FOLKLORE CAPRESE
“LA SAGRA DELLA MARUZZA”Le
prime piogge dopo il Ferragosto, invocate come si può invocare un’oasi in
pieno Sahara, veri temporali con fulmini, tuoni, rimbombi e cascate
d’acqua da far pensare che il Signore se ne fosse scordato, portano, nel
microcosmo di Capri, quella che viene chiamata: “la rottura dei tempi”. Come
per incanto, da un giorno all’altro, il popolo blu, il popolo da incubo che,
per tutta l’estate ha corso, ha passeggiato, ha affollato i caffé e la
piazzetta, è salito e sceso dalle sorprendenti balze alle sassose spiagge;
tutto il popolo che lo zefiro, lo scirocco e il libeccio hanno accarezzato
languidamente, portando via il profumo delle creme solari, scompare davanti
ai primi scrosci, veri diluvi, che trasformano le strade in vertiginosi
fiumi in piena. Chi l’ha detto che “l’isola del sole” è arida?
Ripulito lo scenario da quel velo di
brume e di calura che nei mesi estivi l’ha ingrigita, Capri riacquista i
suoi smaglianti colori e ridiventa il quadro d’autore qual è, firmato da
Dio. Abbandona l’aria snob per riappropriarsi del suo vero volto, quello
contadino, il volto di quando viveva di zappa e di reti da pesca.
La mitica piazzetta, “il salotto del
mondo”, diventa, da un giorno all’altro, come per incanto, una piazza
qualsiasi di un qualsiasi paese. Quasi non credi ai tuoi occhi. La puoi
vedere attraversata da un piccolo gregge di capre che, scese dal Solaro o da
Cetrella, lì sostano nell’attesa che il pastore si prenda lo sfizio -
negatogli fino a pochi giorni prima - di sedersi sulla gradinata della
chiesa a gustare un cono gelato. Lì, sotto l’arco di via Fuorlovado, il
venditore di gelse nere, con al braccio il suo panierino ricoperto da una
foglia di fico, t’invita a comprare i succosi frutti color rubino o i
dolcissimi fichi bianchi dell’isola o le prime noci fresche. Seduta all’ombra
di via Longano è la venditrice di lumache, una delle tante contadine che,
con le prime piogge, si sono sviate per le campagne, “sono andate a maruzze”,
vera manna per la povera gente che vede di rado la carne. Le hanno messe a “pariare”,
a spurgare nelle zuppiere di creta per renderle degne della prelibatezza al
palato che offre “la zuppa di maruzze”, cucinata con l’antica ricetta che
loro solo conoscono, profumata di pomodoro e finocchietto dell’isola.
Capri ritorna ai suoi legittimi
proprietari, costretti da secoli a dissodare il terreno per far posto alle
coltivazioni. È questa l’altra Capri che al vederla, non ti sembra mai di
trovarti nell’isola più snob del mondo. Angoli di paradiso che rispondono ai
dolci nomi di Cetrella, Cesina, Pian delle noci, Caprile, Tiberio,
Matromania, Monticello, Migliara. Qui, in queste oasi di pace affacciate
sul panorama più bello del mondo, si vive la vera vita di Capri. L’anima
della gente è penetrata nei luoghi, rivive nei suoi personaggi
caratteristici, nell’umanità e nella natura; rivive nelle sue tortuose
strade Piccole strade così piene di gioia che ti viene da sorridere solo ad
imboccarle. Rivive nelle casette bianche di calce, dalle linee irregolari,
dolci all’occhio, inondate dal profumo di gaggia, di gelsomino, di fiori
d’arancio, a seconda della stagione; nei cortiletti con i loro pozzi e il
lavatoio all’aperto, con il pergolato, i limoni e l’immancabile
bouganville a dare una macchia di colore ai bianchi muri; nelle colonne
delle piccole terrazze, ricoperte da pagliarelle di canne, nel tipico stile
caprese.
