I RE DI NAPOLI


RUGGIERO NORMANNO

Figlio del Gran Conte Ruggiero fu il primo Re Normanno della Sicilia, dove importò la canna da zucchero, il gelso e il baco da seta. Nacque nel 1094 morì nel 1154.

Il Ruggiero è ritenuta la più bella, la più espressiva, la meglio resa delle statue, come plastica e come concerto.
Il Ruggiero vi colpisce per la sua espressione grave e solenne, imperiosa e severa, che gli ha saputo infondere l'artista. Vi traspira, e ne emana dallo sguardo, imponente e baldanzoso, tutta l'anima di Ruggiero, tutto il suo carattere, fortemente temprato. Più che una statua, è una felice ricostruzione storica, genialissima, in cui l'artista ha saputo dar vita artistica ad un freddo documento storico, ad una semplice tradizione.
È vestito in ferro, con la maglia alle braccia ed alle gambe, con la corazza, che dà maggior ampiezza al suo largo petto ed alle sue spalle di uomo della forte razza del Nord. La testa è circondata dalla corona bizantina, i capelli, tagliati in giro, sulla fronte alta, vengono giù, spioventi, abbondanti sulle spalle; di sotto alla corona, le bende, le quali, insieme con la croce sul petto e con la stola, che gli scende fino sulla sommità delle gambe, sono i simboli del vicariato papale, di cui il Normanno era vestito. Dalle spalle, vien giù il manto reale, con un partito sobrio di pieghe, artisticamente disposte e tali da non isfigurare non solo, ma da riempire il vano della nicchia, in cui la statua è collocata. Nella mano sinistra, stringe lo scettro bizantino, mentre, nella destra, protesa innanzi audacemente, ha la lunga spada nuda, piantata in terra, di traverso. In quella mano, negli occhi, nella fierezza del volto, in quella gamba destra protesa innanzi, in tutta la figura, è un insieme di fiero, di audace, di dignitoso, che risponde perfettamente al carattere d'acciaio del re, ed a quei tempi, nei quali egli imperò ed in cui la forza bruta s'imponeva. Lo sguardo d'aquila del re, di cui qualche storico parla, è perfettamente reso.

 

FEDERICO II DI SVEVIA

Federico II, nipote di Federico I Barbarossa, succedette al Padre Enrico VII Re di Sicilia nel 1197; divenne imperatore di Germania nel 1212, intraprese la sesta crociata nel 1229, lottò contro le città lombarde ed i papi Gregorio IX ed Innocenzo 1V; morì scomunicato nel 1250.

Chi non l'ha sentita molto o, sentendola, non è riuscito a rappresentarla, è il Caggiano, professore di scultura nello Istituto di Belle arti di Napoli. Ha scolpito il Federico II il Re artista, lo Svevo audace, che, innamorato delle nostre ridenti regioni, vi trasportò la sede del suo impero e raccolse, intorno a sè, in Napoli, in Sicilia, od a Lucera, quanti erano famosi "cantatori, giostratori et schermitori", come dicono le cronache aride del tempo. Federico II lottò, tenacemente, col papato e qui, nelle nostre province, si accentrò la gran lotta fra guelfi e ghibellini, lotta, che doveva terminare, miseramente con la disfatta di Manfredi, a Benevento, e con la morte del biondo Corradino.
Questo Federico II non è riuscito, nel marmo del Caggiano, se non uno smascolinato, un uomo, rotto ai vizii, il gaudente, il sultano di Lucera, come veniva chiamato: in quell'occhio, non è luce d'ingegno, di forza, di volontà. È marmo e tale rimane, per quanta buona volontà possiate avere di rianimare l'inerte materia. Dinanzi a questa statua, la fantasia rimane vinta, e non riuscite ad evocare neppure una delle nobili azioni del Re artista. Egli, che tanta luce gittò intorno a sè, egli, tra i più simpatici Re di Napoli, nel brutto e sanguinoso periodo di repressioni violente e di conquiste efferate, diventa, per mano del Caggiano, una figura egizia. Quel marmo non ha vita e tutto vi è sforzato: il momento, che vuole rappresentare, come la plastica, la modellatura.
La posa è accademica, un pò troppo voluta, troppo cercata, troppo studiata: i lineamenti del volto sono placidi, per nulla rilevanti la gran tempesta, che doveva ruggire in quell'anima ed in quel cor di leone, e, mentre la testa è piatta, soverchiamente rifinita, lisciata, accarezzata, e le mani sembrano grossolane, inerti, come di persona stanca od annoiata, l'artista ha voluto strafare nelle gambe, la cui forza, nel calpestare una misera bolla di cartapecora è tanta, che non si spiega la piacidità femminile, la gran bontà, la gran calma del resto. Questa statua è un continuo disquilibrio nelle parti.

