Rosa Panaro
tra madonne, draghi
e pizze di cartapesta
di Gino Grassi

La sua maniera d'essere donna e noi (come è apparsa ad alcuni) l'ideologia del femminismo, ha guidato la mano di Rosa Panaro, la maggiore scultrice napoletana del Novecento, nel formalizzare la propria ricerca plastica degli ultimi trent’anni. In poche parole, la perfetta libertà morale e comportamentale hanno orientato l’artista nei momenti più difficili, rendendola sempre autonoma e capace di osservare con occhio obiettivo la realtà. Ospite d’eccezione alla Biennale del bronzetto di Padova, una manifestazione internazionale che si ripete da decenni e che è in corso in questi giorni, la scultrice tanto cara ai napoletani e a molti italiani, ha dato vita, nel suo superiore magistero plastico, a reinvenzioni assai originali, fosse solo per aver utilizzato, di volta in volta, i materiali più apparentemente contraddittori, per provenienza e per formulazione, rendendoli capaci di rappresentare alla perfezione un universo in continua trasformazione. Autrice, qualche ventennio fa, della famosa opera «pop» dedicata alla pizza napoletana,. riprodotta poi in serie e presentata con il più vivo successo in America ed in vari paesi europei, l’artista ha rovistato in lungo e’in largo le tradizioni della città; e s’è addentrata, con curiosità e grande senso della ricerca nel mondo del sacro, ossia nella parte più complessa dell’immaginario storico e fantastico dei napoletani. Tutto ciò dopo aver preso parte (vestendo sempre i panni dell’artista) agli eventi più importanti della disputa sul ruolo della donna. E in un momento in cui la nuova condizione femminile non veniva appieno compresa (la molte delle stesse rappresentanti del mondo muliebre.
Con la semplicità degli artisti di genio più che con dichiarazioni programmatiche, Rosa Panaro ha voluto dimostrare che al di là delle tematiche ideologiche, delle contraddizioni polemiche e della stessa gridata opera di rimozione di ostacoli secolari, gli avvenimenti degli ultimi anni hanno dimostrato che sono state le donne medie, consapevoli di mutamenti di portata storica, a riappropriarsi della propria identità. L’artista vede in positivo la rivoluzione che (di fatto) ha cambiato i rapporti tra la società femminile ed il mondo: e chiaramente intravede in ciò non la manifestazione di un porsi, da parte della donna, come contrapposizione all’uomo nel determinare gli eventi storici, ma come espressione di una componente dialettica che punta all’unità culturale ed esistenziale. Sono convinto che, il «riflusso» (vale a dire il decadere degli entusiasmi dopo qualche battaglia perduta da parte delle donne) non ha contribuito a far assumere alla scultrice una posizione di supposta retroguardia. È vero invece che la Panaro, pur non volendo rinunciare al suo ruolo (esterno) di artista, ha giustamente approvato il nuovo clima instauratosi sul problema, nel contesto di un processo generale di demistificazione. Certo, bisogna riconoscere che la scultrice non se l’è sentita di negare la grande importanza dell’azione svolta dalle femministe al fine di mutare la posizione della donna nel mondo. Ma chi le può dare torto?
