Rosa Panaro

E, come donna il più tipico personaggio napoletano e meridionale, Come artista è la reincarnazione vivente del mito mediterraneo-flegreo, contemporaneamente avernale e solare, dell’energia creativa e del mito greco di Ecuba, donna reale che, avendo generato creature vere, è spinta a farne rivivere l’«immagine» nella memoria, rinunciando al loro possesso fisico. Come Orfeo, insomma, che vinse le forze infernali ma perse Euridice, per l’intensità di uno «sguardo», sulla soglia della natura e della luce, alla quale tuttavia consegnò la perennità della presenza dell’immagine e della figura.
E, se a scoprire l’origine dell’opera bisogna andare anche lontano dalla personalità e dalla vita dell’artista, come sostengono Heidegger e Magritte, certamente il mito, l’etnografia e l’antropologia, nell'accezione indicata, sono elementi essenziali della produzione artistica li Rosa Panaro.
Spesso assimilate alle «immagini» sontuose e barocche dell'arte popolare napoletana e ad una ricerca analogicamente avvicinabile alla «popart» americana, le opere di Rosa Panaro vanno inserite invece nell’area più ampia e variegata della scultura oggettiva, come veniva già segnalato da Ruju per il quale: «Rosa Panaro ci fa registrare il mutamento delle sue precedenti ricerche: una scultura che, partendo da premesse espressionistiche con un interesse materico evidenziantesi dalla particolare iconologia per cui venivano ad essere motivate, perviene dal 1967 ad una scultura più oggettiva nel senso che la realtà esterna viene assunta con un intento di analisi più evidente dove la fantasia, che subentrava nelle opere precedenti cede all’indagine sulle strutture significanti delle immagini odierne, proprio esaminate e riportate per quella iterazione prospettica raggelata dal valore ironico che viene ad assumere quale evidenziazione di una realtà che è vista quasi nel suo processo conformativo ‘donde’ il senso primario delle sequenze realizzate è quello di mostrare i tempi successivi attraverso cui l’operare artistico, presa un immagine convenzionale al massimo, la riduce ironicamente ad essenza informe ed indifferenziata. Il processo può tuttavia essere letto in senso esattamente inverso, potendo infatti ugualmente mostrare come da un essenza informe ed indifferenziata si giunga ad un’immagine convenzionale al massimo»; per concludere, dopo questa citazione di Oreste Ferrari, che Rosa Panaro tende a dissacrare «le immagini di consumo da cui prende spunto per motivare la sua dialettica attraverso il rigorismo formale e nuovi materiali (plastica colorata)» che «conferiscono un suggestivo valore oggettivo alle sequenze iconografiche accentuando ancor più l’interesse di intervento sui processo conformativo delle immagini».
Nel ciclo di Uroboros, Eva, Lilith la cartapesta è il suo medium tipico per la scultura. Medium eterodosso, povero, duttile e immediato, subito rispondente a pratiche dell’immaginario collettivo, ancestrale, popolare etnografico, dice Enrico Crispolti, per il quale l’«imagerie» tipica della cartapesta di Rosa è stata dallo scorcio degli anni ‘60, ricca di temi popolari antropologicamente primari, legati al ciclo del quotidiano delle stagioni (la pizza, i frutti), in un’ottica di prensibilità immediata e ipertrofica». Dopo aver sottolineato l’impegno polemico femminista, praticato nell’ambito del «Gruppo donne, immagine, creatività», il critico ricorda le azioni personali con le quali Rosa ha originalmente percorso Vi prospettiva di un lavoro estetico direttamente praticato nello spazio sociale: la semina di melograni al Maschio Angioino alla vendita di pomodori alla Riviera di Chiaia.
D’altra parte il mitico di Rosa sottintende una metamorfosi coatta del quotidiano, di riferimento emblematico ad una dimensione della donna, propria della nostra realtà quotidiana. Lilith è Rosa, è la donna, oggi. Quotidiano e mitico in un unico trascorrere di facce nella realtà esistenziale, e non contrapposte prospettive: un ficcarsi profondo nella conflittualità dell’esistenza e della dimensione espropriata d’autonomia in un’ottica, appunto, tutta femminile. E il mitico si motiva allora in emblematica esistenziale. Ora il mitico, biblico, al di là dei quotidiano, ma appunto non rinuncia a questo, si riconnette alle motivazioni tematico ironiche, e persino linguistiche, delle prime esperienze di scultura: quei suoi cementi di animali e mostri grotteschi vagamente mitologici, fra l’immemoriale arcaico e l’incubo infantile, densamente suggestivi nella loro aggressività magica. Il cemento manipolato come materia immediatamente duttile, quanto poi la cartapesta. Ed era un suo modo personale di rispondere alle sollecitazioni del grottesco praticato dal suo maestro Venditti, ma con un'attenzione al nodo animistico immaginativamente esplorato da «Cobra», a Napoli appena giunto attraverso la mediazione soprattutto di Baj, e recepite dai giovani che si esprimevano, come poetica, in «Documento Sud».
Esistono dunque nessi sottili nel lavoro di Rosa. Anziché brusche cesure, conferme, approfondimenti in nuovi termini di proposizione.

