti, hanno portato alla luce la città sepolta oggi da erbacce che, fortunatamente, hanno preservato i  bei monumenti, affiorati nel perimetro delle sue mura, ed essi  parlano del suo splendore. Oggi Cuma è un museo all’aperto e, per la straordinaria importanza degli edifici e dei reperti venuti alla luce, potrebbe diventare il sito archeologico più importante d’Italia.
L’area della necropoli greca della città che si estendeva fino a Licola, come provano le interessanti tombe a “tholos”ed avanzi di colombari dell’età repubblicana e imperiale, è stata, nei secoli scorsi, una miniera immensa a disposizione degli scavatori clandestini disposti a sfidare nel fango della landa acquitrinosa e malsana la febbre malarica pur di portare alla luce ori, bronzi, vasi di ceramica.
Scavi più o meno regolari erano stati eseguiti dal 1852 al 1857, dal conte di Siracusa, fratello di Ferdinando II e, in seguito, per concessione ministeriale, da un privato, l’inglese Emilio Stevens. Della parte monumentale della città si sapeva ancora poco. Un programma organico di ricerche venne impostato nel 1912 ad opera prima del sovrintendente Vittorio Spinazzola,  che mise alla luce il tempio di Apollo e quello di Giove e poi, nel 1926, dal suo successore, Amedeo Maiuri, il quale, di fresca nomina, proprio dall’acropoli di Cuma iniziò le sue fortunate campagne di scavo. A lui si deve la scoperta dell’antro della Sibilla e di tutte le cavee scavate “da quella talpa“ di Cocceio.
I risultati ottenuti con tutte le campagne di scavo ed, in particolar modo dell’ultima del 2004, sono straordinari:  tombe e catacombe, cripte, mausolei, ville e dimore patrizie lungo tutta la valle che si estende in direzione di Licola; nella città bassa, l’anfiteatro di 90 metri di lunghezza, il tempio di Hera, il santuario di Iside, il Capitolium con i giganteschi busti marmorei di Giove, Giunone e Minerva, la triade capitolina, il Tempio dei Giganti e lì, sull’acropoli, l’antro della Sibilla, il tempio d’Apollo e il maestoso tempio di Giove e le basole della “via sacra” che ad esso conducono.
Quest’area, fortunatamente scampata alla forsennata urbanizzazione, si è rivelata il più straordinario sito archeologico che abbiamo in Italia. Quale altro potrebbe vantare dieci chilometri di monumenti eccezionali e quasi tremila anni da raccontare?
Alla luce di questi risultati la Regione ha messo in atto la più vasta campagna di scavi che nell’arco di dieci anni interesseranno il parco archeologico di Cuma, alla ricerca delle leggende e dei miti che ammantano questa città dalla storia millenaria. Il via ai lavori, organizzati dalla Sovrintendenza ai Beni Archeologici di Napoli e Caserta, sarà dato a brevissima scadenza e  interesserà altri quindici ettari di terreno che si aggiungeranno ai venti già esplorati, in un’area archeologica che, secondo gli esperti, è vasta almeno cento ettari.
Sarà una seconda Pompei? Molto di più, perché Cuma è stata la culla della Civiltà Occidentale, madre fondatrice di Napoli e di tante altre città, compresa Zancle (Messina).
Qui, in questa terra, che unisce uomini e dei, storia e natura, passato e presente, è incominciata la nostra  storia e quella d’Italia.

Renata Ricci Pisaturo

 


Cuma, acropoli: il belvedere e la collina del Tempio di Giove


Cuma, acropoli: l'ingresso all'antro della Sibilla


Tempio di Giove


Tempio di Apollo


Tempio di Apollo


Terme del Foro -Capitolium - Tempio dei Giganti


Terrazza Belvedere


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