CAPRI
“ADDIO, VILLA LYSIS!”

Una figura spettrale, alta e smunta, dal colorito cadaverico, un camicione nero alla coreana, apparve all’improvviso davanti ai nostri occhi mentre, a testa in su, guardavamo quell’enorme buco  del tetto sfondato della villa, dal quale il sole creava un gioco di luci con l’ombra che regnava tutt’intorno. Mio marito ed io sobbalzammo. Era forse il fantasma del barone che ancora si aggirava nelle stanze della sua splendida dimora alla ricerca della pace invano cercata lì da vivo? Appoggiandosi alla bellissima ringhiera in ferro battuto,  raffigurante pampini e grappoli di uva, il giovane uomo prese a scendere, a lenti passi, lo scalone di marmo che collegava l’ingresso col piano superiore della villa.

Alle nostre spalle la voce della custode, che era andata  nel frattempo ad aprire una persiana, ci riportò alla realtà e nel gutturale dialetto caprese ci disse: "Quello è mio figlio. È tanto malato. Và, bell’ ‘e mammà. Vatt’a mangià  nu poco ‘e frutta". E il figlio “malato”, (un mongoloide, poveretto!), torcendo la testa e abbozzando una smorfia che voleva essere un sorriso,  senza dire una parola, scomparve da una porta verso destra.

Ci trovavamo a Villa Lysis, la bellissima villa  aggrappata alla rupe di Tiberio, a Capri, fatta costruire, ai primi del ‘900 dal barone di nazionalità francese Iacques d’Adelsward Fersen, discendente dal nobile casato svedese dei Fersen e nipote del conte Hans Halex de Fersen, celebre amante della regina Maria Antonietta, che inutilmente aveva cercato di salvare dalla ghigliottina, nella fuga dei reali a Varennes. I Fersen, proprietari nel ’700 della più grande acciaieria svedese, una delle più importanti del mondo, si erano trapiantati a Longwy, in Lorena, prendendo la nazionalità francese dopo che il conte Hans, ritenuto ingiustamente responsabile della morte dell’erede al trono svedese, Gustavus III, era stato dilapidato dalla folla inferocita.

Eravamo passati tante volte davanti a quella villa diretti al ristorantino di Augusto, dove nell’800 la bella Carmelina intratteneva con la sua tarantella i primi turisti approdati a Capri. Vista dal mare, spiccava là, solitaria, appiccicata alla rupe di Tiberio, (come hanno fatto a costruirla? – ci chiedevamo), ma contornata dal fitto bosco che l’attorniava, te la vedevi sorgere davanti, e lateralmente,  solo quando eri arrivato lassù, all’ultimo tratto della via Lo Capo. Conoscevamo la sua storia e quella del suo proprietario. Essa era diversa da tutte le altre: ammantata da un’aria di mistero, emanava un fascino particolare su tutta la colonia caprese dei residenti  e dei turisti che si arrampicavano fin lassù per andare a visitare le imponenti rovine del palazzo imperiale di Tiberio, rese visitabili negli anni del dopoguerra dal grande Amedeo Maiuri. Anche il grande archeologo era  rimasto ammaliato dall’isola delle sirene, al punto tale da costruirsi una casetta a Caprile, il suo suggestivo approdo dopo l’avventuroso viaggio mediterraneo. Per gli isolani,  invece,  era solo “La villa del peccato”, “la villa maledetta” ed il barone  “un altro Timberio”.

E proprio il nostro amicone Augusto, in quel tardo settembre, una giornata meravigliosa, dal cielo terso come non mai, davanti ad un fumante piatto di ravioli “alla caprese” ed un bicchiere del vino delle “sue vigne”che riservava solo agli amici, ci ragguagliò su come dovevamo fare per visitare la  villa: “ I proprietari sono in America e la casa è abbandonata da anni. Ora c’è una custode, una donna di qua, rimasta vedova. Andate a nome mio e datele qualcosa di soldi: vi farà entrare.

