La sua maniera d'essere donna e
noi (come è apparsa ad alcuni) l'ideologia del
femminismo, ha guidato la mano di Rosa Panaro, la maggiore scultrice napoletana
del Novecento, nel formalizzare la propria ricerca plastica degli ultimi
trent’anni. In poche parole, la perfetta libertà morale e comportamentale hanno
orientato l’artista nei momenti più difficili, rendendola sempre autonoma e
capace di osservare con occhio obiettivo la realtà. Ospite d’eccezione alla
Biennale del bronzetto di Padova, una manifestazione internazionale che si
ripete da decenni e che è in corso in questi giorni, la scultrice tanto cara ai
napoletani e a molti italiani, ha dato vita, nel suo superiore magistero
plastico, a reinvenzioni assai originali, fosse solo per aver utilizzato, di
volta in volta, i materiali più apparentemente contraddittori, per provenienza e
per formulazione, rendendoli capaci di rappresentare alla perfezione un universo
in continua trasformazione. Autrice, qualche ventennio fa, della famosa opera
«pop» dedicata alla pizza napoletana,. riprodotta poi in serie e presentata con
il più vivo successo in America ed in vari paesi europei, l’artista ha rovistato
in lungo e’in largo le tradizioni della città; e s’è addentrata, con curiosità e
grande senso della ricerca nel mondo del sacro, ossia nella parte più complessa
dell’immaginario storico e fantastico dei napoletani. Tutto ciò dopo aver preso
parte (vestendo sempre i panni dell’artista) agli eventi più importanti della
disputa sul ruolo della donna. E in un momento in cui la nuova condizione
femminile non veniva appieno compresa (la molte delle stesse rappresentanti del
mondo muliebre.
Con la semplicità degli artisti di genio più che con dichiarazioni
programmatiche, Rosa Panaro ha voluto dimostrare che al di là delle tematiche
ideologiche, delle contraddizioni polemiche e della stessa gridata opera di
rimozione di ostacoli secolari, gli avvenimenti degli ultimi anni hanno
dimostrato che sono state le donne medie, consapevoli di mutamenti di portata
storica, a riappropriarsi della propria identità. L’artista vede in positivo la
rivoluzione che (di fatto) ha cambiato i rapporti tra la società femminile ed il
mondo: e chiaramente intravede in ciò non la manifestazione di un porsi, da
parte della donna, come contrapposizione all’uomo nel determinare gli eventi
storici, ma come espressione di una componente dialettica che punta all’unità
culturale ed esistenziale. Sono convinto che, il «riflusso» (vale a dire il
decadere degli entusiasmi dopo qualche battaglia perduta da parte delle donne)
non ha contribuito a far assumere alla scultrice una posizione di supposta
retroguardia. È vero invece che la Panaro, pur non volendo rinunciare al suo
ruolo (esterno) di artista, ha giustamente approvato il nuovo clima instauratosi
sul problema, nel contesto di un processo generale di demistificazione. Certo,
bisogna riconoscere che la scultrice non se l’è sentita di negare la grande
importanza dell’azione svolta dalle femministe al fine di mutare la posizione
della donna nel mondo. Ma chi le può dare torto?