Che la scultrice, della quale recensiamo la mostra in corso a Padova, abbia avuto trascorsi momentaneamente «femministi», è cosa vera. Ma non per questo si può asserire che sia stata la molla della lotta per la liberazione della donna a spingere la Panaro nella propria azione di artista. Raccontiamo i fatti in modo che il lettore possa farsi un quadro esatto della situazione a monte. Dunque, nella seconda metà degli anni Settanta, e precisamente nell’aprile del 1977, in una
mostra performance alla galleria Amelio, una scultrice ed una pittrice, Rosa Panaro e Mathelda Balatresi e due intellettuali, Antonietta Casiello e Mimma Sardella, mettevano a fuoco, con una serie di interventi, un dibattito sulla posizione della donna nella nostra società, cercando di porre in rilievo come la situazione culturale, sociale e psicologica del mondo femminile si andasse sempre più aggravando nel paese, dove, ai pregiudizi antichi, si riteneva si fossero aggiunte ancora più sottili manovre di emarginazione. Antonietta Casiello, una docente di filosofia, e Mimma Sardella, allora vicesovrintendente ai Beni artistici di Cosenza, avevano deciso di riunirsi in gruppo con la Panaro e la pittrice Balatresi, dopo un viaggio fatto insieme a Venezia per visitare la Biennale d’Arte. Era stato il viaggio stesso a rappresentare il primo stimolo per una mostra da Amelio, appunto per la singolare situazione venutasi a creare sul convoglio ferroviario, a causa di «insopportabili» reazioni e veti, tutti maschilisti. Creata questa forza contro possibili «aggressioni», le quattro giovani donne artiste affermarono:
«Il nostro gruppo nasce da una situazione oggettiva, e cioè dall’esserci ritrovate insieme per compiere un viaggio reale, e da una situazione più a monte e maggiormente significativa, che è quella di essere "donne" consapevoli del proprio ruolo familiare e sociale, e coscienti di vivere una crisi che investe tutta la società mettendo in discussione i termini, finora stabili ed incontrovertibili, in cui ciascuna di noi. o meglio ciascuna donna, vive i propri rapporti con gli altri e con le istituzioni. Il viaggio compiuto a Venezia per la visita alla Biennale ha significato per noi in effetti entrare maggiormente nel nostro specifico; e cioè ha significato, nel nostro ruolo strettamente professionale far scaturire dalle osservazioni che riguardano sempre il problema della donna, ma questa volta del come la donna vive la sua professione e del come affronta il suo lavoro, del come cioè viene accolta dall'organizzazione maschile della produzione "materiale" (il che significa "culturale")». Dopo aver dimostrato, attraverso una documentazione aperta che la Biennale aveva ribadito la situazione di subalternità della donna (alla mostra veneziana hanno partecipato sei donne e cinquantuno uomini) le quattro esponenti del «Gruppo XX» affermarono di essere coscienti fino in fondo che un mutamento della situazione si sarebbe potuto avere solo se a ciò si fossero impegnate le altre forze sociali direttamente interessate. La mostra delle quattro operatrici era incentrata quasi completamente sulle esperienze del viaggio a quattro ed era portata avanti, sotto il profilo dell’esecuzione artistica, in modo assai semplice. La Balatresi e la Panaro (la prima con immagini grafiche e pittoriche di tendenza iperrealistica, la seconda con i suoi originali oggetti) mettevano a fuoco il loro discorso sul rapporto storicizzato uomo-donna e lo facevano con graffiante ironia. L’intervento era intitolato (La donna ha il cervello troppo piccolo per l’intelletto e sufficiente per l’amore... ».

