EROI SENZA TEMPO
È bene dirlo subito: "gli eroi di tutti i
tempi" di cui parla Rosa Panaro non appartengono alla storia. Del resto, basta
considerare in coda a quale singolarissimo, eterogeneo elenco si ritrovino i
rivoluzionari del ‘99 per comprendere come non siano propriamente le ordinate
pagine della storia quelle che la fantasia dell’artista è andata sfogliando. Il
tempo di Gennaro Serra di Cassa no e di Eleonora Pimentel Fonseca è, per Rosa,
lo stesso dove abitano "Uroboros, salamandre, melograni, spaghetti, pizze,
Lilith-Partenope". È quello di una quotidianità esistenziale sconvolta
dall'irruzione del mito, di un mondo che, non conoscendo le mediazioni e i risarcimenti della storia, custodisce il peso delle angosce e la leggerezza
delle gioie individuali, di un mondo il cui orizzonte coincide con la percezione
del nostro presente, sospeso nel chiarore tra l’oscurità dell’origine e quella
della fine. La scultura di Rosa affonda lo sguardo in quest’oscurità e riesce a
leggervi i segni di un’antica promessa di felicità, gli stessi segni che hanno
visto le "donne della rivoluzione", discinte e insanguinate o sigillate
nell’immobilità di un bianco silenzio come erme marmoree. Le eroine di Rosa non
sono fantasmi venuti dal passato. La loro forza sta tutta nella capacità di
occupare il presente, di concentrarlo nella durata della loro apparizione. In questo tempo dell’arte, vissuto
- "mentre esso dura" -
come un eterno presente, anche una delusa promessa di felicità può
trasformarsi in un desiderio appagato e rinnovato: una gioia intensa e
stordita, una delirante felicità dell’immaginazione e dei sensi inseguita nei
colori esultanti dei volti e delle vesti, nell’incurvata tenerezza di un gesto
o nell’ampio giro del modellato e nei suoi improvvisi cedimenti, fra i
rappezzi e le lacerazioni della cartapesta, che mette a nudo la fragile
precarietà della materia che regge l’immagine. Il tempo dell’arte, ignorando
la dimensione della storia, realizza quella che per Nietzsche, nella seconda
delle Considerazioni inattuali, è la condizione stessa della felicità: "la
capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico In una prospettiva non molto diversa da
quella che si sta qui proponendo Luciano Caruso fin dalla metà degli anni
Settanta s’era accostato alla scultura di Rosa, che, come ha di recente
ricordato lo stesso Caruso, stava allora mettendo in atto "un tentativo di
recupero della totalità attraverso il mito"2. Ma l’avvio di questo
viaggio nelle regioni del mito era avvenuto già all’inizio degli anni Sessanta,
a contatto con la lezione plastica di Venditti, tutta concentrata, con la sua
irritata ed aspra matericità, in una mitologia figurativa rinata dalle ceneri
del purismo concretista. Da qui la scultura di Rosa si aprì al piacere del
contatto con il mondo degli oggetti, con le pietre e le conchiglie inserite
nell’opera come presenza di cose reali mai interamente riassorbita nell’amalgama
del cemento. In alcuni lavori realizzati tra il ‘63 e il ‘64 è evidente il
passaggio da una figurazione di risentiti impasti materici - qual
è quella, ad esempio, che ancora sorregge l’arcaica monumentalità del Cristo del
‘60 - ad una sorta di assemblaggio che mima situazioni di
gioiosa e grottesca evidenza figurativa (come accade nel Combattimento del ‘63).
In seguito, utilizzando in modo originale la tecnica della cartapesta e
rivisitando con libertà e talvolta con accenti provocatoriamente grotteschi i
luoghi più noti dell’immaginario partenopeo, Rosa dette vita ad una sua
personale e festosa versione della Pop Art. In una serie di frutti giganteschi,
esposti in una mostra al Centro Europa, nel ‘73, il sentimento di ingenua ammirazione per certe grandi e colorate figure di
santi in processione si animava di una vitalità quasi rabelaisiana3.
