Forme nel tempo
otto scultori dal 1950 ad oggi

BARISANI
COTUGNO
DI FIORE
OSTE
PANARO
PEREZ
PIROZZI
VENDITTI

L’attuale rassegna, volutamente limitata a particolarissime presenze, più che uno strumento per la (ri) conoscenza di uomini e di opere, vuole essere il tramite tra una realtà - quale quella che attualmente pratichiamo - ed una storia non più recente, della quale portiamo i segni di partecipazione, diretta e indiretta che possa essere stata.
Senza affrontare qui i problemi dell’uso indeterminato e metaforico (quindi totalizzante) che può farsi del concetto di «scultura», mi piace rilevare che vedo ancora in questo termine la via di risoluzione di molti di quei problemi da cui è nato, e nella spontaneità del discorso tra noi e nella dialettica intersoggettiva che ci ha portato attraverso la tradizione (traduzione) del termine, alla condizione estetico-fenomenologica di un riconoscimento che ancora oggi, di esso come concetto può farsi.
Ci si trova così anche di fronte al problema di alimentare delle dissidenze e perdere i vantaggi della «interpretazione», per colpire la carenza delle stesse categorie interpretative combattere processi resi riduttivi da vaghe generalizzazioni (vedi per questo caso l’esclusione di alcuni «ripetitori» di Perez e/o di altri vecchi e nuovi ripetitori di esperienze culturalmente disutili).
Infatti nella scelta delle presenze di cui ho sentito la necessità di farmi carico, anche a completamento di scelte precedenti (La SCUOLA Dl NAPOLI E IMMAGINI DA QUARANTA ARCHITETTI NAPOLETANI) non ho mai sottovalutato l’importanza che l’uso dei termini (ad esempio quello di «scultura ) può avere a fronte di conflittualità ben definite, come del senso «deformato» che volutamente oggi facciamo di essi.
Certo rispetto alle tendenze di gestione delle attuali «estetiche» una considerazione in termini di «interpretazione retrospettiva» può ridurre il «rapporto» analitico a luogo di ripetizione; ma abbiamo voluto insistere sul «concetto» come avviamento ad un discorso analitico inteso come costruzione capace di modificare, hinc et nunc,, il rapporto tra il termine «scultura» ed il suo non farsi.
Ecco perché, la tendenziosa riduzione di partecipazione alla mostra che abbiamo operato si fonda soprattutto sulla necessità di praticare, ancora una volta, esperienze in grado di avviare i processi di trasformazione socio-culturali istituzionalizzati attraverso significati didattico-pubblici di categorie ben definite, per fare in modo che possibili conferme e/o confutazioni rispondano a domande capaci di identificare le ragioni connesse alle «condensazioni» ed agli «spostamenti» della cultura figurativa di territorio.

Luca 79 (Luigi Castellano)

