Giorgio Di Genova
STORIA DELL'ARTE ITALIANA DEL '900

Generazione anni trenta

«Anche quando frequentavo l’Accademia provavo un senso di fastidio e di limitazione verso i materiali tradizionali; questi, in particolare il bronzo, non mi consentivano di "concludere" in prima persona gli oggetti. Le resine plastiche, sperimentate negli anni successivi. mi sembrava rispondessero meglio alle richieste della civiltà delle macchine e poco alle esigenze di una donna del sud quale io sono e mi sento profondamente. Al contrario l’uso della cartapesta mi sembra più naturale perché permette di produrre l’opera nella sua interezza annullando quella sensazione di spropriazione che l’uso di altri materiali reca con sé. Un processo questo che sottintende, d’altra parte, un’analoga ricerca rispetto ai soggetti stessi delle mie opere, tutte riconducibili, almeno fino al ‘77, al mondo della natura».
Chi parla così è Rosa Panaro, Lilith della scultura partenopea, moglie dello scenografo Tony Stefanucci, con cui ha condiviso e condivide la tendenza alla teatralità (142). Lilith, la quale ha affidato la sua ribellione al dettato «divino», che la voleva soggetta ai voleri dell’uomo, ha dato la stura alla sua ironia di donna partenopea. Ed è attraverso le trasmutazioni in cartapesta che Rosa ha saputo trasporre i simboli mitici in oggetti della quotidianità e, viceversa, innalzare alla sfera mitica i cibi di tutti i giorni (143).
La Panaro da alcuni
anni aveva avviato la serie delle Sequenze (144), per condensato di opere realizzate l’anno precedente sempre con figure iterate (Mondo bit in scatola, The per uno tre, 1966), le quali a loro volta avevano un cospicuo precedente nel condensato delle due figure in costume accostate e distese sul ventre su un cerchio e sotto un altro cerchio più piccolo su cui era stampigliato l’inizio di una canzone all’epoca in voga («A... a... bronzatissima») che dava il titolo al lavoro (Abbronzatissima, 1964).
La svolta si concretizza nel ‘70 con le opere di cartapesta della serie
Recupero ecologico, che si sviluppano nel ciclo delle Reliquie, comprendente anche la serie dedicata alla Mitilomania, incentrate su lische di pesce (Ritratto di lisca, 1974), primi e secondi piatti (Spaghetti con cozze, Reliquario 6,1974; Mitilomania reliquarium, 1974-75). Queste gustose imitazioni in cartapesta dei cibi mitizzati dall’atavica fame dei napoletani, impersonata da Pulcinella, sono un aspetto dell’ironia della Panaro. I piatti, compresi quelli con la pizza napoletana, si propongono con tutti i loro colori e la veristica conformazione degli ingredienti, che fanno gola, ma che è possibile divorare solo con gli occhi, com’è normale per un’opera d’arte. Ed il fatto che il piacere estetico sia affidato ad un piacere del palato negato appartiene all’ironia ludica della Panaro, che, mentre ammicca accondiscendente ad una ritualità della popolazione napoletana, nel contempo è palesemente dissacratoria.
Dai miti della quotidianità Rosa giunge alla mitologia reale allorché, dopo aver realizzato nel biennio 1975-76 azioni, quali la semina di melograni al Maschio Angioino e la vendita di melograni con pomodori alla Riviera di Chiaia, entra a far parte del Gruppo Donne Immagine
- Creatività, realizzando nel ‘77 il Vaso di Pandora a San Giuseppe Vesuviano. Sulla scorta ditali esperienze Crispolti ha ritenuto determinante l’ottica della donna nella produzione della Panaro (145).