* * *

Ma torniamo al centro della questione estetica, che è poi quella che più ci interessa. Rosa Panaro assieme alle resine plastiche, utilizzate fin dai primissimi lavori perché più le danno la sensazione di produrre l’opera nella, propria interezza mediante il controllo dei diversi cicli, ha continuato a servirsi per le sue originali creazioni, di tutti gli ingredienti «poveri» che la natura ed il mondo dei consumi (ed in qualche caso anche quello dei rifiuti) mettono a disposizione a chi vuoi dare una vita diversa alle cose, facendole rivivere sotto alt re spoglie. Adoperando simili materiali, la scultrice riesce a fondere, con naturale talento e con raro equilibrio, due fasi se non opposte, almeno distinte della fenomenologia creativa: la quotidianità (che è sembra o il motivo trainante della ricerca per i moltissimi anni in cui l’artista s'è imposta ad un pubblico composito mediante operazioni tendenzialmente popartistiche come la già citata pizza napoletana, la frutta, le lische di pesce ed altre manifestazioni della creatività naturale o indotta) ed il mito e l’archetipo, che sono manifestazioni di un concetto che oltrepassa il muro del tempo. E la pizza napoletana è stata reinventata dall’artista dopo vent’anni dalla prima presentazione in galleria: La Panaro accompagna la rinascita di questo antico simbolo della napoletanità con queste parole: «Pizza, sul mare chiaro scuro, pizza indorata di Rosa, venti anni dopo, pizza a metro, rotonda, grande, mignon, margherita, al basilico e pomodoro, al filetto, ai funghi, alle quattro stagioni. Bianca, "nu calzone ‘na pizza sana (intera), tre quarte ‘e pizza, ‘nu muorze ‘e pizza". Mare chiaro, scuro, inquinato, pizza che galleggia, affonda, riemerge, disegna, cancella, scandisce il tempo, inesorabilmente...
Ma a monte di questa e di tutte le altre creazioni della Panaro c’è anche dell’altro. C’è il senso dei precario (chiara allusione alla nostra esistenza di oggi) che si fronteggia con quello del mito, ossia l’aspetto più evidente e più sottilmente espressivo del conflitto tra un aspetto circoscritto dell’esistenza e la tragica fatalità del mito. La scultrice nel più recente affresco plastico con figure, ha voluto armonizzare cronaca e storia, sempre legate da un filo sottile, nella fattispecie mali di sempre e mali contingenti, debolezze accertate e debolezze ipotizzate. Ma la contraddizione finisce per essere soltanto apparente perché la scultrice si serve del mito per diluirlo, per volgarizzarlo, per trasformarlo in materia di racconto popartistico. È evidente che la Panaro, nel desiderio di dare l’immagine di Lilith, un’Eva storica e assieme, un’Eva moderna, che sono poi le due facce della stessa persona. Come ho cercato di far capire, la ricerca di quest’artista tende all’unità attraverso la ricomposizione degli ‘opposti e questa osmosi dei termini dialettici si verifica appieno nella immagine dell’Uroboros che secondo la scultrice rappresenta «un serpente che si morde la coda, quasi un anello senza soluzione di continuità... L’Uroboros, dice l’artista, è lo scorrere del tempo, il fluire degli eventi che, giunti al limite prestabilito, si ripetono identicamente in una scansione ciclica infinita... ». Ce ne sarebbe per lanciare alla Panaro l’accusa di determinismo, di prefabbricazione, di riduttivismo, di tendere ad annullare il libero arbitrio dei personaggi, onde rinchiuderli in un’armatura, che li svuota di ogni possibilità di movimento (mentale) autonomo. Ma così non è perché l’artista si riferisce ad un processo iterativo di carattere biologico e non psicologico, metastorico e non storico. Le immagini plastiche delle varie Lilith e delle «Lune» (altre manifestazioni di una dialettica ricomponibile nell’unità creativa) sono rese dall’artista con grande bravura, nell’esatta formalizzazione dello stato (la precarietà che avvolge le cose umane e nella puntualizzazione accurata di uno stato d’animo.