E’ già insolita di per sé stessa ,e non solo a Napoli, una mostra di sculture, o per meglio dire di opere plastiche. A me, per esempio, è accaduto non poche volte di sentirmi cortesemente pregare, anche da parte di rappresentanti di strutture artistiche pubbliche, di escludere, o quanto meno restringere al massimo, la presenza di tali opere da rassegne appuntate sulla ricerca artistica presente. A questa preghiera, non ho dato mai molto ascolto; ma mi sono chiesto, sempre, se davvero, al fondo di essa ci fossero solo le ragioni esplicitamente addotte (costo, scomodità, trasporti, ecc.), o non, più sotterranee, altre ragioni. Ragioni - per dirla con un understatement - di fastidio per la scultura, di non voglia di recepire la presenza di un tipo di prodotto e di oggetto che rischia di dar fuoco a una qualche coda di paglia, celata da qualche parte ma concretamente esistente: in tutti noi, forse.
Ogni opera plastica, fatalmente, «concorda» l’idea di monumento. E metto le virgolette per dire che, si presenti essa come neo-monumento o come anti-monumento o come a-monumento, quel ricordo variamente agisce e pesa, e spiega la renitenza di cui dicevo. Non starò, ovviamente, a polemizzare contro chi pensa che l’idea di monumento abbia in sé, obbligatoriamente, l’idea di una retorica. Lo stesso sublime Kitsch dei monumenti sabaudi sparsi per tutta Torino alle intersezioni delle ortogonali non ha più possibilità alcuna di comparire davanti a noi suscitando virtuosi sdegni: corre l’anno 1979, non l’anno 1905. Allora, si tratta di qualcos’altro. E di che cosa, se non della nozione di tempo, di rapporto con gli archi temporali - storici e/o psicologici -, vera figura allegorica segreta (avrebbe forse detto Walter Benlamin) dello schema-monumento (come dello schema anti-monumento, e come dello schema a-monumento)?
Certo, questa nozione sta anche nella pittura, eccome. Ma è il modo in cui sta, in cui non può non stare, nella forma-materia che si avvita nello spazio reale, a suscitare la più o meno conscia ripulsa di certuni. Al punto che, anni fa, Robert Smithson, per avvalorare le proposte di alcuni settori minimalisti nord-americani, trovò necessario giustificarne la validità con l’argomento che essi (i New Monuments) non erano fatti «per le epoche», ma «contro» di esse; e che il tempo loro era «la frazione di secondo». In tal modo, le proposte plastiche che egli allora (1966) privilegiava venivano fatte entrare per la porta largamente aperta del rifiuto di quel nesso passato-presente-futuro a petto del quale irresistibilmente si determina la forma-materia-peso della scultura.
Questa problematica dà subito, fra l’altro, una chiave per intendere una questione non secondaria. Che è quella posta dalla presenza in Napoli di una continuità - e questa mostra ne è documento significativo - di ricerche plastiche, diramate a punti diversi dell’orizzonte linguistico, più evidente e rilevata che altrove. Non voglio fare statistiche a orecchio, o socio-estetologia approssimativa, ma mi pare riassuntivamente evidente che, qui a Napoli, l’incontro del critico, e del pubblico, con la ricerca artistica attuale, è segnato più che in ogni altro centro italiano (e forse europeo) dalla quantità, dalla qualità e dallo concrete singolarità, della presenza plastica. Che se ne sappia troppo poco, fuori di Napoli, è altro discorso: che sta a carico sì, per certi aspetti, di dure condizioni locali, ma che sta anche a carico, per molti altri aspetti, di una disattenzione da parte di chi sta fuori. Ma se cerco di rispondere in modo sostanziale all’interrogativo che mi pone la densa presenza plastica a Napoli, credo che mi tocchi attraversare quel tema del nesso passato-presente-futuro.
Se considero, ad esempio, i percorsi seguiti da protagonisti essen-ziali della ricerca di avanguardia a Napoli, come Renato Barisani da una parte e Antonio Venditti dall’altra, mi riesce impossibile distaccarne la parte che spetta al dialogo con la problematica contemporanea, fuori di Napoli e fuori d’Italia, dalla parte che spetta all’interlocuzione con la città, nei suoi sostrati e nei suoi problemi e nei suoi umori. Sicché, anche quelle delle loro forme plastiche che più divergono dalla testimonianza rappresentativa, in verità mi paiono articolarsi e flettersi e comparire in uno spazio denso, non generico, non senza-tempo e non senza-luogo, ma identificabile. Il Barisani astratto-costruttivista è altrettanto lontano dal tempo come «frazione di secondo» del Barisani che interpella e a suo modo f lette proposte informali. E il Venditti astratto-concreto mi pare altrettanto estraneo ad una plastica «contro le epoche» del Venditti che si confronta con suggestioni arcaicizzanti.
Né mi pare che dal terreno dei rapporti fra presente e memoria storica-culturale si allontani Augusto Perez, al lume di una conflittualità tra i due termini che, nella sua invenzione di un’idea di monumento-spettacolo, trova il proprio nodo conflittuale: la propria dolorosa bellezza, direi, in uno schema ideale che pare trasporre la dolorosa bellezza in cui si affissa l’Occhio della Vergine. Oppure, al polo opposto esplorato da Rosa Panaro, la povera materia della cartapesta plasticata da rata mano femminile, lungi dall’esaltare un caducità di consumi, rivendica la rifondazione, a partire da una materialità degradata, di un ordine diverso. O, ancora, in tutt’altro registro di linguaggio, la figurazione fantasmatica, trasversalmente appuntata dall’ informalità alla stilizzazione, di Giuseppe Pirozzi.
Così, tocca chiedersi come mai i pensieri sulla degradazione e sulla morte stessa, che non di rado altrove si consumano in artificiosa pensosità, qui - da Gerardo Di Fiore a Salvatore Cotugno - si articolano in uno specialissimo modo di fare dello sguardo un lucido ma non impietoso canale verso la comparizione di emblemi concreti (Di Fiore) o di spettacoli emblematici (Cotugno) degli strati di storia presente o passata che li fanno pesanti di verità. Così, infine, Annibale Oste materializza L’inafferrabilità della luce, dell’acqua e del vento, e propone, di questi elementi spesso affidati ad un’abusata nozione di indeterminatezza, una certificazione concreta che li sottrae alla «frazione di secondo», e li proietta nel tempo lungo.
In esperienze e in ricerche e in generazioni diverse, dunque, entro la riaffermata singolarità non solo dell’autore - chiamatelo artista, chiamatelo operatore, non importa poi molto - ma dell’opera, c’è qualcosa che tutte le attraversa. E questo qualcosa, non saprei definirlo altrimenti che come una «non-paura» della storia: cioè, una non-paura, malgrado tutto, del presente e del futuro.

Antonio Del Guercio


Copyright (c) 2002 [Interviù]. Tutti i diritti riservati.
Web Master: G.C.G.