La realtà figurativa, di Panaro
Rosa Panaro, in tutto il corso della sua pratica di scultrice
impegnata continuamente ad attestare la necessità di un autentico possesso dei
valori di vita, è passata attraverso varie esperienze, dalla prima accademia
all’avanguardia, ma sempre nell’incidenza dl un figurativo, anzi di un realismo
spinto talvolta alle conseguenze più estreme, tra atti di denuncia e
vivificazione di simboli, riposti culturali e suggestioni per il perduto,
fremiti di crudezza espressiva e rivisitazione dell’oggetto o dell’elemento
alienato. In ciò, con tutta l’ovvia essenzialità, sempre con una presenza
costante della cosa, della figura di per sé, a parte ogni allusione; s’intende
qui parlare, in brevi termini, nel modo più particolare del disperso o di quello
che in buona parte è già dissipato, salvo poi ad averne il rimpianto
riimmaginandolo con l’esistenza di un prototipo, artefatto di questa civiltà.
Noi vogliamo attestarci su questa figuratività e su questo possesso di un reale
sempre esistente nel suo filo conduttore già dal Sessanta in poi, come dire
dalla sua uscita fuori dai gangli applicativi di una immagine trasposta
all’asservimento dello studio e della cultura di scuola, anche se quelli, però,
sono momenti belli ed incisivi nella sua formazione, per l’acquisizione dell’uso
praticato, appunto per la scultura, dei materiali più vari, dalla creta alla
pietra, dalla terracotta alla cartapesta, dal cartone alla plastica, materiali
che, tranne l’ultimo - la plastica -, della moderna civiltà, sono stati sempre
usati dall’uomo per le esigenze artistiche o artigianali più o meno comuni, più
o meno ricercate. La Panaro, In sostanza, ha questa prerogativa nel suo lavoro,
non abbandona con l’uso di un materiale o di un altro la sua idea congenita:
fare comunque della scultura che dica, che parli, che si faccia da sé portatrice
di un messaggio riproposto dall'antico o dal tutto nuovo, non importa. Il
necessario è sentirsi obbligata a rifuggire dal fittizio e provare in qualsiasi
modo, e sempre nel concreto, con qualsiasi gesto, l’atto della scultura, che
deve tendere a dimostrare dell’esistenza o della perdita di alcuni valori
nell’accento umano.
Vista in questa prima angolazione, tutta la scultura della Panaro, anche se può
sembrare la più banale per la povertà dei materiali usati nella sua attuazione,
dice sempre qualcosa che è vero, elimina parimenti il fittizio e,
nell’immediatezza, dà sempre l’identificazione del reale nella sua vita vivente
o smarrita. Comunque, ciò diventa per dati versi anche rivendicazione di una
prospettiva e di una informazione, come stimolo ad annunciare e a denunciare il
positivo e il negativo di un dato di riflessione su ciò che ella pone in
considerazione nella detta realtà. D’altra parte, è una scultura, questa della
Panaro, non simbolica in sé, e neppure sempre allusiva, come potrebbe
superficialmente sembrare, ma rallentata e contenuta in un’essenza primaria, in
cui la forma esterna, curata sempre con l’assillo al vero, spesso con la
macroscopia, e col richiamo al fatto più interno, alla dimora del monito che
pone, ed anche alla contraddizione che spesso denuncia. È eclatante, dunque,
sotto altro aspetto.
Ma ne vogliamo anche analizzare quella parte - che è pur essa dominante - che
maggiormente ne significa il modo o l’appartenenza a questa forma di realtà. La
Panaro parte, in primo istante, dalla constatazione di un rifugio dell’uomo
nella sua intimità e nel gesto della sua vita, della sua operosità, della sua
antica discendenza: la pastorizia, la guerra, la divinità, il rifugio nel culto
per il bene e l’allontanamento del male, nell’ancestralità, insomma, della
condizione antica, con la gioia ed il dolore, e con la presenza della donna che
vive un suo ruolo nella propria familiarità e nella propria missione nell’ambito
di una costituzione sociale. Questo momento della propria creatività la Panaro
lo custodisce nella creta e nella pietra, nel tufo e nel legno, appunto come
elementi che di per sé, naturalmente, raccontano una storia. Pensiamo ad una
radice d’albero, tanto per un esempio, ad una particolare forma di una pietra, e
così via. La Panaro vi scava intorno, vi leviga incisivamente per ricavarne
l’anima, vi sagoma col tatto e con la presenza continua di una costante ricerca
per la causa del suo culto. È un momento importante per la scultrice,
giacché tutto quello che verrà dopo, per la coscienza che si immette in una
società di contrasti, conserva sempre questa battuta che prevale e che,
comunque, giammai si allontana dal merito di una condizione per un’altra
cultura. E quando l’ideologia del senso verrà spinta all’attacco del non senso,
e la circolazione della sufficiente immaginazione porta innanzi una spinta
crescente a non più solamente raccontare ma ad accusare, allora non è che si
perda la prima compiacenza e la possibilità di comunicare anche col passato;
anzi, uno dei punti non controvertibili di questa scultura è proprio questo: il
rimpianto per l’arresto di una vita, di un proseguimento nelle idealità, di una
riconciliazione ormai perduta con l’antico amore, e la sempre più crescente
Impossibilità di una prestazione umana non comprensibile nei confini del senno.