 

CARLO D'ANGIÒ

Carlo I, fratello di Luigi IX Re di Francia e conte d'Angiò, fece la conquista di Napoli contro il Re Manfredi, che vinse ed uccise alla battaglia di Benevento, nel 1266. La congiura di Giovanni da Procida gli fece perdere la Sicilia, dove, nei Vespri Siciliani, tutti i francesi furono trucidati. Nacque nel 1220; morì nel 1285.

Fermiamoci, invece, innanzi a questa bella statua d'un vecchio, di Tommaso Solari, uno de' pochi, che abbia compreso, come ho detto, la regalità. Il Solari conosce, per prova, per vecchia esperienza, la dignità e la maestà dell'arte: egli ha studiato questo suo Carlo D'Angiò e la testa è riuscita un miracolo di esattezza storica: l'animo perverso, feroce, maligno, truculento e sospettoso del Re vi si rivela tutto. La sua efferatezza, come la sua ferocia, il suo superbo disdegno per quanto lo circondava come la sua bacchettoneria, tutto a me par di scorgere, in quel volto, in quella testa, così fortemente riprodotta, nelle sue linee dure, angolose, accusanti astuzia e doppiezza, severità e crudeltà. L'occhio è torvo, il labbro inferiore quasi incollato al superiore: l'insieme tetro e pauroso, a meraviglia, vi danno Carlo D'Angiò.

 

ALFONSO D'ARAGONA

Alfonso V detto il Magnanimo, regnò a Napoli e in Sicilia. Nacque nel 1416; morì nel 1458.

Achille D'Orsi, lo scultore ribelle all'accademia, l'autore de' Parassiti, del Proximus tuus, del Venditore, del Carrettiere, dell'Usignolo, di tante belle opere originali, per potenza di sentimento, per sorprendente e meravigliosa verità, per potenza di realtà, lo scultore, che ha suscitato tanta tempesta di discussioni intorno al proprio nome, o, meglio, intorno alla propria arte, ha scolpito ora la figura di Alfonso il Magnanimo, l'Aragonese elegante, cui la generosità di Giovanna Il regalò il regno di Napoli, di quell'Alfonso, che fu uno de' principi più colti, più simpatici, più fastosi del suo tempo, il fortunato ed invidiato amante della bella Lucrezia d'Alagno.
Ebbene, quello che ho detto a proposito della regalità si può ripetere per questo Alfonso: il D'Orsi ha compreso poco la maestà del re, il suo fasto, il suo animo. Egli è rimasto di sotto alla sua riputazione, non solo di verista, ma di artista geniale. Egli, che, con le sue opere, ha tanto, e cosi audacemente, combattuto la vecchia scultura classica, qui vuole imitare i classici, e, come sempre avviene, non li imita nel bello, ma ne' loro difetti. Non notate, nella sua opera, un fare accurato, una esattezza scrupolosa di certe linee di certi piani: la figura è mal collocata nella nicchia, rimane troppo in fuori, più bassa delle altre e come afflosciata, stanca sotto l'armatura, che la copre. Le gambe le vengono meno sotto, la testa rimane come incollata, incassata troppo nelle spalle: anche la posa è rigida, forzata, non naturale, come di persona, che non possa, o non sappia, muoversi.
Le braccia, come le gambe, sono infelici nello attacco, e, quello che è più, la faccia, se non è affatto inespressiva, come vogliono alcuni, non vi soddifa pienamente.
In questa statua di Achille D'Orsi, o io m inganno, o non so vedere il sovrano, che, entrato in Napoli, erede presuntivo del trono, si schiera, apertamente, contro Luigi III d'Angiò, e lo riduce all'umiliazione di dovere rinunziare ad ogni idea di riscossa, lasciando libero il regno al rivale. Io non veggo, in questo re, nulla di quanto egli operò; io non veggo, in lui, né il sostenitore della lunga lotta con Renato d'Angiò, né il sostenitore de' suoi diritti contro papa Eugenio.