Ma già l’anno successivo il repertorio si arricchì di altre presenze, ed accanto
alle spighe di grano e ai melograni comparvero, in una personale alla galleria
Carolina di Portici, carcasse di animali marini ed enormi lische di pesci, il
cui tratto mostruoso non aveva nulla di veramente pauroso poiché vi si
riconosceva l’enfasi di un mondo leggendario, di una quotidianità tradotta nelle
immagini incredibilmente dilatate delle favole popolari4. Questa fase
della ricerca culmina con altre due mostre dello stesso anno, intitolate
significativamente Mitilomania e La ballata delle cozze, e sarà ancora un modo
fantasioso di portare l’arte sulla scena della vita napoletana senza assumere il
pretenzioso tono tra politico e sociologico allora comune a parecchi artisti
ideologicamente impegnati. Dopo la partecipazione all’attività dei gruppi
femministi (tra l’altro Rosa è presente col Gruppo Donne/lmmagine/Creatività alla Biennale veneziana del ‘785) continua la rivisitazione del mito come fonte
d’ispirazione per una scultura ritrovata nella specificità dei suoi modi
espressivi6. Le opere presentate nel marzo dell’82 in una importante
personale nella galleria Colonna costituivano un ciclo unitario sul tema delle
Metamorfosi di Lilith. Il riferimento al personaggio biblico era così spiegato
dall’artista nell’intervista pubblicata in catalogo: "Lilith è la donna che
vuole essere se stessa, pur essendo costretta a nascondersi dietro molte facce"7.
Le metamorfosi, dunque, non alludono ad una legge universale di eterne
trasmutazioni, ma traducono in immagini l’idea della violenza esercitata sulla
donna e del suo tentativo di difendersi, di salvare la propria identità,
sottraendola alla vista ed al possesso degli altri. Ma proprio perché le
metamorfosi di Lilith nascono da un processo forzato di occultamento, ne deriva
una drammatica ed angosciosa condizione di incertezza, con la contraddizione tra
una soggettività sociale estraniata, che si manifesta nel rapporto con gli
altri, e una soggettività più profonda, ma sfuggente, perché vissuta, appunto,
solo interiormente. Non a caso Lilith, nell’opera che chiude il ciclo, lascia
cadere la sua ultima maschera e le ali come spoglie di un passato di cui vuole
liberarsi: il momento dell’interpretazione del mito è il momento della sua
morte, del suo dissolversi di fronte alla realtà. Nelle Metamorfosi di Lilith
l’uso della cartapesta non è più rivolto a sottolineare il contrasto tra il
gigantismo degli oggetti rappresentati e la loro inconsistenza, la loro povertà
materiale, simile all’ingannevole illusorietà di certe immagini pubblicitarie.
La particolare duttilità, la leggerezza della cartapesta consentono di creare
forme frastagliate, aperte e sospese nell’aria, con effetti talvolta d’una
grandiosità scenografica (anche nelle opere di piccolo formato) che fa ricordare
la scultura barocca8.
Che la scultura avesse trovato il proprio spazio d’elezione nell’intervallo tra il mito e la realtà quotidiana lo confermarono
le due straordinarie Erme esposte nel dicembre dell’88 in una rassegna nel
Palazzo Reale di Napoli9 e le opere presentate, negli stessi giorni,
in una mostra personale, dove tra le numerose piccole sculture in terracotta
dominava la solenne composizione cilindrica di una Sacra Famiglia, che proponeva
una singolare contaminazione tra il consueto schema iconografico della Madonna
col Bambino e un contesto compositivo derivato dai rilievi della Colonna Traiana.
In realtà la derivazione dal famoso monumento romano implicava anche una
consonanza di tono espressivo, di partecipe interesse per la folla dei
personaggi che, nel modello romano come nell’opera di Rosa, sembravano respirare piuttosto l’aria
incantata del mito che della grande storia Dopo gli anni Ottanta l’artista ha spesso
utilizzato in un unico contesto opere realizzate in momenti diversi,
sottolineando così, nella composizione plastica, quel carattere di messinscena
che era stato già notato da Menna11. Un esempio particolarmente
suggestivo di questo procedimento fu offerto da una mostra del ‘97: l’artista
immagina che una fila di salamandre, arrivata misteriosamente fino al vico S.Maria della Neve, salga dal pavimento della galleria sul muro e si diriga verso
il fondo della sala. Al lato opposto una grande farfalla sbuca dalla penombra di
un passaggio nella parete. La farfalla è un insetto a metamorfosi completa, la
cui identità si realizza nel mutamento. La salamandra, un anfibio capace secondo
la leggenda di passare attraverso il fuoco, è invece un esempio di resistenza al
cambiamento. Al centro della mostra, tra i segni della metamorfosi e della
persistenza, c’è Lilith, la faccia oscura della femminilità, la madre cattiva,
entrata nel percorso dell’artista all’inizio degli anni Ottanta come immagine
positiva della ricerca dell’identità, che ha assunto ora l’aspetto di una sirena
ed è divenuta Partenope, la bellissima fanciulla, metà pesce e metà donna,
sepolta nel golfo di Napoli12.