L’ingresso alla villa, nel vialetto, ormai pieno di sterpi, era sbarrato da una transenna di tavole che non solo faceva le veci del cancello mancante fra i due pilastri scrostati, ma che girava intorno intorno  per nascondere la villa allo sguardo dei curiosi. Quello che un tempo doveva essere stato un parco bellissimo era tutto uno sfacelo, un aggrovigliato bosco incolto. A malapena si distinguevano i contorni delle antiche aiuole; pezzi di marmo qua e là,  piedistalli e sedili divelti, lumi rotti, spranghe di ferro e transenne sparse dovunque. La  facciata, nel suo stile fra il liberty e il caprese, pur così devastata, con l’intonaco scrostato e macchie d’umido,  presentava ancora il suo fascino, ergendosi su un pronao di marmo, come un tempio classico, con quattro colonne nelle cui scannellature si distinguevano ancora tracce di doratura. Un tempio dedicato all’amore da un poeta parnassiano, emulo del decadentismo inglese imperante in quegli anni, con tutta la sua simbologia di amore legato al dolore, di vita legata alla morte, come si riusciva ancora a leggere sul fregio dell’architrave: "AMORI ET DOLORI SACRUM". Sulla facciata laterale di destra spiccava ancora una lastra di marmo, la prima cosa che avevamo notato entrando dal viale: "L’AN  MCMV / CETTE VILLA FÛT  CONSTRUITE / PAR  JACQUES / CTE  ADELSWARD FERSEN / ET DÈDIÉE / À  LA JEUNESSE  D’AMOUR".

Tutte le finestre ed i balconi erano chiusi da persiane romane sgangherate  e gli anneriti gradini di marmo della scala di accesso al pronao, divelti quasi tutti. La custode, passata da dietro, ci aprì la cigolante persiana e la porta a vetri e, raccomandandoci di fare attenzione ai calcinacci, sparì.

Era il 1978, come risulta dal mio album di foto.

Superata l’impressione di quel primo impatto col figlio della custode, ci aggiravamo, nella penombra, mio marito ed io fra quei muri ammuffiti e scrostati,  fra quegli archi eleganti sormontati dai soffitti a vela, fra gli stucchi, ancora per terra, del famoso fumoir cinese, dove tutto parlava del finissimo gusto del suo proprietario. Un sentimento strano e inspiegabile ci invadeva: la primitiva curiosità si era tramutata in emozione che aumentava sempre di più. Avevamo la sensazione di profanare un sepolcro. Quasi con un senso di rispettoso riguardo, accarezzavamo quelle pareti, ammirandone le eleganti linee, dimenticando i vizi e le sconcezze che esse avevano visto, ma che parlavano di un’epoca, di una vita diversa dalla nostra.  Parlavano di antichi splendori, di quella che era stata la società caprese in quegli anni felici quando Capri era CAPRI, il favoloso scoglio sul quale erano approdati  da tutto il mondo personaggi di spicco e i grandi deragliati della vita che qui erano venuti a rifugiarsi alla ricerca di una realtà diversa. Sono essi che nel bene e nel male hanno creato il mito dell’isola e uno di essi, forse il più noto, è stato Fersen, secondo solo a Tiberio per la letteratura a lui dedicata.

Salimmo con circospezione al piano superiore, ed uscimmo sulla  bella terrazza che ancora conservava qualche pezzo delle antiche maioliche. Lo spettacolo che da lassù offrivano la Marina Grande dell’isola e tutto l’arco del golfo di Napoli, con il Vesuvio di fronte e la punta della Campanella, proprio lì sotto, infiammati dal sole che tramontava dal lato d’Ischia, era superbo. Lo sguardo spaziava sui contorni della costa campana: i Campi Flegrei, Miseno, l’ambrata distesa delle spiagge domizie e, ancora, il profilo sfumato del promontorio della maga Circe e delle isole Pontine, delle terre d’Abruzzo. Dall’altro lato la costa di Amalfi, il litorale di Paestum e Capo Palinuro con i loro miti e, dovunque, l’azzurra nota dominante del mare, contrastante con quella del cielo infuocato.