La sua, pertanto, diventa proprio l’ideologia del perduto non come fatto
celebratorio ma come smarrimento di un valore che solo a noi sta a recuperare.
Per questo, tale scultura è viva anche quando sembra morta: dalla vita passa
alla sua speranza, a questo non lontano credito di un rinsavimento, a questo
continuo omaggio ad una figurata realtà, anche distrutta, se in ciò proprio
crediamo; ed in ciò, con la natura di più materiali, in luogo non di contrasto:
con la cartapesta usata già dall’uomo nella sua antichità, è vero colorata,
iridata, arabescata, ora grezza senza più un sua lucentezza, e con una plastica,
orripilante nella chimica composizione ed In quel senso di lisciata fin troppo
superficie, ella non compie altro che lo stesso gesto che prima ha compiuto - e
che ancora potrebbe compiere - al di fuori di talune posizioni avanguardie dette
o ripetute, e sempre nel segno di mostrare e di risolvere, fuori da ogni
illecita fantasia, quel che è, quel che è stato.
Perciò noi riandiamo a questa sua scultura figurativa come se muovessimo verso
la conquista di una seducente incarnazione di metafore antiche che più tali non
sono e che nelle implicazioni di tutto un riconoscibile nasconde anche lo
straordinario concentrato di una oggettiva umanità. La forma si adegua, lo
spirito si dissolve, l’atmosfera ne afferra l’utilizzo più soggettivo? Non
importa. Il necessario è che la scultura conservi questa possibilità di
esprimerci relazioni varie di coscienza e di vita,di antico bene e di perduto
amore, di linguaggio che è sempre puro nell’immensità di tutte le sfumature, con
l’iperbole ed il metaforico, l’icastico ed il sineddotico e, sempre, con questa
continua espressività di cultura nota ed ignota, comunque mai surreale e sempre
possibile nel contesto della sua affermazione.
La scultura della Panaro, nella gamma che si presenta molto vasta nel suo
sistema applicativo, per questo, anche quando è divenuta pop, è rimasta quel che
in partenza è sempre stata; ed il recupero di un bello, di un concentrato di
utilizzo, di una edita bellezza, non è che un momento di un rimando culturale
verso una purificazione ed una lievitazione di un rapporto tra l’uomo e la
realtà, tra la persuasiva parvenza del presente e la forza di un passato, il
riferimento al perduto e al conquistato, con volontà a sempre incidere, a sempre
persuadere su quel che è e su quel che è stato. In questo senso è molto
significativo il valore di questa scultura che conviene esaminare ancora in un
ultimo aspetto, anch’esso non meno indicativo, quello sociologico o anche
anagogico, in verso più lato. Qual’è questo riferimento, certamente non ultimo?
Un insegnamento, quello che ci viene dalle posizioni avanguardie. E se l’uomo
perde il contatto con la realtà? E se da questo reale egli non sa ricavare Il
motivo alla vita? Eccoci dunque al ritorno ed al rimando a quella prima scultura
degli anni Sessanta: nell’idealità dell’uomo che amava allora, inconsapevole di
certi fatti avvenire, cercar rifugio nel mito, certamente migliore degli
illusori sogni: cosa che ha sempre fatto con i totem e le lische, i frutti di
mare della terra, con Pandora e l’ultima Lilith, donna - madre, donna -
pensiero, donna - luna, dando credito ad una teatralità di vita con storie e
presenze di allegorie e metafore.
La scultura della Panaro, così essenziale in questa quasi mummificata
prodigiosità, ci pone questa credenza, del resto veritiera.
ROSA PANARO è nata a Casal di Principe (CE). Ha
frequentato il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti di Napoli (sez.
Scultura). Insegna Discipline Plastiche presso il Liceo Artistico dl Napoli.
Vive e opera a Napoli.
Svolge la sua attività dal 1956 (sperimentando materiali diversi quali cemento,
polimaterici, ceramica, resine ecc.; dal 1970 indirizza la sua ricerca sull’uso
della cartapesta e terracotta) con mostre collettive nazionali ed
Internazionali, mostre personali, oggetti di scena per alcuni spettacoli ed
attività di gruppo tra cui: Incontri della gioventù ‘56 (premiata); Premio
Strega; Premio Olivetti (premiata); Mostra nazionale giovanile, Palazzo
dell’EsposIzione, Roma; Premio Gemito ‘59-’60; Mostra internazionale Biennale di
Carrara; Donne e ricerche nell’arte oggi, Napoli ‘66; Premio Ariano ‘67; "Oltre
l’avanguardia", Mostra internazionale, Novara; Prospettive 4, Galleria Due
Mondi, Roma - Palazzo dei Diamanti, Ferrara. Palazzo Reale, Caserta ‘69-’70;
Operazione Vesuvio, i Mostra Progetti Europa, Galleria Il Centro, Napoli -
Centro Domus, Milano, ‘70; Premio Michetti, ‘71; Rassegna d’Arte del Mezzogiorno
(V e VII) Napoli.