Che la scultrice, della quale recensiamo la mostra in corso a Padova, abbia
avuto trascorsi momentaneamente «femministi», è cosa vera. Ma non per questo si
può asserire che sia stata la molla della lotta per la liberazione della donna a
spingere la Panaro nella propria azione di artista. Raccontiamo i fatti in modo
che il lettore possa farsi un quadro esatto della situazione a monte. Dunque,
nella seconda metà degli anni Settanta, e precisamente nell’aprile del 1977, in
una mostra performance
alla galleria Amelio, una
scultrice ed una pittrice, Rosa Panaro e Mathelda Balatresi e due intellettuali,
Antonietta Casiello e Mimma Sardella, mettevano a fuoco, con una serie di
interventi, un dibattito sulla posizione della donna nella nostra società,
cercando di porre in rilievo come la situazione culturale, sociale e psicologica
del mondo femminile si andasse sempre più aggravando nel paese, dove, ai
pregiudizi antichi, si riteneva si fossero aggiunte ancora più sottili manovre
di emarginazione. Antonietta Casiello, una docente di filosofia, e Mimma
Sardella, allora vicesovrintendente ai Beni artistici di Cosenza, avevano deciso
di riunirsi in gruppo con la Panaro e la pittrice Balatresi, dopo un viaggio
fatto insieme a Venezia per visitare la Biennale d’Arte. Era stato il viaggio
stesso a rappresentare il primo stimolo per una mostra da Amelio, appunto per la
singolare situazione venutasi a creare sul convoglio ferroviario, a causa di
«insopportabili» reazioni e veti, tutti maschilisti. Creata questa forza
contro possibili «aggressioni», le quattro giovani donne artiste affermarono:
«Il nostro gruppo nasce da una situazione oggettiva, e cioè dall’esserci
ritrovate insieme per compiere un viaggio reale, e da una situazione più a monte
e maggiormente significativa, che è quella di essere "donne"
consapevoli del proprio ruolo familiare e sociale, e coscienti di vivere una
crisi che investe tutta la società mettendo in discussione i termini, finora
stabili ed incontrovertibili, in cui ciascuna di noi. o meglio ciascuna donna,
vive i propri rapporti con gli altri e con le istituzioni. Il viaggio compiuto a
Venezia per la visita alla Biennale ha significato per noi in effetti entrare
maggiormente nel nostro specifico; e cioè ha significato, nel nostro ruolo
strettamente professionale far scaturire dalle osservazioni che riguardano
sempre il problema della donna, ma questa volta del come la donna vive la sua
professione e del come affronta il suo lavoro, del come cioè viene accolta
dall'organizzazione maschile della produzione "materiale" (il che significa
"culturale")». Dopo aver dimostrato, attraverso una documentazione
aperta che la Biennale aveva ribadito la situazione di subalternità
della donna (alla mostra veneziana hanno partecipato sei donne e cinquantuno
uomini) le quattro esponenti del «Gruppo XX» affermarono di essere coscienti
fino in fondo che un mutamento della situazione si sarebbe potuto avere solo se
a ciò si fossero impegnate le altre forze sociali direttamente interessate. La
mostra delle quattro operatrici era incentrata quasi completamente sulle
esperienze del viaggio a quattro ed era portata avanti, sotto il profilo
dell’esecuzione artistica, in modo assai semplice. La Balatresi e la Panaro (la
prima con immagini grafiche e pittoriche di tendenza iperrealistica, la seconda
con i suoi originali oggetti) mettevano a fuoco il loro discorso sul rapporto
storicizzato uomo-donna e lo facevano con graffiante ironia. L’intervento era
intitolato (La donna ha il cervello troppo piccolo per l’intelletto e
sufficiente per l’amore... ».
* * *
Ma torniamo al centro della
questione estetica, che è poi quella che più ci interessa. Rosa Panaro assieme
alle resine plastiche, utilizzate fin dai primissimi lavori perché più le
danno la sensazione di produrre l’opera nella, propria interezza mediante il
controllo dei diversi cicli, ha continuato a servirsi per le sue originali
creazioni, di tutti gli ingredienti «poveri» che la natura ed il mondo dei
consumi (ed in qualche caso anche quello dei rifiuti) mettono a disposizione a
chi vuoi dare una vita diversa alle cose, facendole rivivere sotto alt re
spoglie. Adoperando simili materiali, la scultrice riesce a fondere, con
naturale talento e con raro equilibrio, due fasi se non opposte, almeno distinte
della fenomenologia creativa: la quotidianità (che è sembra o il motivo
trainante della ricerca per i moltissimi anni in cui l’artista s'è imposta ad un
pubblico composito mediante operazioni tendenzialmente popartistiche come la già
citata pizza napoletana, la frutta, le lische di pesce ed altre manifestazioni
della creatività naturale o indotta) ed il mito e l’archetipo, che sono
manifestazioni di un concetto che oltrepassa il muro del tempo. E la pizza
napoletana è stata reinventata dall’artista dopo vent’anni dalla prima
presentazione in galleria: La Panaro accompagna la rinascita di questo antico
simbolo della napoletanità con queste parole: «Pizza, sul mare chiaro scuro,
pizza indorata di Rosa, venti anni dopo, pizza a
metro, rotonda, grande, mignon, margherita, al basilico e pomodoro, al filetto,
ai funghi, alle quattro stagioni. Bianca, "nu
calzone ‘na pizza sana (intera), tre quarte ‘e pizza, ‘nu muorze ‘e pizza".
Mare chiaro, scuro,
inquinato,
pizza che galleggia, affonda, riemerge, disegna,
cancella, scandisce il tempo, inesorabilmente...