Questo l’eremo dorato del barone, “le beau Fersen”, come lo chiamavano a Capri. Ė “un jeune homme, mince et blond”: così lo descrive lo scrittore francese Roger Peyrefitte ne “L’exilé de Capri”, pubblicato in Francia nel 1959 e tradotto nello stesso anno in Italia. Il libro, la migliore biografia del barone, sia pure romanzata, è molto corrispondente alla realtà, perché tutti i suoi personaggi sono realmente esistiti, coinvolti nella sua drammatica esistenza, che va dagli inizi del ‘900 alla prima guerra mondiale e all’effervescente periodo del dopoguerra vissuto dall’aristocrazia parigina, napoletana e del mondo caprese. Il libro ha avuto nel 1974, a Parigi, l’ultima e definitiva ristampa.

Senza Peyrefitte, assiduo frequentatore dell’isola (che ho avuto il piacere di ammirare nelle sue passeggiate per via Camerelle, affiancato dai suoi abbronzantissimi boys, biancovestiti, o in quella vetrina che è “la terrasse” del Quisisana), non sarebbe nato il mito di Fersen. Peyrefitte ha acquistato grande fama  specialmente per le sue pubblicazioni scandalistiche  ma il carattere di tali scritti nulla toglie al valore letterario delle sue opere, tanto da ottenere il Prix Renaudot per Les amitiées particulières.

Questa, in breve, la vita di Jacques Fersen. Ha appena 17 anni allorché, durante il soggiorno in Italia come regalo per la conseguita licenza liceale, fa la conoscenza del trentenne visconte francese Robert de Tournel, poeta dilettante ed ex-ufficiale di cavalleria. Con costui, che gli prospetta un’incantevole pace, lontani dal resto del mondo e in piena libertà di vita, approda, nel 1901, per la prima volta  a Capri, nell’isola che ha fatto della libertà di vita la sua vera bandiera. Ne resta incantato. Rientra a Parigi per ottemperare al servizio militare e nella sua divisa di Alfiere di Marina brilla nei salotti aristocratici. E’ ricchissimo ed è un artista: disegna, suona il piano, è un poeta e un affascinante conversatore. Inizia qui la sua verve poetica e pubblica un opuscolo di versi, Coute d’amour, al quale farà seguito Chansons Légères  dedicato al suo avo, il conte Fersen. e molti altri componimenti poetici che non gli daranno certo la fama. Questa vita da nobile rampollo, però, non piace al raffinato ufficialetto. Il suo interesse è rivolto ai giovanissimi ragazzi. Desideroso della più completa indipendenza, affitta un appartamento al numero 18 di avenue  Friedland, a Parigi, a due isolati  dall’appartamento dove vivono la madre e le due sorelle, Germaine e Solange e, per mascherare le apparenze, si fidanza con la diciassettenne Blanche, la bella figlia del visconte di Maupeou.. Ne fa un nido tutto rosa, il suo colore preferito e vi accoglie il suo primo grande amore, un liceale del collegio Carnot, Lolou Locré e giovanissimi gay. Vi celebra sacrileghe parodie religiose in onore di satana, vi rievoca le medievali “messe nere.” La sua condotta scandalistica, denunziata da un “valet de chambre” gli vale l’arresto e la rottura del fidanzamento.

Nauseato, fa ritorno a Capri e, venuto nella determinazione di ritirarvisi, incomincia a cercare il luogo più solitario dove poter costruire la sua dimora. Su suggerimento di un altro ospite illustre di quel periodo, Norman Douglas, sceglie la rupe di Tiberio, ossia il posto più inaccessibile dell’isola. Compra un terreno lassù, nella Capri contadina, di dodicimila metri quadrati e, al posto delle viti volute nel 1800 dall’allora sindaco Joseph Bourgeois, un fedelissimo dell’imperatore a Waterloo, sposato con una donna di Capri, fa piantare dal giardiniere Ruggiero moltissime piante di alloro, che più si addicono ad un poeta come lui.

Affida il progetto della villa all’amico Edouard Chimot, rinomato disegnatore e pittore, ma  egli modifica tutto perché sogna una casa diversa da tutte le altre. Al muratore caprese mastro Vito ne affida la costruzione e parte per Ceylon dove scopre la voluttà dell’oppio. Fa ritorno a Capri nella primavera del 1904 e va ad alloggiare temporaneamente alla Villa Certosella a Tragara. Nello stesso anno entra nella sua vita Nino Cesarini, un quindicenne muratore conosciuto a Roma e, avuto il consenso dalla famiglia di lui, lo conduce a Capri, ne fa il suo amante, gli mette accanto due maestri per insegnargli la pura lingua toscana e le buone maniere e, indifferente ai sorrisi di qualche notabile, lo fa passare per suo segretario.