Metamorfosi di Lilith

Nel ciclo di Uroboros, Eva e Lilith, qui proposto con la cartapesta, che dallo scorcio degli anni Sessanta è il suo «medium» tipico per la scultura (eterodosso, povero, duttile e immediato, subito rispondente a pratiche dell’immaginario collettivo ancestrale popolare campano), Rosa Panaro costruisce figure, presenze, feticci di mitica rispondenza, non tanto però olimpica, quanto antropologica, biblica, relativamente alla genesi come traccia originaria di una condizione d’esistenza.
Si potrà certo ricordare il Vaso di Pandora costruito da Rosa nel 1977, a San Giuseppe Vesuviano, con il Gruppo donne - immagine - creatività. E il nesso con quell’esperienza collettiva è nella tematica di versante femminile, se non proprio femminista, nel senso, come dice Rosa, della «donna riproposta al positivo».
Nell’immagine mitica, esattamente, Rosa riconosce infatti emblematicamente la condizione di metamorfosi costrètta nell’impossibilità, per la donna, di essere se stessa.
L’«imagerie» tipica della cartapesta di Rosa è stata, dallo scorcio degli anni Sessanta, di temi popolari antropologicamente primari, legati al ciclo del quotidiano delle stagioni (la pizza, i frutti, ecc.), in un’ottica di prensibilità immediata e ipertrofica (farsescamente partecipe, e non di ironica distanza). Attraverso l’impegno polemico femminista praticato all’inizio della seconda metà degli anni Settanta nell’ambito appunto del gruppo, vi sono dunque subentrate motivazioni appunto mitiche, apparentemente spiazzanti rispetto a quel riscontro immediato nell’immaginazione quotidiana.
Ma occorre non lasciarsi sfuggire i nessi profondi che legano invece queste distinte esperienze. E sono sia sul versante della dimensione del quotidiano, sia su quello della dimensione del mitico, ma sempre attraverso la determinante dell’ottica della donna.
Se l’immaginazione oggettuale farsescamente ipertrofica, dello scorcio degli anni Sessanta e della prima metà dei Settanta, infatti era legata alla sfera iconica del quotidiano (la pizza, i frutti ecc.), difficilmente si sarebbe tuttavia potuto disconoscere che l’ottica manifestatavisi, con prepotente affermazione di prensibilità icastica, fosse soprattutto femminile, cioè non estranea ad una scelta (oggettuale quanto dimensionale) tipicamente femminile delle mitologie quotidiane. Un quotidiano al femminile, insomma. Un quotidiano attraverso 1’ inerenza, connotativamente determinante, al tema donna.
E così nelle sue stesse azioni, personali, con le quali Rosa ha originalmente percorso la prospettiva di un lavoro estetico direttamente praticato nello spazio sociale (che è il grande motivo nuovo dell’arte degli anni Settanta). Azioni che precedono immediatamente, nel 1975-76, la sua adesione al gruppo. E dico la semina di melograni al Maschio Angioino, e la vendita di pomodori e melograni alla Riviera di Ghiaia.
Di chiaro riferimento emblematico. Il pomodoro frutto primario per eccellenza nell’immaginazione popolare campana (nel riscontro di economia sia ancestrale, sia di attualità sociologica). Il melograno, frutto simbolico di fecondità arcaica pagana quanto cristiana, in Campania (fra l’Heraion del Sele e la Madonna di Capaccio). Un frutto dunque già mitico. Una dimensione mitica del quotidiano, trattato per sempre quotidianamente.
