Questi frutti giganteschi di Rosa Panaro, così verosimili
eppure così clamorosamente e dichiaratamente artefatti, apologia della morte
dell'oggetto attraverso l'imbalsamazione dell'oggetto stesso, nonostante (forse)
la volontà stessa dell'artista hanno una carica di. vitalità prorompente, direi
quasi rabelaisiana. L'oggetto è imbalsamato, come per essere collocato in una
campana di vetro, ma non sterilizzato: questo il punto. La fissità della morte è
assente da esso, così umanamente ricco di fremiti nella sua materia, la
cartapesta, popolare e rustica e insieme raffinatissima, che Rosa Panaro ha
riesumato da ancestrali ricordi di Santi di chiese contadine, goffamente e
pateticamente e allegramente smaglianti tra le volute dell'incenso.
La Panaro usa la sua materia strettamente per quel che è e per quel che vale,
senza ricoprirla (come nelle cartapeste popolari) di pesanti smalti colorati ma
lasciandola grezza; strizzando l'occhio cioè al gusto materico cui ci ha ormai
abituato l'arte contemporanea. Il suo recupero dell'arte popolare è quindi
puramente allusivo, direi che è un modo per riconoscere le proprie radici
napoletane e barocche e insieme per allontanarsene, accettandole in quanto
suggestione ma purificandole con violenza, esorcizzandole. La nuda carta
pressata e plasmata che nell'arte popolare serviva in pratica da supporto al
colore, qui è messa in piena luce, ostentata; rifiutando di abbellirla la Panaro
ne scopre l'inedita bellezza che pure (appunto per allusione) è implicitamente
carica di tutte le bellurie che la fantasia popolare e artigianale aveva
escogitato in passato. Ed è proprio tanto peso di ricordi, di vasti rimandi
culturali, a vivificare e levitare questi macroscopici relitti mummificati di
una prodigiosa, cananitica estate.
La Panaro ha raggiunto, con queste opere recenti, dei risultati davvero
persuasivi, bloccati in un linguaggio tanto ricco di riferimenti quanto
essenziale e «povero», totalmente maturo.
CESARE VIVALDI
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