 

CARLO V

Figlio di Filippo IV (di Spagna) e di Maria Anna d'Austria, regnò dal 1665 al 1700.

Intorno al Carlo V del Gemito i pareri sono molti ed i giudizi contraddittori. Alcuni, gli apostoli della nuova arte, coi loro discepoli, con tutti i loro aderenti, la levano al cielo; altri, e son parecchi, ne dicono molto male. Naturalmente ognuno crede di aver ragione e nessuno si avvede che un po' di torto c'è da ambo le parti. Quelli esagerano i pregi, questi esagerano i difetti: gli uni trovano che il corpo sia scolpito, con grande potenza e che, sotto il ferro dell'armatura, sia un gran movimento di vita, gli altri - e non hanno torto - notano che il volto ha non so che espressione ircina, ed una inesplicabile sproporzione di parti. Francamente, io debbo notare che l'espressione è spinta, più in là del dovere. Non è quella espressione di un Carlo V, è qualcosa di non spontaneo, di poco naturale; è quella di essere volgare, che, trovatosi per un momento di esser re, ne vuole imitare la maestà, la grandezza, l'incidere, le azioni, e ne fa una caricatura. Troppa posa declamatoria, sempre ed ognora l'accademia, ma l'accademia del brutto, dell'inverosimile. L'espressione delle due braccia, quella, che ha la mano protesa innanzi e l'altra, che stringe lo scettro, in alto, come se tenesse una bandiera, sono fuori del naturale, sono fuori della verità, e questo, per uno scultore, più che verista, come il Gemito, è grave, gravissimo fallo. Io non voglio notare altre pecche, ma è impossibile non accorgersi che, in Carlo V sia un certo che di rachitico: la parte superiore del corpo s'abbandona troppo su un lato, le gambe, spogliate de' gambali e dei cosciali, diventano troppo esili per quella testa, che è assai grande. La sproporzione c'è: togliete la piastra liscia dal petto di Carlo, toglietegli l'armatura, che ne copre le braccia e le gambe, e ne risulterà non un uomo, ma un fanciullo... malato. Lì sotto, non c'è il corpo, o se c'è, è magrolino, sparutino, rachitico e tale, che non avrebbe potuto sopportare il peso di tanto ferro. Carlo V non c e in questo marmo, in cui non è nemmeno una perfetta esecuzione. La piastra liscia non doveva esser tale: in que' tempi, in cui l'oreficeria e l'opera di maschinatura erano tanto in fiore, era impossibile che essa non fosse stata cesellata, finamente, squisitamente.
La fattura della statua è infelice e di questo lo scultore non ha colpa, egli, che non ha potuto terminarla, afflitto, com'era, da grave malattia.

 

CARLO III DI BORBONE

Figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese, fu dapprima Re di Napoli e di Sicilia, dove seppe farsi amare e governare, con giustizia e con lustro; divenne Re di Spagna nel 1759; morì nel 1788.