D’altra parte nel mitico attuale Rosa intende una metamorfosi coatta del quotidiano stesso, di riferimento emblematico dunque ad una dimensione della donna propria della nostra realtà quotidiana.
Lilith è Rosa, è la donna, oggi. In ognuna di noi, infatti, mi dice, è Lilith. Quotidiano e mitico in un unico trascorrere di facce della realtà esistenziale, e non invece come contrapposte prospettive. Nessun imbarco per Citera, ma un ficcarsi più profondo nella conflittualità dell’esistenza, e della dimensione espropriata d’autonomia di queta, in un’ottica appunto tutta femminile. E il mitico si motiva allora in emblematica esistenziale.
Ora il mitico, biblico, al di là del quotidiano, ma non appunto come rinuncia a questo, si riconnette alle motivazioni tematico-ironiche, e direi persino in qualche modo linguistiche, delle prime esperienze di scultura di Rosa, all’inizio degli anni Sessanta, allieva del non dimenticato Venditti (e che espose allora in una personale napoletana da Chiurazzi). A quei suoi cementi di animali e mostri grotteschi vagamente mitologici, fra l’immemoriale arcaico e l’incubo infantile, densamente suggestivi nella loro aggressività magica. Il cemento manipolato come materia immediatamente duttile, quanto poi la cartapesta. Ed era un suo modo personale di rispondere alle sollecitazioni del grottesco praticato dal suo maestro, ma con un’attenzione, almeno istintiva, al nodo animistico immaginativamente esplorato da «Cobra», a Napoli appena giunto attraverso la mediazione sopratutto di Baj, e recepito dai giovani (ma meno di Rosa) che si esprimevano, come poetica, in «Documento Sud».
Esistono dunque nessi sottili nei lavoro di Rosa. Anziché brusche cesure, conferme, approfondimenti, in nuovi termini di proposizione. Del resto le sue stesse maggiori suggestioni dai quotidiano all’inizio della seconda metà degli anni Sessanta, erano in iterazioni di figure femminili, quasi processioni mitiche, come in antichi templi.
Dunque il tema donna già all’origine appunto dell’affacciarsi di Rosa al quotidiano. Come del resto la suggestione mitico-magica già all’origine dell’essere stesso scultore, di Rosa (che mi ricorda, fra l’altro, le suggestioni infantili del pipistrello apotropaico usato a Casal di Principe, vicino Aversa).
La cartapesta, ancora, quale «medium» duttile e immediato, quanto appunto lo era il cemento all’inizio. Una materia che, al di là di una ipertrofia dell’oggetto quotidiano, che la portava a sfidare farsescamente (come nella grande memorabile pizza che si vide in Napoli: Situazione 75 a Marigliano, appunto nel 1975) le materie attualistiche e d’artificialità tecnologica di tradizione «pop» e post-«pop» (il «vinil»di Oldenburg, per intenderci, ecc.), oggi nel costruire figure mitiche acquista connotazioni di ritualità, capacità di suggestione magica al livello delle figure «sacre» della mitologia popolare appunto in cartapesta (i «gigli» di Nola, ecc.).
Ma la suggestione magica è qui soltanto ad intensificare la capacità di presa emotiva di un emblema della condizione appunto di metamorfosi forzosa nell’impossibilità, per la donna, di essere autenticamente se stessa. E Lilith è appunto la donna di oggi, costretta ancora a trasformarsi, ad espropriarsi per esistere, ad esistere insomma, vuoi dirci Rosa (che così la celebra), solo trasformata, travestita, trasferita in altra da sé.