C’è una straordinaria continuità, anche tematica, nella ricerca plastica di
Rosa Panaro, un avorio dell’immaginazione che accompagna lo svolgersi delle vicende
quotidiane e diventa un racconto ininterrotto in cui la percezione della realtà
si confonde con le storie del mito. Tutto sembra accadere come su una grande
scena, in una catena ininterrotta e spettacolare di trasformazioni: nell’Albero
della Libertà Lilith-Partenope è diventata Lilith-Partenope Eleonora: donna del
mito e della rivoluzione, eroina, erinni e popolana urlante, donna-madre,
donna-albero, donna-vesuvio, e ancora maschera ed erma bifronte che riunisce ciò
che è stato separato. Un segno particolarmente significativo di questa
continuità sta nel fatto che Rosa, per questa mostra, ha tra l’altro ripreso a
lavorare alla Sacra famiglia dell’88. Il grande nastro della Colonna Traiana,
diventata la Colonna napoletana, ha accolto, contaminandoli, il mondo della
mitologia classica e quello delle fiabe, l’iconografia sacra e quella profana, il
racconto della strage degli innocenti e la ballata degli impiccati di Villon.
Con un linguaggio di strettissima formulazione figurativa, ma portato oramai a
un grado tale di libertà espressiva da poter associare i più scoperti passaggi
metaforici (un seno rosso bucato come la bocca d’un vulcano, il simbolismo implicito nel verde delle linfe vegetali o nel rosso del fuoco
e del sangue) ad un modellato straordinariamente mutevole e spregiudicato, tra
colte memorie plastiche e arrischiate spezzature stilistiche, spinte fino alla
provocazione del kitsch, Rosa parla di prodigi e di metamorfosi. Ma non sono
fatti accaduti in un tempo lontano, altrove. Avvengono qui, sotto in nostri
occhi, e appartengono al mondo della quotidianità fermata nell’eterno presente
che è il tempo del mito e dell’arte.
Vitaliano Corbi
Tratto da: Cd'A - Altrastampa Edizioni, 1999
NOTE
1. F. W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno dello studio
della storia per la vita, in Opere, a cura di G. Colli e M. Cortinari, 111/1,
Adelfi, Milano, 1972, p. 263.
2. L. Caruso, Rosa Panaro, in Artisti a Napoli, Alfredo Guida
Editore, Napoli, 1997, p. 30.
3. Cfr. C. Vivaldi, Presentazione al catalogo della
mostra Rosa Panaro al Centro Arte Europa, Napoli, 30 maggio-13 giugno 1973.
4. Cfr. L. Caruso, Rosa Rosae, Napoli, 1974. L’opuscolo
comprendeva, insieme con il testo di Caruso e una testimonianza di Enrico Bugli,
le foto di Fabio Donato ed alcuni interventi grafici firmati da Panaro e da Caruso. Le altre due mostre di cui si parla furono tenute
nella galleria Ganzerli.
5. Cfr. Gruppo Femminista ‘Immagine’ Varese. Gruppo
Donne/Immagine/Creatività Napoli, Magazzini del Sale alle Zattere, Venezia, 15
luglio—15 agosto, Edizioni La Biennale di Venezia, Venezia, 1978.
6. Cfr. il catalogo della mostra Rosa Panaro. Metamorfosi di
Lilith, con testi di Enrico Crispolti, Luigi Paolo Finizio, Filiberto Menna e
un’intervista all’artista di Laura Capobianco e Aurora Spinosa, galleria
Colonna, Napoli, 1982.
7. L. Capobianco, A. Spinosa, Parlando con Rosa, ivi.
8. Cfr. V. Corbi, Le facce di Lilith attraverso le sculture
di Rosa Panaro, "Paese Sera", 14 marzo 1982.
9. Cfr. Napoliscultura. Palazzo Reale, Napoli, dicembre
1988. Catalogo con testi di V. Corbi, G. Grassi e A. lzzo.
10. Cfr. V. Corbi, All’ombra della Colonna il mito della
Grande Madre, "Paese Sera", 5 gennaio 1989.
11. "Ciò che resta costante nei procedimenti di Panaro è
il gusto della messa in scena, la capacità di trasformare le immagini in figure
animate, in attori di un evento che è insieme plastico e teatrale" (F. Menna, La
messa in scena di Rosa, catalogo della mostra Rosa Panaro. Metamorfosi di Lilith,
cit.).