Ma a monte di questa e di tutte le altre creazioni della Panaro c’è anche
dell’altro. C’è il senso dei precario (chiara allusione alla nostra esistenza di
oggi) che si fronteggia con quello del mito, ossia l’aspetto più evidente e più
sottilmente espressivo del conflitto tra un aspetto circoscritto dell’esistenza
e la tragica fatalità del mito. La scultrice nel più recente affresco plastico
con figure, ha voluto armonizzare cronaca e storia, sempre legate da un filo
sottile, nella fattispecie mali di sempre e mali contingenti, debolezze
accertate e debolezze ipotizzate. Ma la contraddizione finisce per essere
soltanto apparente perché la scultrice si serve del mito per diluirlo, per
volgarizzarlo, per trasformarlo in materia di racconto popartistico. È evidente
che la Panaro, nel desiderio di dare l’immagine di Lilith, un’Eva storica e
assieme, un’Eva moderna, che sono poi le due facce della stessa persona. Come ho
cercato di far capire, la ricerca di quest’artista tende all’unità attraverso la
ricomposizione degli ‘opposti e questa osmosi dei termini dialettici si verifica
appieno nella immagine dell’Uroboros che secondo la scultrice rappresenta «un
serpente che si morde la coda, quasi un anello senza soluzione di continuità...
L’Uroboros, dice l’artista, è lo scorrere del tempo, il fluire degli eventi che,
giunti al limite prestabilito, si ripetono identicamente in una scansione
ciclica infinita... ». Ce ne sarebbe per lanciare alla Panaro l’accusa di
determinismo, di prefabbricazione, di riduttivismo, di tendere ad annullare il
libero arbitrio dei personaggi, onde rinchiuderli in un’armatura, che li
svuota di ogni possibilità di movimento (mentale) autonomo. Ma così non è perché
l’artista si riferisce ad un processo iterativo di carattere biologico e non
psicologico, metastorico e non storico. Le immagini plastiche delle varie Lilith
e delle «Lune» (altre manifestazioni di una dialettica ricomponibile nell’unità
creativa) sono rese dall’artista con grande bravura, nell’esatta formalizzazione
dello stato (la precarietà che avvolge le cose umane e nella puntualizzazione
accurata di uno stato d’animo.
Metamorfosi di Lilith
Nel ciclo di Uroboros, Eva e Lilith, qui proposto con
la cartapesta, che dallo scorcio degli anni Sessanta è il suo «medium»
tipico per la scultura (eterodosso, povero, duttile e immediato, subito
rispondente a pratiche dell’immaginario collettivo ancestrale popolare
campano), Rosa Panaro costruisce figure, presenze, feticci di mitica
rispondenza, non tanto però olimpica, quanto antropologica, biblica,
relativamente alla genesi come traccia originaria di una condizione
d’esistenza.
Si potrà certo ricordare il Vaso di Pandora costruito da Rosa nel 1977, a
San Giuseppe Vesuviano, con il Gruppo donne - immagine - creatività. E il
nesso con quell’esperienza collettiva è nella tematica di versante
femminile, se non proprio femminista, nel senso, come dice Rosa, della
«donna riproposta al positivo».
Nell’immagine mitica, esattamente, Rosa riconosce infatti emblematicamente
la condizione di metamorfosi costrètta nell’impossibilità, per la donna,
di essere se stessa.
L’«imagerie» tipica della cartapesta di Rosa è stata, dallo scorcio degli
anni Sessanta, di temi popolari antropologicamente primari, legati al
ciclo del quotidiano delle stagioni (la pizza, i frutti, ecc.), in
un’ottica di prensibilità immediata e ipertrofica (farsescamente
partecipe, e non di ironica distanza). Attraverso l’impegno polemico
femminista praticato all’inizio della seconda metà degli anni Settanta
nell’ambito appunto del gruppo, vi sono dunque subentrate motivazioni
appunto mitiche, apparentemente spiazzanti rispetto a quel riscontro
immediato nell’immaginazione quotidiana.
Ma occorre non lasciarsi sfuggire i nessi profondi che legano invece
queste distinte esperienze. E sono sia sul versante della dimensione del
quotidiano, sia su quello della dimensione del mitico, ma sempre
attraverso la determinante dell’ottica della donna.