Dopo aver pestato tanta carta per realizzare dal 1980 al 1990 i simulacri del suo Olimpo al femminile (Eva, Lilith, Lilith Luna Nera, Lilith Liana, Lilith Laura, Lilith Lalla, Lilith Partenope), anche Rosa Panaro è giunta alla terracotta, nel cui ambito ha realizzato altre Lilith, simbolo del suo impegno in seno ai gruppi femministi partenopei (39). Se nelle opere in cartapesta, tecnica con cui; dando fondo al suo esuberante brio napoletano, negli anni Novanta Rosa si è sbizzarrita a sfornare pizze napoletane (40), a far volare farfalle (Volo per respirare) o uccelli (Colomba con ulivo) ed a creare pesci, ma anche ulteriori personaggi del suo teatrino grottesco-macabro (Uroboros, Le mogli dei preti, Presepi), in quelle di terracotta non mancano personaggi che riecheggiano le sue mostruose Lilith (Mukula), le quali tuttavia, assieme alle Eve, si trasformano in angeli e maternità, che in fondo è un modo di fare autobiografia, dura, acida, ma col sorriso sulle labbra, come rilevavo in una testimonianza, inviatale nel febbraio 1996 (41). In essa, infatti, dopo aver osservato: «La tua Lilith è giustamente un angelo caduto dal cielo, un angelo scacciato, come lo sono spesso le donne in questo mondo di artisti maschi e maschisti. Essa è un misto di speranza e di incubo. Tutte cose che appartengono al tuo io, né più né meno della salamandra, che riesce a camminare tra il fuoco senza bruciarsi. E che altro hanno fatto le donne, dopo i roghi della Santa Inquisizione, per secoli, costrette a vivere tra i fuochi delle oppressioni, delle critiche, dei soprusi e delle emarginazioni?», proseguivo: «È chiaro che tu vai gettando le tue briciole, briciole di "pane dell’arte", come sono le tue salamandre e i tuoi gechi, per ritrovare nella foresta delle difficoltà esistenziali il sentiero per uscirne e quindi poter infine volare liberamente, non con le ali della speranza interdetta e coartata di Lilith, ma con quelle delle farfalle che hanno, sì, vita effimera, ma costituiscono soffi di primavera e vanno di fiore in fiore a suggere linfa, magari sporcandosi le ali di polline, come avviene con i colori agli artisti.
«Il tuo è un discorso autobiografico. Almeno così io lo vedo. E siccome nessuno di noi è tutto e solo buono, come non è tutto e solo cattivo, nella tua confessione emerge di tanto in tanto il mostro, metafora del desiderio di vendetta che cova in te. Non credere che non l’abbia capito. Quella Colomba incinta che viene dall’Amazzonia è il tuo modo di concepire l’Arpia, cioè l’oggettivazione del tuo segreto desiderio di turbare i sonni, e non solo i sonni, a chi ti disprezza e ti fa soffrire» (42).