La campagna di Capri è un poema a
parte. In tutti i paesi della terra l’uomo fa crescere le piante che vuole
lui; a Capri crescono quelle che vogliono loro e a velocità vertiginosa.
Crescono fra le coltivazioni , sui massi, sugli scogli, nei posti più
impensati. Non è difficile vedere spuntare un pino addirittura, in tutta la
sua altezza, da un masso e ti viene da chiederti dove diavolo affondi le
sue radici.
Nei tempi antichi, sotto il manto della
flora endemica, affioravano dappertutto “le anticaglie”, ossia il grande
patrimonio archeologico sparso su tutta l’isola., ma quelle braccia monche,
quei piedi, quei pezzi di colonne, quelle anfore rotte non facevano
impressione. Ridotte in frantumi, le “anticaglie” venivano gettate in mare.
Erano tuttavia scampate alla distruzione le rovine della più imponente delle
dodici ville augustee sparse sull’isola: Villa Iovis, il Palatino di Capri,
cosparso di sterpaglie a nasconderne la maestosità delle muraglie e delle
arcate. Ma un giorno i caprioti, vedendo che i visitatori stranieri, sempre
più numerosi, intraprendevano la faticosa ascesa al monte San Michele, mossi
dalla curiosità ed eccitati dal desiderio di vedere i luoghi che erano
stati teatro delle gesta del famigerato imperatore (oggi giustamente
riabilitato), pensarono di trarre vantaggio da quelle rovine che i primi
archeologi stavano mettendo alla luce. Incominciarono col portare a casa “le
anticaglie” che trovavano, ad addobbarne i loro giardini, le loro terrazze ed
incominciarono a dare la dovuta importanza ai ruderi della reggia di “Timberio”.
Si ricordarono, altresì, che l’8 settembre ricorreva un anniversario
importante: quello di Santa Maria del Soccorso.
Sugli ultimi
spalti delle rovine del Palazzo Imperiale, un antico canonico, don Costanzo
Serena, irriverentemente chiamato “Sciabolone” dal popolino avvezzo ad
affibbiare soprannomi, per via di quel suo naso adunco, nei primi del ‘900
aveva fatto costruire una chiesa là dove, per altro, preesisteva l’eremo di
fra Giovanni, un frate del Terzo Ordine Francescano. L’aveva intitolata a
Santa Maria del Soccorso e, onde esorcizzare l’ombra di Tiberio, l’aveva
sormontata con una statua della Vergine, tutta dorata per renderla più
visibile, col viso rivolto verso il mare a protezione dei naviganti dalle
tante bufere che investivano l’isola a partire dall’autunno. (Oggi la statua
è in bronzo dopo che la precedente, per altro già priva dell’originale
doratura, venne distrutta da un fulmine nel 1979).
Ne aveva istituita la festività il
giorno 8 settembre, giorno della nascita della Madonna e i primi
festeggiamenti videro la “bella Carmelina”, emula della romana “saltatrix”,
ballare al ritmo del tamburello davanti alla sua locanda, la più antica
dell’isola, per la gioia dei primi forestieri arrivati fin lassù e
rievocare loro le dionisiache orge che avevano rallegrato il dorato esilio
dell’imperatore.
A Capri gli anniversari non fanno né
caldo, né freddo: passano inosservati, ma quando si tratta di onorare un
loro santo, gli isolani si fanno in quattro, sia quelli di Capri, sia
quelli di Anacapri, i due comuni eternamente rivali. Pensarono quindi, i
caprioti, di rinverdire questa festività e, da popolo festaiolo qual è,
unire il sacro al profano, l’inno alla Vergine e l’inno a Bacco, a memoria
degli antichi baccanali E poiché la chiesa di Santa Maria del Soccorso è
ubicata nel rione di Tiberio, il più antico e storico del monte San
Michele, i tiberiani, secondo un rito che si tramanda da padre a figlio, si
fecero carico di organizzare i festeggiamenti.