Se l’immaginazione oggettuale farsescamente ipertrofica, dello scorcio
degli anni Sessanta e della prima metà dei Settanta, infatti era legata
alla sfera iconica del quotidiano (la pizza, i frutti ecc.), difficilmente
si sarebbe tuttavia potuto disconoscere che l’ottica manifestatavisi, con
prepotente affermazione di prensibilità icastica, fosse soprattutto
femminile, cioè non estranea ad una scelta (oggettuale quanto
dimensionale) tipicamente femminile delle mitologie quotidiane. Un
quotidiano al femminile, insomma. Un quotidiano attraverso 1’ inerenza,
connotativamente determinante, al tema donna.
E così nelle sue stesse azioni, personali, con le quali Rosa ha
originalmente percorso la prospettiva di un lavoro estetico direttamente
praticato nello spazio sociale (che è il grande motivo nuovo dell’arte
degli anni Settanta). Azioni che precedono immediatamente, nel 1975-76, la
sua adesione al gruppo. E dico la semina di melograni al Maschio Angioino,
e la vendita di pomodori e melograni alla Riviera di Ghiaia.
Di chiaro riferimento emblematico. Il pomodoro frutto primario per
eccellenza nell’immaginazione popolare campana (nel riscontro di economia
sia ancestrale, sia di attualità sociologica). Il melograno, frutto
simbolico di fecondità arcaica pagana quanto cristiana, in Campania (fra
l’Heraion del Sele e la Madonna di Capaccio). Un frutto dunque già mitico.
Una dimensione mitica del quotidiano, trattato per sempre quotidianamente.
D’altra parte nel mitico attuale Rosa intende una metamorfosi coatta del
quotidiano stesso, di riferimento emblematico dunque ad una dimensione
della donna propria della nostra realtà quotidiana.
Lilith è Rosa, è la donna, oggi. In ognuna di noi, infatti, mi dice, è
Lilith. Quotidiano e mitico in un unico trascorrere di facce della realtà
esistenziale, e non invece come contrapposte prospettive. Nessun imbarco
per Citera, ma un ficcarsi più profondo nella conflittualità
dell’esistenza, e della dimensione espropriata d’autonomia di queta, in
un’ottica appunto tutta femminile. E il mitico si motiva allora in
emblematica esistenziale.
Ora il mitico, biblico, al di là del quotidiano, ma non appunto come
rinuncia a questo, si riconnette alle motivazioni tematico-ironiche, e
direi persino in qualche modo linguistiche, delle prime esperienze di
scultura di Rosa, all’inizio degli anni Sessanta, allieva del non
dimenticato Venditti (e che espose allora in una personale napoletana da
Chiurazzi). A quei suoi cementi di animali e mostri grotteschi vagamente
mitologici, fra l’immemoriale arcaico e l’incubo infantile, densamente
suggestivi nella loro aggressività magica. Il cemento manipolato come
materia immediatamente duttile, quanto poi la cartapesta. Ed era un suo
modo personale di rispondere alle sollecitazioni del grottesco praticato
dal suo maestro, ma con un’attenzione, almeno istintiva, al nodo
animistico immaginativamente esplorato da «Cobra», a Napoli appena giunto
attraverso la mediazione sopratutto di Baj, e recepito dai giovani (ma
meno di Rosa) che si esprimevano, come poetica, in «Documento Sud».
Esistono dunque nessi sottili nei lavoro di Rosa. Anziché brusche cesure,
conferme, approfondimenti, in nuovi termini di proposizione. Del resto le
sue stesse maggiori suggestioni dai quotidiano all’inizio della seconda
metà degli anni Sessanta, erano in iterazioni di figure femminili, quasi
processioni mitiche, come in antichi templi.
Dunque il tema donna già all’origine appunto dell’affacciarsi di Rosa al
quotidiano. Come del resto la suggestione mitico-magica già all’origine
dell’essere stesso scultore, di Rosa (che mi ricorda, fra l’altro, le
suggestioni infantili del pipistrello apotropaico usato a Casal di
Principe, vicino Aversa).
La cartapesta, ancora, quale «medium» duttile e immediato, quanto appunto
lo era il cemento all’inizio. Una materia che, al di là di una ipertrofia
dell’oggetto quotidiano, che la portava a sfidare farsescamente (come
nella grande memorabile pizza che si vide in Napoli: Situazione 75 a
Marigliano, appunto nel 1975) le materie
attualistiche e d’artificialità tecnologica di tradizione «pop» e
post-«pop» (il «vinil»di Oldenburg, per intenderci, ecc.), oggi nel
costruire figure mitiche acquista connotazioni di ritualità, capacità di
suggestione magica al livello delle figure «sacre» della mitologia
popolare appunto in cartapesta (i «gigli» di Nola, ecc.).