Nel 1973 6 fra i promotori della Consulta Regionale Permanente per la Cultura e
l’Arte in Campania ed inizia una serie d’interventi nello Spazio urbano con I
pesci, le lische, i melograni, i pomodori ecc.; 1975: Situazione a Napoli ‘75,
rassegna a cura di E. Crispolti; Premio Pontano; Premio J. Mirò, Barcellona; Per
una ipotesi di multiplo illimitato, Casa del Popolo, Ponticelli; "Napoli che
deve cambiare", collettiva Galleria Colonna; "Ipotesi per un Museo laboratorio",
Festival provinciale di Napoli; 1976: Mostra mercato, Festival nazionale
dell’Unità, Napoli; Mostra nazionale CGIL, Maschio Angioino, Napoli; Museo
d’Arte Moderna, Bakù (URSS).
Dal 1977 inizia le attività di gruppo con collettivi femministi tra cui: XX "La
donna ha il cervello troppo piccolo per l’intelligenza, ma sufficiente per
l’amore", Galleria Amelio, Napoli; Firma il manifesto femminista "Manifestazione
per la riappropriazione della nostra creatività" e partecipa all’occupazione
simbolica della Promotrice Salvator Rosa; Donne / Immagine / Creatività, dal giugno popolare vesuviano; Bologna: azione itinerante sul "Vaso
di Pandora", "Lavoro nero, Lavoro creativo" ecc.; Collaborazione con la rivista
EFFE; Biennale d’arte Venezia 1978; "Ancora Violenza", manifesto-documento
contro la repressione esercitata nei confronti dell’aborto e per l’aggressione
fatta alla donne di radio Città Futura; Collettivo X "Resistenza per
l’Esistenza" mostra intervento per il convegno Donne e Antifascismo; "Dentro
l’arte fuori Il piatto", Collettiva Studio Ganzerli, Napoli ‘78; Collettivo
Segno/Donna: Intervento nella Galleria Principe alla mostra sugli handicappati
"Mille bambini a Via Margutta"; Progetto per un ambiente sulla Sibilla Cumana;
‘A Capa ‘e Napule: manifesto e intervento sul seminario pubblico "I modi e le
tematiche del femminismo a Napoli."
Mostra itinerante sulla "Disambientazione", Accademia Belle Arti, Napoli ‘79;
Forme nei tempo: 8 Scultori dai 1950 ad oggi, Numerosette, Napoli, ‘79; Napoli
Arte 80, Casina dei Fiori, Napoli; Ricerche di base 7911 80/2 9X13; Pittrici per
l’8a Festa della donna, Venezia ‘81; Quasi una situazione, Napoli
‘82; Mostra per la Pace, Roma ‘82: "Desculptura", Comune di Caltagirone, ‘82;
"Immaginario riflesso", Teggiano, Museo Archeologico - Salerno, San Leucio ‘82-
‘83; "Confronto in scultura", Amalfi ‘83; 1984, "Scultori Campani, Presenze
Contemporanee", Giardini dl Villa Guariglia, Raito (SA);
Personali:
1961 Galleria 5. Carlo, Napoli;
1962 Galleria Chiurazzi, Napoli;
1969 Teatro ESSE, Napoli;
1973 Centro Arte Europa, Napoli;
1974 Rosa/Rosae, Galleria Carolina, Portici (NA); Mitilomania La Ballata delle
cozze, Galleria Ganzerli, Napoli;
1978 Centro Sud Arte, Scafati (SA);
1982 Galleria Colonna, Napoli;
1984 Palazzo Vescovile, Cava dei Tirreni (SA); La pelle del serpente, AcomeArte,
Napoli.
Hanno scritto:
C. Barbieri, M. Blgnardi, E. Bugli, L Capobianco, E. Caroli, L. Caruso, L.
Castellano, V. Corbi, E. Crispolti, A. Del Guerdo, S. Di Bartolomeo, F. Di
Castro, G. Di Genova, O. Ferrari, L. P. Finizio, P. Fioriilo, P. Girace, G.
Grassi, A. lzzo, M. Maiorino, F. Menna, D. Micacchi, A. Miele, F. Piemontese, P.
Ricci, M. Roccasalva, C. Ruju, A. Spinosa, N. Spinosa, A. Trimarco, M. Venturoli,
L. Vergine, C. Vivaldi.
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