Un accenno su questo antico rione:
“Andare ‘ncoppa a Tiberio” non significa soltanto salire sul monte San
Michele per raggiungere la residenza del tanto vituperato imperatore sulla
cima più alta che porta il suo nome. Significa anche intraprendere la salita
diretti verso un luogo residenziale di storia recente, di archeologia e
storia remota e naturalistico di storia perenne. Si comincia con la macchia
che sovrasta il quadrivio di Sopramonte, sorta di termometro della stagione
isolana poiché annunzia la primavera tingendo di nitidissimi colori le
piante - con una spiccata predilezione per l’oro delle ginestre - e
l’inverno allorché, spenti i rossi, gli azzurri e i gialli tutto diventa
verde cupo.
Passata questa macchia
mediterranea-caprese (sono presenti nell’isola più di cento piante che
crescono solo lì) ci s’inoltra verso la sommità del monte Tiberio. Da qui in
poi siamo in piena Capri contadina, storicamente parlando, nella quale si
distaccano le grandi ville di Moneta, Monetella e La schiava con i loro
bei viali colonnati e i pavimenti in maioliche decorate, originali
dell’’800. La presenza della colonna in marmo o in cemento imbiancato a
calce, a ricordare quelle che abbellivano i porticati delle ville romane,
divenne così familiare a Capri, da esser presente anche nell’edilizia
popolare e a dare origine a quello che viene chiamato “lo stile caprese”.
Si prosegue poi con la “Passeggiata
archeologica”- ancora ricoperta da basole romane fra le quali affiora
qualche soglia prelevata dalle rovine della reggia - che porta dritto agli
scavi, passando davanti al grande Parco Astarita, donato al Comune dal suo
proprietario, a strapiombo sul mare, con i suoi molti sentieri e viali di
cipressi.
La zona, nell’800 fu tutta un vigneto
in virtù dell’arte contadina di un “guerriero” napoleonico, capitato a
Napoli dopo la sfortunata vicenda dell’imperatore a Sant’Elena e, da qui,
trapiantato a Capri. Si chiamava Joseph Bourgeois, còrso di Bastia; portava
in petto la medaglia di Sant’Elena dei fedelissimi di Waterloo. Sposò una
ricca isolana e, divenuto sindaco, mise a frutto le sue qualità campagnole.
Il rione ha mantenuto anche con le
moderne costruzioni questa fisionomia: gli orticelli delimitati da bassi
muretti in pietra viva, carrubi, fichi d’india, profumati boschetti di
alloro e di mirto, vigneti e agrumeti e un labirinto di stradette che danno
la scalata al Monte San Michele.
Gli abitanti di Tiberio, orgogliosi
depositari di questa tradizione, riuniti in comitato da oltre 80 anni
organizzano la festa che, coincidendo con la Piedigrotta napoletana, viene
chiamata Piedigrotta Tiberiana e La Sagra della maruzza, poiché comprende un
percorso enogastronomico nel quale il piatto clou è proprio quello
costituito da quest’umile mollusco gasteropode.
Mi piace ricordarla come l’ho vissuta
nei tempi d’oro dell’isola, negli anni sessanta e settanta, con la poesia di
quei tempi. Già da giorni prima iniziavano i preparativi che vedevano gli
uomini indaffarati a delimitare il percorso enogastronomico lungo la via
Tiberio e la “ Passeggiata archeologica”, con filari di festoni e di
lampadine colorate; ad allestire gli stand per la degustazione dei prodotti
locali e ad addobbare le terrazze e i balconi con lampadine multicolori,
palloncini veneziani e ghirlande, onde aspirare al premio per il migliore
addobbo.
Le donne, tutte le donne del rione,
erano invece addette a preparare le saporitissime pietanze che sarebbero
comparse nel menù al modico prezzo di 10.000 lire a biglietto, che si
comprava ad inizio percorso e comprendeva anche un bicchiere di vino, il
rosso vino dei vigneti tiberiani. Le pietanze erano costituite da parmigiane
di melanzane, coniglio alla cacciatora, grigliate di salsiccia e
naturalmente dalla pietanza per eccellenza: la gustosissima e profumata
“zuppa di maruzze”, cucinata secondo un’antica ricetta isolana. Il vino dei
vigneti tiberiani, spillato direttamente dalle botti poste lungo il
percorso, veniva a completare il dono che gli abitanti di Tiberio, insieme
alle pietanze, facevano alla cittadinanza in onore della Madonna Dolci di
tutte le specie, anguria e bibite e, naturalmente vino, completavano il
ricco menu, come extra.
