Sequenza N. 1
cemento - 1969
cm 55 x 35
Uno dei mezzi più efficaci per istituire, oggi, una concreta
opposizione alla generale tendenza verso un livellamento su denominatori
elementari degli strumenti espressivi (di qualsiasi grado questi siano:
dell'arte come del linguaggio comune), è indubbiamente il rovesciamento di
questi stessi strumenti, e quindi dei «valori» che sono loro proprii, in una
forma ironica: o, se si preferisce, ludica.
Diversamente dalla satira, che ha pur sempre come presupposto quei «valori»
proprio per contestarli in quanto tali, l'ironia tende ad eccepirsi totalmente
da essi, si pone su un piano diverso: in un certo senso svolge un ruolo analogo
a quello che fu tipico della «invenzione» nel periodo storico che va dal
manierismo alla metà del secolo scorso, senza aver tuttavia la
pretesa di dichiararsi frutto del «genio» dell'artista. Rivendica una sua
propria autonomia, una sua propria sfera di interessi: ma non per questo può
dirsi di carattere semplicemente edonistico nè comunque disimpegnata, chè anzi
proprio dimostrando che esistono altre sfere di interessi oltre quelle di
nozione comune mette in crisi il sistema che su di queste crede - o vuol far
credere - di basarsi.
Tra le non poche manifestazioni di questa attitudine ironica, una delle più
sensibili mi sembra quella data dalle opere più recenti di Rosa Panaro. A questo
la Panaro è giunta attraverso una trafila di esperienze abbastanza comuni,
partendo da intenzioni di tipo espressionistico che si realizzavano in una forma
immaginativa tutta estroversa, compiacendosi spesso di effetti caricati, al
limite del grottesco (ma di un grottesco da mondo delle fiabe, tanto eccitato
quanto sostanzialmente innocuo).
Era un punto di partenza quasi obbligato, legato com'era ad una specifica
situazione culturale sovraccarica di archetipi da cui occorreva liberarsi per
via di demitizzazione (un punto di partenza analogo fu, come si sa, quello di
altri giovani artisti napoletani, da Biasi a Del Pezzo). Il passo successivo
poteva essere quello della ricostituzione di altri miti, come ad esempio il mito
della memoria (è stato appunto il passo di Del Pezzo, con la sua ironia
metafisica); oppure poteva essere quello della demitizzazione di altri
archetipi, più attuali, legati ad una altra situazione di esistenza. La Panaro
ha scelto questa seconda via, ma in un modo che non si limita a produrre
l'effetto alla demitizzazione, bensì documenta il processo attraverso cui alla
demitizzazione si giunge.
Il senso primario delle «sequenze» realizzate in questi ultimi mesi dalla Panaro
è, ovviamente, quello di mostrare i tempi successivi attraverso cui lo operare
artistico, presa una immagine convenzionale al massimo, la riduce, ironicamente,
ad essenza informe ed indifferenziata. Il processo può tuttavia essere letto in
senso esattamente inverso, potendo infatti ugualmente mostrare come da una
essenza informe ed indifferenziata si giunga (e si giunga, direi,
obbligatoriamente) ad una immagine convenzionale al massimo.
Ora, proprio questa direzione incrociata porta l'ironia al più alto grado, e la
colora di vaga inquietudine, se non proprio di pessimismo. Quel che risulta
messo in discussione non e più il destino dell'immagine in quanto tale, bensì il
destino stesso del processo, ossia dell'operare artistico: con tutte le
conseguenze che è facile dedurne.
Tenuta, come ben si vede nelle opere qui esposte, su un sottilissimo equilibrio
dialettico, la questione del rapporto tra l'operare dell'artista e il dato della
immagine; propone l'ipotesi di uno scacco reciproco: non è una ipotesi
confortante, certo, ma se non se ne può non tener conto, pena il rifiuto a
priori di cercarne una soluzione possibile.
Oreste Ferrari
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