Note
(142) La citazione è ripresa da Parlando con Rosa di Laura Capobianco e Aurora Spinosa, in E. Crispolti-LP. Finizio-F. Menna, Rosa Panaro. Metamorfosi di Lilith, Galleria Colonna, Napoli, 5 marzo 1982.
(143) È un’ironia che in realtà è più un’arma di difesa che di offesa, che affonda le sue radici nelle demitizzazioni operate da Guido Biasi e dal metafisico ludismo geometrico di Del Pezzo, come evidenziava Oreste Ferrari che nel ‘69 l’aveva invitata a Prospettive 4, dove esponeva 2 cementi del ‘69, Sequenza n. 1, Quello che in fondo siamo (cfr. O. Ferrari, Panaro Rosa, in AA.VV, Prospettive 4, Galleria Due Mondi, Roma, 4-31 ottobre 1969, p. 68).
(144) Una Sequenza n. 1 aveva realizzato già nel ‘67, facendola seguire da Sequenza n. 2, Sequenza n. 3: le prime due sviluppavano in verticale ed in 3 battute incorniciate da rettangolo scandito da piani divisori due visioni di donne, la prima dalla testa fino al corpo, la seconda dal corpo senza testa al busto con testa; Sequenza n. 3, invece, dentro la cornice inferiore raffigurava due ragazze in piedi a gambe divaricate, che nella cornice venivano ripetute, ma accostate e dimidiate dalla vita in su.
(145) Cfr. E. Crispolti-LP. Finizio-F. Menna, Rosa Panaro. Metamorfosi di Lilith, cat. cit.
(39) Dopo la partecipazione alla mostra La donna ha la testa troppo piccola per Vintelletto, ma sufficiente per l’amore, inaugurata assieme a Mathelda Balatresi, Antonella Casiello e Mirnma Sardella il 13 aprile 1977 nella Galleria Lucio Amelio di Napoli, nel ‘78 Rosa, come esponente, Gruppo donne - Immagine - Creatività, ha esposto allo Spazio aperto della Biennale di Venezia, firmando Il Vaso di Pandora - rovesciamento di un mito, assieme ad altre tre napoletane, cioè Anna Trapani e le più giovani Bruna Samo e Valeria Dioguardi, ed inoltre, nel 1980, col Gruppo Segno/Donna al Progetto per un ambiente sulla Sibilla Cumana per il Castello di Baia, Bacoli (NA).
(40) Riprendendo anche idee di vent’anni prima, come attesta Naples New Look!... del ‘95, d’après di Mitilomania e reliquie del ‘75. Naples New Look!... è una delle poche opere datate, a differenza della maggior parte delle precedenti, il che mi ha creato non pochi problemi, rimasti irrisolti dopo i miei appelli all’artista, che anche in questo rivela la sua napoletanità. Per tale ragione (e lo si sarà notato), contrariamente a quanto faccio per le opere di altri artisti, tralascio di segnare la data accanto al titolo dei lavori della Panaro. Ciò è dovuto all’impossibilità di stabilire con esattezza l’anno di esecuzione, che la stessa Rosa negli ultimi due decenni ha trascurato di indicare, determinando incertezze insolubili per il povero storico, che spesso ha a che fare con materiali (cataloghi, compreso quello del novembre ‘99, edito per la personale tenuta alla Casina Pompeiana della Villa Comunale di Napoli, foto, ecc.), i quali, anziché aiutarlo, lo fuorviano.
(41) La Panaro fu inserita nell’ambito delle serate dedicate ad un artista nella Saletta Rossa della Libreria Guida a Port’Alba. Alla serata del 6 marzo, che appunto la riguardava, la Panaro mi chiese di essere presente per parlare del suo lavoro. Non potendo abbandonare la  mia scrivania, in quanto impegnato a scrivere Generazione primo decennio, le inviai una testimonianza scritta in forma di lettera, che  fu letta in quell’occasione dalla figlia Antonella, che è attrice. Ora tale testimonianza, in cui stigmatizzavo i comportamenti degli artisti napoletani, sempre l’un contro l’altro armato, mettendola in guardia. («Per questo sono preoccupato per te. Hai ottenuto una serata da Guida. Ti faranno a pezzi. Ti diranno: "Ma come si permette? Questa non è nessuno, pazzea con la terracotta e la cartapesta, nun sape pittà" e peggio ancora. Anche i più napoletani non vorranno vedere la tua napoletanità, non vorranno intendere che in quello che fai c’è  Napoli, ma c’è anche la creatività femminile, che si alimenta di mitologia, di fantasie, di paure e di conseguenti aspirazioni liberatorie»), è pubblicata in Artisti a Napoli. Progetto Arte, Alfredo Guida Editore, Napoli 1997 (jp. 32-33).
(42) Naturalmente, parlando delle salamandre e dei gechi, mi riferivo alle opere in terracotta (ma anche in cemento e conchiglie, nonché in cartapesta, com’è Grande salamandra) con cui la Panaro in quell’occasione aveva creato un tragitto plastico, restituendo alla terra la terra, ma sagomata e cotta. Nel ‘99 la Panaro collateralmente alla cartapesta sagomata (Erma vesuviana, Mamma partenope, Albero della Libertà) è approdata ad opere, sempre in carta, ma stesa e giustapposta in una serie di ritratti a collage (Domenico Pacifico, Eleonora Pimentel Fonseca, Luisa Sanfelice, Michele Natale, Maria Antonietta di Pololi).


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