Per far dimenticare lo scandalo del suo processo, apparso anche sul Mattino, si autopromuove al titolo nobiliare di conte. La buona società caprese lo accoglie trionfalmente, come aveva accolto il magnate Krupp, suicidatosi da poco, e i tantissimi uomini di primo piano che nell’isola erano venuti a rifugiarsi dopo aver lasciato alle spalle i loro paesi inospitali. Egli è bello come un dio sceso dall’Olimpo, veste come un principe, affascina con la sua parola flautata e il suo francese perfetto; è coltissimo perché ha girato il mondo alla ricerca dell’arte di ogni Paese, ha gusti raffinatissimi.

Trascorre quell’inverno in Sicilia con Nino, abbeverandosi alla civiltà araba e nella primavera seguente fa ritorno a Capri. La villa è ultimata così come l’ha voluta lui: un misto fra il tempio greco e lo stile liberty. Ne cambia il nome in Lysis, in onore di Liside, il giovane efebo, discepolo di Socrate, (dai dialoghi di Platone); l’abbellisce con copie di statue di marmo e di bronzo di divinità del mondo classico, vi profonde tappeti, sete, cuscini orientali, l’avvolge in profumi inebrianti, la riempie di ritratti di Nino. Pianta nel parco gardenie, azalee, narcisi, ortensie, rose. Non ama le bouganville perché troppo comuni. Vuole stupire il mondo come rivalsa all’ostilità del mondo nei suoi confronti. Vuole che la sua casa sia speciale, scioccante: una casa dedicata “À la jeunesse d’amour”.

Nell’estate del 1905 Nino mura sulla facciata destra la lapide che attesta il compimento dell’opera. Alla grande festa d’inaugurazione salgono lassù, chi a piedi, chi in portantina, i notabili dell’isola, aristocratici, artisti, e tutti gli eccentrici personaggi invitati. Va a Parigi per far visita alla madre e alle sorelle. Germaine sta per sposare il napoletano marchese Capece Minutolo di Bugnano e Solange, a causa dello scandalo caduto sulla famiglia, sta per prendere il velo. A Parigi compra moltissimi mobili per la sua villa, tappeti e quadri e pubblica, ancora a sue spese una silloge poetica, anch’essa  di poco pregio come tutte le composizioni  precedenti.

S’imbarca con Nino per la Cina. Ne ritorna con una pregiatissima collezione di pipe d’oppio appartenuta ad un imperatore: trecento pezzi di cui alcune in oro, in argento, in avorio, in pietre dure e ne abbellisce la sua camera cinese a Villa Lysis. Lì va a cercare i suoi paradisi artificiali sempre con maggior frequenza. Ciò nonostante, scrive freneticamente e fonda perfino una rivista mensile Akademos che dura appena un anno. La droga ormai lo sta distruggendo e ancor più ne fa uso quando Nino s’innamora di una giovane russa e si allontana  per un pò da lui. In preda alla gelosia e alla depressione, scrive il suo primo romanzo ambientato a Capri: "Et le feu s’éteignit sur la mer…" nel quale sparla della società caprese antiquata e rozza che non l’ha capito e non ha saputo apprezzare i suoi scritti. Il romanzo suscita molta indignazione.  La simpatia dei primi anni si muta in avversione nei suoi confronti  e allorché egli, fra un’orgia e l’altra, ha la felice idea di rievocare nella grotta di Matromania il sacrificio d’Ipato, uno degli efebi di Tiberio, gli abitanti della contrada lo denunziano. Il sindaco dell’isola, per evitare lo scandalo non denunzia il fatto in Questura e gli suggerisce l’allontanamento dall’isola. E mentre Nino presta il servizio militare, Jacques si rifugia a Parigi e a Nizza. Ritornato a Capri nel 1911 si riconcilia con i capresi. Ricomincia a viaggiare intorno al mondo e a cercare conforto nella sua stanza cinese. Ormai la guerra è alle porte. Nino viene mandato al fronte mentre a lui, accertata la sua tossicodipendenza, viene prescritta la disintossicazione nell’Ospedale Militare di Napoli.