12. Cfr. V. Corbi, Catalogo della mostra personale Fra
farfalle e salamandre, nella galleria MA., Napoli, 13-30 marzo 1996.
flash per una rosa neapolitana
C’è una cartapesta che si presta magnificamente ad una manipolazione sensuale, c’è un’adesione fra pelle e colla, carta, acqua, ritagli di giornali e foto sforbiciate e allusive, poi c’è una maschera che si costituisce come soggetto principale, magari grottesco, reso didascalico dalle indicazioni linguistiche che ci guidano ma solo fino a qualche punto marginale e poi, ovviamente, c’è Rosa Panaro con la sua opulenza sazia, matronica e schiattosa che ammicca fra fogli, cartoon, collages e belle statuine, impicciandosi e confondendosi, magari per tentare di dare chiarezza a lei stessa - confusionaria e casinara - e quindi mimando, davanti allo spettatore, l’entrata e l’uscita di scena fino a determinare dell’opera sua, la sua funzione, il fine, la destinazione. Facile e scontato l’accostamento evocabile in questa bailamme di acqua, carta, puzza di colla e altri materiali appiccicosi: il rapporto umido ed erotico, presepiale di una volta, i gigli di Noia, i carri piedigrotteschi, le statue dei santi di carta sostenuti da mazze di scopa sotto cupole di vetro. Oggi Rosa Panaro vuole ricordarci la patriota impiccata dai Borboni. Un pretesto, naturalmente, per tornare alle sue Lilith chiosate, in altro tempo, da Crispolti o da Menna e dunque, nello specifico della Pimentel, eccoci nuovamente alla doppia faccia di Giano, la pelle del serpe, l’essere che esce dal guscio del sé, dalla maschera quotidiana per diventare Altro da sé, che poi è l’aspirazione di Rosa e di tanti di noi circondati dal banale delle mezzecalzette e smaniosi di riscattarci il sangue e la vita attraversando gli anni con voli fortunosi che sarebbe meglio se fossero anche umanamente fortunati. Naturalmente la Pimentel Fonseca èsolo il pretesto, si diceva, per queste ennesime Lilith che rincorrono storicamente (ma come dubitarne?) il desiderio e la sensualità di Rosa, questo contatto carnaceo-cartaceo che le mani della scultrice (o modellatrice?) lorde e umide si autorappresentano con l’ardore della femmina che insaziabile gode la carnalità di un rito fino alla maternità del parto con il cordone ombelicale della colla che diventa il seme manipolatore del simbolo che sorgerà dal nulla, come creatura della mente a cui, destinando la sorte ad alcuni di appartenere all’arte - qualunque essa sia - si è obbligati a dare forma, una qualsiasi purché si legga e si consumi. "Vieni, vieni a vedere questa femmina gigante che ancora non è finita. Ci ho messo dentro il fuoco, il mare, la città", mi ha detto al telefono. E parlandomi di lei, della femmina di carta, Rosa non si accorgeva che parlava di sé, della sua passione, della sua carnalità, del suo darsi nell’altro sia pure fugacemente e farfallescamente e anche ingenuamente con la passionalità della bambine. Entro questa cifra Rosa è una madre-terra, ma anche amica-terra e chissà quanto altro, inseguendo sogni, metafore che si accendono come luci sulla sua voce sazia, un po’ ubriaca, quando il rapporto con la carta-colla diventa totale come pasta-frolla fra le sua labbra e con i gesti delle mani che tanto somigliano a quelle di mia madre quando a Pasqua ci friggeva i carciofi e i finocchi dorati e poi modellava i crocchè con le sue mani piccole e piene come le mie, dando forma all’impasto con la sensualità dell’infinito amore come non tutte le madri sanno dare. Non a caso Rosa modella le sue paste fila nti come se fossero da mangiare e modellando ella diventa cuciniera, baccante e strega per amore, discinta e prensile nella fusione totale con il magma da sagoma re, ridente come una bambina che gioca, magari un tantino dissociata con tutto il suo corpo e non solo con le mani, ponendo in essere il rapporto presepiale e sacro come solo a Napoli è possibile fare in quell’attraversamento emblematico della nostra Spaccanapoli che, specialmente per gli artisti, è la ferita sanguigna e verace di un viaggio dello spirito.
Corrado Piancastelli
Tratto da: Cd'A - Altrastampa Edizioni, 1999
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