Enrico Crispolti

Il desiderio nelle mani

L’agire delle mani, il fare scultura, è per Rosa Panaro come l’agire del desiderio. Il suo fare, il suo fare per immagini induce gli atti oltre il fatto, là dove l’opera resta nell’immaginazione. La scelta di un materiale povero qual è la cartapesta, l’agire con segni di memoria comune, di simbolismi ancestrali ma correnti e corrivi nel vissuto, fa del suo operare, della sua opera, un caduco comporsi che si sottrae al fatto compiuto. Quasi che al darsi dell’opera conclusa subentri il suo darsi perenne per simboli; come se alla fattualità della propria immaginazione sia stata anteposta la vitalità di un immaginario comune che tutto comprende e rigenera.
La Panaro sa che non solo in arte ma nel fare in generale dietro l’agire delle mani vi è il desiderio. Il desiderio nelle mani non sta nell’atto compiuto ma nella necessità
degli atti da compiere, nell’impulso del fare che s’imprime sulle materie. Il suo lavoro, le sue sculture, seguono un fare per immagini, un manipolare di segni e materie su cui si imprimono figure o da cui vengono suscitate col generarsi di forme. Nel conguaglio plastico, il sedimento sul traliccio della carta fa dell’immagine una figura. La realtà dell’immagine fa corpo con la materia, si concretizza nel territorio dei simboli ma è pure realtà quotidiana, oggettualità fisica di segni e figure. Pesci, cozze, pizze, pomodori sono insieme realtà e ingredienti simbolici che prendono corpo nella manipolazione di un fare per immagini. La manipolazione non distingue il fare sulla materia dal generarsi delle forme, così come la tecnica non opera separata dall’intento che la induce alla forma. E per la cartapesta la tecnica è essenzialmente agire con le mani; pungolo di un fare il cui risultato formale è nel desiderio delle mani.
Ha ragione Focillon di dire che noi tutti siamo nel nostro intimo specie di artisti senza mani, ma il carattere proprio dell’artista è d’avere mani, e in lui la forma è sempre alle prese con esse. Il fare scultura della Panaro assimila immaginazione e manualità, in esso gli atti si mostrano rivolti alla suscitazione più che al fissaggio plastico delle forme. Non prive di consistenza il loro assetto teatrale risulta il frutto di un fare che si compromette con la materia, che non riconosce prescrizioni fra abilità e casualità del proprio formare. siano immagini di
«cose povere», come ama chiamare la Panaro i suoi «segni urbani-umani», siano rievocazioni mitiche quali la recente «Lilith», le figurazioni in cartapesta hanno un che di fragile e di effimero che le rende più simili a parvenze e non a solidi oggetti plastici. La loro stessa seduzione, che pure espressivamente esercita su chi le osserva, non è che l’effetto di un coinvolgimento teatrale. L’effetto ossia che ciascuno di noi può provare con il partecipare con la sua immaginazione all’immaginazione di una messa in scena.
Questo fare con le mani, questo fare a sua guisa scultura è dunque un saper congiungere l’agire delle mani alla virtualità delle immagini, un saper convertire la manualità formante dell’artista nel potenziale d’immagini che è in tutti noi. Così nel succedersi delle sembianze di
«Lilith» ora il fare scultura percorre il ciclo immaginario di un mito. Le mani della Panaro cedono ancora al desiderio d’immagine, alloro impulso di fare figura al proprio agire. Non a caso «Lilith» è anche il mito di un desiderio, il primo desiderio di Adamo.