Ma la suggestione magica è qui soltanto ad intensificare la capacità di
presa emotiva di un emblema della condizione appunto di metamorfosi
forzosa nell’impossibilità, per la donna, di essere autenticamente se
stessa. E Lilith è appunto la donna di oggi, costretta ancora a
trasformarsi, ad espropriarsi per esistere, ad esistere insomma, vuoi
dirci Rosa (che così la celebra), solo trasformata, travestita, trasferita
in altra da sé.
Enrico Crispolti
Il desiderio nelle mani
L’agire delle mani, il fare scultura, è per Rosa Panaro come
l’agire del desiderio. Il suo fare, il suo fare per immagini induce gli atti
oltre il fatto, là dove l’opera resta nell’immaginazione. La scelta di un
materiale povero qual è la cartapesta, l’agire con segni di memoria comune, di
simbolismi ancestrali ma correnti e corrivi nel vissuto, fa del suo operare,
della sua opera, un caduco comporsi che si sottrae al fatto compiuto. Quasi che
al darsi dell’opera conclusa subentri il suo darsi perenne per simboli; come se
alla fattualità della propria immaginazione sia stata anteposta la vitalità di
un immaginario comune che tutto comprende e rigenera.
La Panaro sa che non solo in arte ma nel fare in generale
dietro l’agire delle mani vi è il desiderio. Il desiderio nelle mani non sta
nell’atto compiuto ma nella necessità
Luigi Paolo Finizio
La messa in scena di Rosa
«Ora a sinistra c’è una serie negativa di simboli, la Madre di morte, la Grande Prostituta, La Strega, il Drago, Moloch; a destra c’è una serie positiva opposta in cui troviamo la madre buona che, come Sophia o la Vergine, partorisce e nutre, conduce alla rinascita e alla salvazione. Là Lilith, qui Maria. Là il rospo, qui la dea; là una palude cruenta e divoratrice, qui l’Eterno Eemminino». Così Neumann descrive nella Grande Madre questo dualismo remotissimo, questo archetipo collettivo, che ogni volta rinasce nella storia individuale come dualismo, scissura, tra la madre buona e la madre cattiva. Mito e processi promari si incontrano ancora una volta e ci tentano con una ipotesi suggestiva, ricorrente come un leit-motiv, l’ipotesi della corrispondenza tra filogenesi e ontogenesi. Il mito, i processi primari, quindi l’arte. Una consecutività plausibile, se pensiamo che l’arte pu6 essere considerata, da un certo punto di vista, proprio come un ritorno del rimosso o, meglio, di ciò che sembra superato e invece continua a vivere dentro di noi. Non vogliamo attribuire all’arte un ruolo privilegiato, ma darle ciò che le appartiene, la capacità, cioè, di compiere uno scandaglio verticale nelle strutture psichiche profonde dell’individuo e di attraversare a ritroso la storia, individuale e collettiva, quasi d’un sol colpo. Per poi ritornare in mezzo a noi con i
suoi oggetti bizzarri.Filiberto Menna
Parlando con Rosa
Che il tema centrale della mostra sia Lilith appare
abbastanza evidente in una sorta di incontro-scontro con la figura di Eva. Ma
qual è il filo che lega questi personaggi biblici e comunque femminili con l’Uroboros?
La trilogia ritrova il suo motivo d’essere proprio nel
complesso significato che l’Urobos assume nel mito. Rappresentato come un
serpente che si morde la coda quasi un anello senza soluzione di continuità, l’Uroboros
è lo scorrere del Tempo, i/fluire degli eventi che giunti a/limite prestabilito
si ripetono identicamente in una scansione ciclica infinita.
L’Urobos rappresenterebbe in altri termini l’Unità del tutto,
ciò che contiene al suo interno, ancora inseparati, la vita e la morte, l’amore
e l’odio, l’essere e il divenire; questa figura mitologica esprimerebbe ciò che
si nasconde dietro l’apparenza, la vera radice dell’Essere.
Mi pare di poter condividere ciò che dite, a patto di non far
diventare questa ricerca un atto di riduzione, di scarnificazione della
ricchezza della realtà (che è un procedimento tipicamente maschile); il mio
procedere avviene infatti per aggiunzione, attraverso la sovrabbondanza e il
riutilizzo.