Quello che manca nel Carlo V a me pare di vedere nel Carlo III di Raffaele Belliazzi, sebbene, sotto quel vestito, non s'indovini il re: di ciò non ha punto colpa l'artista. E noto subito che, in questo marmo, trattato amorosamente, carezzato, in modo da non sembrare verosimile, tenuto conto della foga e della fretta, con cui oggi più si accenna che si lavora, dai più, voi notate tutte quante le qualità del panno: l'artista è riuscito a rendervi, nel marmo, la stoffa damascata, la seta, il merletto, i pizzi. Tutto è reso fedelmente, esattamente e l'esecuzione è tale, che mostra la grande valentia del maestro, che, pur lavorando intorno ad un'opera, la quale, certo, non poteva essergli simpatica, vi spende tutte le sue cure, vi impegna tutto il suo zelo, e ne ottiene una buona opera d'arte.
E la figura di Carlo III, il Re bonario, arguto, piacevole e caustico, esce da questo marmo e, nel suo sorriso fine e canzonatorio, c'è tutto quanto lo spirito di lui. Più che un sovrano, c'è il perfetto gentiluomo lì dentro, il mecenate dell'arte, amato, idolatrato dal suo popolo.
Non brillò, non passò ai posteri come un guerriero: le sue vittorie di Velletri e di Bitonto non furono le note dominanti caratteristiche del suo regno: fu piacevole, socievole, allegro; protesse ed incoraggiò le arti; costruì il San Carlo, il Palazzo Reale di Caserta, quello di Capodimonte, i ponti della Valle, l'Albergo de' Poveri. I migliori, i più ammirati monumenti di Napoli li dobbiamo a lui, e, con accorgimento fine di artista, il Belliazzi, mentre lo ha fatto appoggiare alla tradizionale canna da pomo d'oro, gli ha quasi nascosto, tra le pieghe del soprabito, come si portava allora, lo spadino leggero.

 

GIOACCHINO MURAT

Di oscura famiglia, giunse alle prime dignità militari durante il consolato e l'impero di Napoleone È Cognato di questo (1800) venne fatto Re di Napoli nel 1808, ma si staccò dall'imperatore nel 1814, perché aspirava alla corona d'Italia.

Cacciato dal trono dopo i cento giorni volle rientrare nel regno, ma per una legge emanata da lui stesso fu preso e fucilato a Pizzo in Calabria. Nacque nel 1771, morì nel 1815.
Del povero Giambattista Amendola è la statua di Gioacchino Murat, e tutti sanno in quali tristi momenti della vita egli l'abbia modellata. Ogni colpo di stecca, dato a questa statua, fu un dolore del povero tisico. Egli comprendeva che la morte s'avvicinava e pure non voleva lasciare incompiuto questo lavoro. Aveva scelto un cattivo momento nella vita del Murat e quando, terminata la statua, se ne avvide, sentì che, se avesse voluta rifarla, non gli sarebbe bastato più quel soffio di salute, che gli era rimasto, e morì, quando forse non gli pareva modellata abbastanza, da poter essere terminata dagli artefici.
In Gioacchino Murat, la posa è poco naturale: un tantino declamatoria, teatrale, molto voluta. La linea del giusto è oltrepassata: il sentimento non si scorge o non s 'intravede più. Tutto vi è forzato, e par di sentirvi anche lo sforzo, che l'artista faceva a sé stesso, quando, affranto dalla malattia, invece di riposare, come gli consigliavano i medici, terminava la sua statua.
La posa è sforzata e se è ancora dubbio quale momento, nella vita di Gioacchino Murat, l'artista abbia voluto riprodurre, non è meno vero che de' pregi di esecuzione vi sieno.
Voi notate che il cappello non è de' tempi napoleonici, che una delle braccia rimane più corta dell'altra, ma, scartando l'idea che il Mtirat sia rappresentato nel momento, in cui giura la costituzione, e non è possibile, perché nel viso c'è intensità di commozione e di dolore, c'è fierezza e c'è spavalderia e iattanza, voi dovete convenire che lo scultore l'ha voluto rappresentare nel terribile momento, in cui gridava ai soldati, che dovevano fucilarlo: "Colpite al cuore, salvate il viso!".