Era uno spettacolo vedere di sera tutta
la montagna ricoperta, come un grande albero di Natale, da mille luci
multicolori e sulla rupe le imponenti rovine illuminate da fari. Ci si
sedeva a mangiare, ognuno con il suo vassoio di cartone sui massi della
vallata di Cesina, sottostante agli scavi di Villa Jovis, per veder
ballare la tarantella dalla locale banda di Scialapopolo, ed ascoltare i
bravissimi cantanti che si esibivano nel costume regionale e suonando i
tipici rudimentali strumenti del folklore campano: tamburelli, “putipù”,
“scetavajasse” e così via. Si cantava e si ballava fino a notte inoltrata.
Era la festa più allegra dell’isola, insomma, tipicamente caprese e
disdegnata dai turisti snob. Rappresentava per i capresi quello che per i
romani è la “festa de no’antri”, la festa che viene celebrata a Roma il 24
giugno sullo sfondo suggestivo della basilica di San Giovanni in Laterano.
(Per inciso, anche a Roma, in quella festa mangiano le lumache,
notoriamente cornute, contro il malocchio) Oggi la festa vede i cantanti
alla moda e tutto l’apparato elettronico che si portano dietro, ma io
rimpiango quei tempi.
La mattina del giorno otto il suono
della campana della chiesa di Santa Maria del Soccorso annunziava agli
ancora assonnati isolani la prima messa, seguito da una raffica di fuochi
d’artificio che sarebbero continuati nel pomeriggio all’uscita della
processione col Santissimo sul piazzale degli scavi e a mezzanotte, a
chiusura dei festeggiamenti, nello spettacolo più suggestivo: l’incendio
delle rovine con una cascata di fuoco, che dall’alto degli spalti avvolgeva
i muraglioni in una enorme vampata rossa, ben visibile in tutta l’isola. I
canti e i balli continuavano per tutta la notte, coinvolgendo tutti.
Lì di fronte, a contrastare tanta
allegria, nel silenzio incantato della notte, il golfo di Napoli, si apriva
con le sue mille luci e, ben visibile, la collana di perle del lungomare. Il
promontorio della Campanella, proprio lì sotto, sembrava protendere il suo
braccio verso l’isola in festa, quasi a ghermirla, a volersi riappropriare
di questo lembo di terra a lei unita nella gioventù del mondo, che solo
Capri conserva. Ma il distacco è irreparabile. Non fu dovuto solo alla
grande deflagrazione dei fuochi d’artificio scaturiti dai vulcani sommersi a
festeggiare la buona riuscita dell’opera compiuta nel suo aspetto
definitivo, ma all’ anima dei luoghi, che quel pezzo di terra racchiudeva e
che rimaneva chiusa in esso: isolato per sempre dal resto del mondo avviato
verso la rovina.
Renata
Ricci Pisaturo |
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La Madonnina del Soccorso - 1960
Monte S. Michele e Monte Solaro - 1960
Villa Jovis - 1960
Villa Jovis - 1960
Le cisterne prima dello scavo - 1960
Anni '60
Monte Tiberio "Passeggiata archeologica"
Monte Tiberio - Ruderi Villa Jovis e chiesa di S.M. del
Soccorso
Orti a Sopramonte - Monte San Michele
Orti a Sopramonte
Salto di Tiberio
Monte Tiberio
Monte San Michele in primavera
Monte San Michele a maggio
Campagna Tiberiana
Punta della Campanella da Monte Tiberio
Tramonto a Monte Tiberio
Pian delle noci
Pian delle noci
Tipica "terrazza caprese"
Balconi in "stile caprese" |