Luigi Paolo Finizio

La messa in scena di Rosa

«Ora a sinistra c’è una serie negativa di simboli, la Madre di morte, la Grande Prostituta, La Strega, il Drago, Moloch; a destra c’è una serie positiva opposta in cui troviamo la madre buona che, come Sophia o la Vergine, partorisce e nutre, conduce alla rinascita e alla salvazione. Là Lilith, qui Maria. Là il rospo, qui la dea; là una palude cruenta e divoratrice, qui l’Eterno Eemminino». Così Neumann descrive nella Grande Madre questo dualismo remotissimo, questo archetipo collettivo, che ogni volta rinasce nella storia individuale come dualismo, scissura, tra la madre buona e la madre cattiva. Mito e processi promari si incontrano ancora una volta e ci tentano con una ipotesi suggestiva, ricorrente come un leit-motiv, l’ipotesi della corrispondenza tra filogenesi e ontogenesi. Il mito, i processi primari, quindi l’arte. Una consecutività plausibile, se pensiamo che l’arte pu6 essere considerata, da un certo punto di vista, proprio come un ritorno del rimosso o, meglio, di ciò che sembra superato e invece continua a vivere dentro di noi. Non vogliamo attribuire all’arte un ruolo privilegiato, ma darle ciò che le appartiene, la capacità, cioè, di compiere uno scandaglio verticale nelle strutture psichiche profonde dell’individuo e di attraversare a ritroso la storia, individuale e collettiva, quasi d’un sol colpo. Per poi ritornare in mezzo a noi con i suoi oggetti bizzarri.
Il mito, l’archetipo di Lilith, la madre, cattiva ha accesso l’immaginazione di Rosa Panaro che ha visto in esso la possibilità di guardare
«il volto sinistro dell’arte», la parte rimossa o superata dal predominio patrilineare della nostra cultura millenaria. In questo, Rosa Panaro si iscrive in quel processo di revisione culturale, o, meglio, di rivoluzione culturale che le donne hanno compiuto e portano avanti lavorando in ambiti disciplinari diversi, tenuti insieme però da una ideologia fondamentale che potremmo definire come l’ideologia del capovolgimento. Giù che era caratterizzato da un segno negativo si trasforma in positivo, quel che era condannato viene ora eletto a modello di comportamento. L’arte moderna ci ha abituati a questi capovolgimenti, rivolgendosi contro una tradizione fortissima e liberandosi dai Greci e dai Romani come ci si libera del Nome del Padre. Ma è stata una rivoluzione anch’essa patrilineare in cui il femminile ha stentato a trovare una collocazione adeguata. Occorreva compiere una rivoluzione dentro la rivoluzione ed è appunto questo che la cultura al femminile ci ha dato oggi.
Lilith è quindi il personaggio dominante nell’opera recente di Rosa Panaro, una figura mitica che si trasforma in un luogo di condensazione di pensieri, emozioni, energie pulsionali e anche di una ideologia. Ma ciò che a noi interessa, qui, è che tutto questo diventa pensiero visivo e immaginazione plastica, traducendosi in figure e in una messa in scena che coinvolgono l’osservatore sul piano concreto del linguaggio. Ancora una volta Rosa Panaro ricorre al suo materiale preferito, la cartapesta, con cui ha celebrato in passato
i fasti e i nefasti dell’ambiente napoletano, colto finanche nei suoi proverbiali aspetti gastronomici: l’artista si è presentata, quindi, finora come una sorta di Oldenuburg napoletano, con una analoga tendenza alla deformazione, alla sottolineatura grottesca, al gigantismo. La tradizione rivive nelle forme della società dei consumi, si trasforma in curiosità turistica e l’artista ne prende atto, senza scandalo e senza rassegnazione, intervenendo con una vena di divertita ironia.
Con questo ciclo dedicato alla figura di Lilith, il registro di Rosa Panaro sembra mutato, l’accento acquista toni più gravi e coinvolgenti, dettati forse dallo stesso tema che impegna l’artista a livelli certamente più profondi. La resa plastica ne risente, nel senso che ora le figure si presentano con una più icastica definizione formale e mettono in movimento una più complessa e articolata catena di rimandi e di associazioni metaforiche. Giù che resta costante nei procedimenti di Panaro è il gusto della messa in scena, la capacità di trasformare le immagini in figure animate, in attori di un evento che è insieme plastico e teatrale. E tutto sommato non manca, mi pare, nemmeno una vena sottile di humour che tempera l’assunto ideologico e lo assume con convinzione, certamente, ma anche con un po’ di salutare distanza.

Filiberto Menna

Parlando con Rosa

Che il tema centrale della mostra sia Lilith appare abbastanza evidente in una sorta di incontro-scontro con la figura di Eva. Ma qual è il filo che lega questi personaggi biblici e comunque femminili con l’Uroboros?
La trilogia ritrova il suo motivo d’essere proprio nel complesso significato che l’Urobos assume nel mito. Rappresentato come un serpente che si morde la coda quasi un anello senza soluzione di continuità, l’Uroboros è lo scorrere del Tempo, i/fluire degli eventi che giunti a/limite prestabilito si ripetono identicamente in una scansione ciclica infinita.

L’Urobos rappresenterebbe in altri termini l’Unità del tutto, ciò che contiene al suo interno, ancora inseparati, la vita e la morte, l’amore e l’odio, l’essere e il divenire; questa figura mitologica esprimerebbe ciò che si nasconde dietro l’apparenza, la vera radice dell’Essere.
Mi pare di poter condividere ciò che dite, a patto di non far diventare questa ricerca un atto di riduzione, di scarnificazione della ricchezza della realtà (che è un procedimento tipicamente maschile); il mio procedere avviene infatti per aggiunzione, attraverso la sovrabbondanza e il riutilizzo.

È dunque il soddisfacimento di queste esigenze che ti conduce all’uso réiterato della cartapesta anche più di ogni altro materiale è suscettibile di continue variazioni?
La produzione artistica è per me una specie di rito che si rinnova, durante il quale dalle stesse pieghe di questo materiale antico, quasi contenesse al suo interno in qualche modo la storia dell’umanità, sembra riaffiorare il mio vissuto, la mia storia particolare. La manipolazione della materia, l’affondare fino in fondo le mani negli oggetti, diviene il momento centrale di questo rito, quasi un momento magico di trasposizione.