 

VITTORIO EMANUELE

Prima Re di Sardegna, poi Re d'Italia.
Chiamato al trono per l'abdicazione di suo padre Carlo Alberto (1849), cercò di riordinare le finanze e l'esercito; prese parte alla guerra di Crimea (1855), che fu il primo passo verso l'indipendenza d'Italia. Nel 1859, fece la guerra d'Austria, che terminò con la pace di Zurigo, e per la quale la Lombardia fu unita al Piemonte. La Toscana e l'Emilia, insorte nel 1859, furono annesse nel 1860, mentre Nizza e Savoia erano cedute alla Francia. In seguito alla spedizione di Garibaldi in Sicilia (1860) occupò lo Stato della Chiesa, ad eccezione della provincia di Roma, e poi anche le province napolitane e la Sicilia.
Votata l'annessione di tutte queste province, Vittorio Emanuele assunse il titolo di Re d'Italia.
Nella guerra del 1866, alleato con la Prussia, ottenne la Venezia, e quando i Francesi abbandonarono Roma (1870), questa divenne la capitale del Regno.
Prode, leale ed intelligente, Vittorio Emanuele fu chiamato il "Re Galantuomo", e dopo la sua morte (9 gennaio 1878), che fu un lutto nazionale, si ebbe il meritato titolo di "Padre della Patria". Le sue ceneri riposano nel Pantheon, a Roma.

Mi dispiace, ora, di essere una stonatura nel gran coro degli elogi, prodigati a Francesco Jerace, dagli amici che hanno gridato osanna al suo Vittorio Emanuele. Pure, la statua è qui in Napoli, tutti possono vederla e, per quanto la si sia potuta gonfiare e levare alle stelle, tutti, anche dal vederne solo la riproduzione nel disegno, possono farsene un concetto, abbastanza esatto.
Questa statua non ha risposto all'aspettativa di ognuno.
Più se n'è detto bene, da principio, dai pochi, che l'avevano osservata, e più il pubblico, ora, s'è mostrato severo, se vogliamo, ma con ragione. Il Jerace, insofferente di giogo, non ha voluto rispettare la linea architettonica, che tutti gli altri, anche talora a discapito della loro opera, hanno sempre serbata. Il plinto di marmo non è omogeneo con quello di pietra, che sta di sotto. Vittorio Emanuele non sta sur un piano; ma sur un informe masso, gibboso ed irregolare. Nella mossa c'è, come nel Carlo V tanto voluto, che non sembra opera di un giovane, d'uno de' tanti novatori. (Apro una parentesi, per ricordare che qui i così detti novatori sono innumerevoli, precisamente come i capogruppi, i caposcuola, e, per questo appunto, le disillusioni sono parecchie ed il male, che ne viene all'arte, immenso).
Nel Vittorio Emanuele, meno la testa, che è abbastanza ben modellata, il resto è trascurato a segno, che il calzone, che copre la gamba in dentro, è tutto una cosa col masso brullo, del quale esso sembra un prolungamento.
Per tornare al Jerace ed al suo Vittorio Emanuele, è da notarsi ancora che c'è poca compostezza in tutte le parti, e che, anche come plastica, l'opera riesce difettosa, incompiuta e scadente, O perché circondare Vittorio di quel mantello, che 10 appesantisce, lo fa diventar goffo, 10 riduce ad un partito continuo di pieghe, di gonfiamenti, e di gibbosità? La figura sarebbe diventata più svelta, più slanciata, più fiera, più soldatescamente audace, e, certo, essa avrebbe meglio rappresentato il Re Galantuomo, l'unificatore d'Italia.
Così com'è, io non vi scorgo il Re che, audacemente, in Roma italiana, nella Roma, già papale, disse: "Vi siamo e vi resteremo". Questo punto della vita del gran Re, questo motto, che ne ritrae il carattere e l'energia, io non iscorgo affatto, in questa statua. E questo momento bisognava ritrarre, tanto più che chiudeva tutta un'area secolare di dolori e di sconfitte, di conquiste e di sangue, di lotte civili e di codardie.
Eppure, con tutto questo, e forse ad onta di tutto questo che, per debito di verità, io sono venuto notando, fors'anche con troppa minuzia, le otto statue, nel loro complesso, quale più quale meno, fanno onore all'arte ed, in ispecial modo, all'arte napoletana.


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