Per Finizio, «il suo lavoro, le sue sculture, seguono un fare per immagini,, un manipolare di segni e materie su cui si imprimono figure o da cui vengono suscitate col generarsi di forme. Nel conguaglio plastico, il sedimento sui traliccio della carta fa dell’immagine una figura. La realtà dell’immagine fa corpo con la materia, si concretizza nel territorio dei simboli ma è pure realtà quotidiana, oggettualità fisica di segni e figure. Pesci, cozze, pizze, pomodori sono insieme realtà e ingredienti simbolici che prendono corpo nella manipolazione di un fare per immagini. La manipolazione non distingue il fare sulla materia dal generarsi delle forme, così come la tecnica non opera separata dall’intento che la induce alla forma. E per la cartapesta la tecnica è essenzialmente agire con le mani; pungolo di un fare il cui risultato formale è nel desiderio delle mani. Ha ragione Focillon di dire che noi tutti siamo nel nostro intimo specie di artisti senza mani, ma il carattere proprio dell’artista è d’avere mani, e in lui la forma è sempre alle prese con esse. Il fare scultura della Panaro assimila immaginazione e manualità, in esso gli atti si mostrano rivolti alla suscitazione più che al fissaggio plastico delle forme».
Poi Menna, citando Neumann, aggiunge che: «ora a sinistra c e una sene negativa di simboli, la Madre di morte, la Grande Prostituta, La Strega, il Drago, Moloch; a destra c e una serie positiva opposta in cui troviamo la madre buona che, come Sophia o la Vergine, partorisce e nutre, conduce alla rinascita e alla salvazione. Là Lilith, qui Maria. Là il rospo qui la dea; là una palude cruenta e divoratrice, qui l’Eterno Femminino». Così è descritto nella Grande Madre questo dualismo remotissimo, questo. archetipo collettivo, che ogni volta rinasce nella storia duale come dualismo, scissura, tra la madre buona e la madre. cattiva. Mito e processi primari si incontrano ancora una volta e ci tentano con una ipotesi suggestiva, ricorrente come un leit-motiv, l’ipotesi della corrispondenza fra filogenesi e ontogenesi. Il mito, i processi primari, quindi l’arte. Una consecutività plausibile, se pensiamo che l’arte può essere considerata, da un certo punto di vista, proprio come un ritorno del rimosso o, meglio, di ciò che sembra superato e invece continua a vivere dentro di noi. Non vogliamo attribuire all’arte un ruolo privilegiato, ma darle ciò che le appartiene: la capacità, cioè, di compiere uno scandaglio verticale nelle strutture psichiche profonde dell’individuo e di attraversare a ritroso la storia individuale e collettiva, quasi d’un sol colpo. Per poi ritornare in mezzo a noi con i suoi oggetti bizzarri. Il mito, l’archetipo di Lilith, la Madre cattiva, ha accesso all’immaginazione di Rosa Panaro che ha visto in esso la possibilità di guardare «il volto sinistro dell’arte», la parte rimossa o superata dal predominio patrilineare della nostra cultura millenaria. In questo, Rosa Panaro si iscrive in quel processo di revisione culturale, o meglio, di rivoluzione culturale che le donne hanno compiuto e portano avanti lavorando in ambiti disciplinari diversi, tenuti insieme però da una ideologia fondamentale che potremmo definire come l’ideologia del capovolgimento.
Lilith è quindi il personaggio dominante nell’opera recente di Rosa Panaro, una figura mitica che si trasforma in un luogo di conversazione di pensieri, emozioni, energie pulsionali e anche di una ideologia. Ma ciò che a noi interessa, è che tutto questo diventa pensiero visivo e immaginazione plastica, traducendosi in figure e in una messa in scena che coinvolgono l’osservatore sul piano concreto del linguaggio».
Qui, nelle Erme e nelle Bacheche per terrecotte, Rosa Panaro riprende il discorso di un’esperienza che, vissuta in modo ineffabilmente e irrepetibilmente personale, ripropone il mito di Ecuba in termini simbolici e artistici, che sono poi vettori di rapporti e interferenze universali, capaci di produrre il presentimento dell’infinito o l’esperienza dell’unità.
E fa ciò ancora volta con un procedere metaforico, che rinvia i «sensi» veri dell’opera oltre i materiali: l’Erma è una colonna ed anche piramidalità rovesciata su cui la testa rimanda a strade diverse e percorribili in molteplici direzioni, mai definibili se non agli incroci di sogni, di cifre, di miti e di riti religiosi. Allude anche al dio psicopompo, all’immagine dell’arte evocata, per esempio, da Bòcklin, De Chirico, Vettor Pisani. Qui, dunque, il rapporto madre-immagine del figlio continuamente si capovolge e ribalta il reale nell’illusione.
Allo stesso modo la tecnica a «scendimento» si ribalta in quella della tornitura, dell’avvolgimento, della manipolazione dei materiali primari, della mano che compone e crea attraverso l’acqua, la  terra, l’aria e il fuoco: dalla carta alla creta.
Nelle opere in cartapesta, infatti, Rosa «scende» nella materia alla quale ha dato un’anima di ferro, un’insieme di strutture che sono il disegno, l’idea di ciò che dovrà apparire attraverso sia il mettere che il levare, coprendo l’«anima» e svelando il corpo, scendendo nell’essenza della materia e della sostanza.
Ciò che si consuma rinasce anche in «forme» diverse, non per un principio evoluzionistico ma per un’energia creativa.
In ascendimento invece si può manipolare l’inerte e farlo rivivere attraverso l’accensione fantastica.

Alla fine di questo percorso, non interessa tanto dimostrare la validità della nostra tesi, confermata dalle teorie di illustri critici e studiosi, quanto segnalare che i nostri artisti, da tempo, sono in sintonia con la cultura di quanti si servirono di «forme» per significare modalità di esperienze e di linguaggio, differenze concettuali e stilistiche, operative ed esecutive.

Nota bibliografica essenziale
Opere consultate, cataloghi, riviste
Enciclopedia Universale dell’arte,
Fondazione Cini, diretta da G.C. Argan. Per le voci:
dal Cubismo ad oggi, Voli. IV e V. Volume di aggiornamento: Informale, Nuovo Realismo, Pop Art, Neodada, Arte di comportamento, Arte Minimale Concettualismo.
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