La fine della guerra vede anche la fine del suo rapporto amoroso con Nino che ha ormai trent’anni. e la comparsa nella sua vita di un altro amore: Manfred, il giovanissimo figlio di una ricca famiglia di Sorrento. Si attacca a questo nuovo amore come ad un’ancora di salvezza contro la morte che sente ormai vicina L’oppio non gli basta più e l’alterna con la cocaina. Questo nuovo amore gli ispira la sua ultima opera: "La ballade du petit faune" e col suo fauno parte per la Sicilia nel 1923. Nella sera del suo arrivo, il 3 novembre dello stesso anno, una sera nella quale tutti gli elementi si sono scatenati in una violenta tempesta, fa ritorno a Capri, cena con Nino e Manfred poi scendono nella camera cinese dove il braciere già arde. Gli occhi chiusi, aspira i vapori dell’oppio nella sua pipa più pregiata. Risaliti nel salone rosa, Yacques chiede loro di stappare una bottiglia di champagne e, mentre Manfred sta mostrando a Nino le fotografie fatte in Sicilia, egli versa nella sua bellissima coppa, cesellata da Vincenzo Gemito (uno dei frequentatori della villa), una dose mortale di cocaina

“Il faut partir avant la fin du rêve” aveva detto Oscar Wilde, il più grande rappresentante del dandismo, suo contemporaneo. Finisce così anche il sogno di questo esteta che con la sua vita “inimitabile”, nell’arco di vent’anni ha risuscitato l’isola che dormiva nella sua bellezza. Il suo nome è rimasto vivo, a Capri, come quello di Tiberio ma nemmeno nella morte l’esteta raffinato ha trovato pace. Riesumato dalla insospettita sorella Germaine, che ne chiede l’autopsia, viene cremato a Roma e riportato nel piccolo cimitero acattolico dell’isola. Sulla sua tomba vengono incise le parole “Baron Jaques Adelward Fersen”. Ultimo dolore: Jacques senza la c!

Cocteau disse: “Fersen, al pari di Ludwig di Baviera, appartiene a quel tipo di decadenti o di esteti che, incapaci di creare un capolavoro, vollero fare di se stessi e della propria vita un capolavoro”.

Ho rivisitato la villa, che ha avuto molti passaggi di proprietari, nel 2001, dopo l'acquisto da parte del Comune di Capri nello stesso anno. Era stata restaurata nei minimi particolari ma non aveva più lo stesso fascino, non ha suscitato in me l’emozione della prima volta.  Ė di questi giorni la notizia che il Comune di Capri intende vendere la villa a privati.

“Addio, Villa Lysis!” Con te se ne va un altro pezzo di storia!

Renata Ricci Pisaturo

 
Jacques Fersen (primi anni del novecento)


Iscrizione murata nel 1905 in occasione dell'inaugurazione della Villa


Nino Cesarini nel pronao della Villa (1906)


Jacques Fersen


Il terrazzo della Villa con la statua di Nino Cesarini eseguita dallo scultore Irace (foto Pluschow - 1906 ca.)


Ritratto di Nino Cesarini in vesti orientali di Vincenzo Gemito (Collezione Maesano - 1914)


Atrio con la scala interna che conduce al primo piano della Villa (1921 ca.)


Rivista mensile fondata da Jacques Fersen


Tomba di Farsen nel Cimitero Acattolico di Capri


La grande sala della Villa negli anni Trenta (foto archivio Bruno Pisaturo)


La grande sala (foto archivio Bruno Pisaturo - 1922)


Anni '80


Anni '80


Il variare delle aperture tra il primo ed il secondo piano (1994)


La grande esedra verso oriente (1994)


Fumoir cinese


Camera da letto di Jacques Fersen


Camera da letto di Nino Cesarini


Facciata destra della Villa con la lapide murata


Terrazzo primo piano


Vista laterale esterna


Ingresso principale


Cancello d'ingresso


Salone principale


Salone principale


Scala di accesso al primo piano


Vista laterale della scala d'accesso


Panorama della costa Sorrentina


Copyright (c) 2008 [Interviù]. Tutti i diritti riservati.
Web Master: G.C.G.