Quando è nata in te le necessità di utilizzare per la tua scultura un materiale come la cartapesta?
Anche quando frequentavo l’Accademia provavo un senso di fastidio e di limitazione verso i materiali tradizionali; questi, in particolare il bronzo, non mi consentivano di ‘concludere’ in prima persona gli oggetti. Le resine plastiche, sperimentate negli anni successivi, mi sembrava rispondessero meglio alle richieste della civiltà delle macchine e poco alle esigenze di una donna del sud quale io sono e mi sento profondamente. Al contrario l’uso della cartapesta mi sembra più naturale perché permette di produrre l’opera nella sua interezza annullando quella sensazione di espropriazione che l’uso degli altri materiali reca con sé. Un processo questo che sottintende, d’altra parte, un ‘analoga ricerca rispetto ai soggetti stessi delle mie opere, tutte riconducibili, almeno fino al ‘77, al mondo della natura.

Per quest’ultimo punto, nel dirigere la tua attenzione più in particolare al mondo delle donne, è stata evidentemente determinante la tua partecipazione ai collettivi femministi che, sulla scia e suggestione del più generale movimento andavano sperimentando forme diverse di ‘creatività’.
Più che di ‘creatività ‘parlerei semplicemente di una ricerca di nuove forme di espressione, non penso infatti di poter attribuire esclusivamente alle donne la ‘creatività’. Si è trattato di una ricerca complessa, non senza lacerazioni, fondata com’era sul nostro vissuto per una diversa affermazione della nostra identità di donne.

Il ritorno al lavoro individuale, di cui è frutto questa mostra, esprime anche in te la crisi del femminismo?
Assolutamente no, parlerei piuttosto di una fase diversa: il rapporto con le altre donne e la fase di riflessione che ne é scaturita, è stato per me molto importante e il lavoro individuale in questi ultimi due anni e stato sicuramente profondamente influenzato da ciò che abbiamo pensato insieme.

Ritorniamo un attimo su Lilith. È evidente che rispetto ad Eva rappresentata come albero svuotato, quasi succhiato dall’interno, ricorrendo ad una simbologia fin troppo chiara, questa figura biblica che ha sempre contenuto in sé un significato ambiguo se non perverso ha suscitato molto più il tuo interesse. Ne potresti spiegare le motivazioni?
Mi capitò di leggere, a proposito del mito di Lilith sulle versioni bibliche, un brano in cui Lilith chiede ad Adamo «... perché essere soverchiate da te? Eppure anch’io sono fatta di polvere e quindi sono tua uguale?» Adamo non risponde: la legge divina non ammette mutamenti. E Lilith vola via lontano, verso le sponde del mar Rosso.
È stato forse quest’atto di ribellione, quest’ansia di libertà che mi ha affascinato.

Allora il tuo insistere su questa figura che hai cercato di cogliere e di bloccare in vari momenti dei suo essere fino al totale abbandono degli attributi di cui l’ha caricata il passato, assume per te quasi un valore di atto di esorcismo?
In un certo senso sì. Anche nel mito, a mio parere, Lilith è la donna che vuole essere se stessa pur essendo costretta a nascondersi dietro molte facce. Ecco perché la luna nera o l’altra faccia della luna. Da qui le maschere quando non vuole essere riconosciuta. Ma il mito appartiene al passato; Lilith si spoglia oggi della vecchia pelle per raggiungere la pienezza dell’essere. Certo questo discorso corre il rischio di essere tacciato di rivendicazionismo, ma tale interpretazione sarebbe riduttiva e astorica. Il mio vuole essere un atto di affermazione e non di contrapposizione, dell’avvenuta consapevolezza del «non poter più non essere quel che si fa».

L. Capobianco A. Spinosa


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