È dunque il soddisfacimento di queste
esigenze che ti conduce all’uso
réiterato della cartapesta anche più di ogni altro materiale è suscettibile di
continue variazioni?
La produzione artistica è per me una specie di rito che si
rinnova, durante il quale dalle stesse pieghe di questo materiale antico, quasi
contenesse al suo interno in qualche modo la storia dell’umanità, sembra
riaffiorare il mio vissuto, la mia storia particolare. La manipolazione della
materia, l’affondare fino in fondo le mani negli oggetti, diviene il momento
centrale di questo rito, quasi un momento magico di trasposizione.
Quando è nata in te le necessità di utilizzare per la tua
scultura un materiale come la cartapesta?
Anche quando frequentavo l’Accademia provavo un senso di
fastidio e di limitazione verso i materiali tradizionali; questi, in particolare
il bronzo, non mi consentivano di ‘concludere’ in prima persona gli oggetti. Le
resine plastiche, sperimentate negli anni successivi, mi sembrava rispondessero
meglio alle richieste della civiltà delle macchine e poco alle esigenze di una
donna del sud quale io sono e mi sento profondamente. Al contrario l’uso della
cartapesta mi sembra più naturale perché permette di produrre l’opera nella sua
interezza annullando quella sensazione di espropriazione che l’uso degli altri
materiali reca con sé. Un processo questo che sottintende, d’altra parte, un
‘analoga ricerca rispetto ai soggetti stessi delle mie opere, tutte
riconducibili, almeno fino al ‘77, al mondo della natura.
Per quest’ultimo punto, nel dirigere la tua attenzione più in
particolare al mondo delle donne, è stata evidentemente determinante la tua
partecipazione ai collettivi femministi che, sulla scia e suggestione del più
generale movimento andavano
sperimentando forme diverse di ‘creatività’.
Più che di ‘creatività ‘parlerei semplicemente di una ricerca
di nuove forme di espressione, non penso infatti di poter attribuire
esclusivamente alle donne la ‘creatività’. Si è trattato di una ricerca
complessa, non senza lacerazioni, fondata com’era sul nostro vissuto per una
diversa affermazione della nostra identità di donne.
Il ritorno al lavoro individuale, di cui è frutto questa
mostra, esprime anche in te la crisi del femminismo?
Assolutamente no, parlerei piuttosto di una fase diversa: il
rapporto con le altre donne e la fase di riflessione che ne é scaturita, è stato
per me molto importante e il lavoro individuale in questi ultimi due anni e
stato sicuramente profondamente influenzato da ciò che abbiamo pensato insieme.
Ritorniamo un attimo su Lilith. È evidente che
rispetto ad Eva rappresentata come albero svuotato, quasi succhiato
dall’interno, ricorrendo ad una simbologia fin troppo chiara, questa figura
biblica che ha sempre contenuto in sé un
significato
ambiguo se non perverso ha suscitato molto più il tuo interesse. Ne potresti
spiegare le motivazioni?
Mi capitò di leggere, a proposito del mito di Lilith sulle
versioni bibliche, un brano in cui Lilith chiede ad Adamo «... perché essere
soverchiate da te? Eppure anch’io sono fatta di polvere e quindi sono tua
uguale?» Adamo non risponde: la legge divina non ammette mutamenti. E Lilith
vola via lontano, verso le sponde del mar Rosso.
È stato forse quest’atto di ribellione,
quest’ansia di libertà che mi ha affascinato.
Allora il tuo insistere su questa figura che hai cercato di
cogliere e di bloccare in vari momenti dei suo essere fino al totale abbandono
degli attributi di cui l’ha caricata il passato, assume per te quasi un valore
di atto di esorcismo?
In un certo senso sì. Anche nel mito, a mio parere, Lilith è
la donna che vuole essere se stessa pur essendo costretta a nascondersi dietro
molte facce. Ecco perché la luna nera o l’altra faccia della luna. Da qui le
maschere quando non vuole essere riconosciuta. Ma il mito appartiene al passato;
Lilith si spoglia oggi della vecchia pelle per raggiungere la pienezza
dell’essere. Certo questo discorso corre il rischio di essere tacciato di
rivendicazionismo, ma tale interpretazione sarebbe riduttiva e astorica. Il mio
vuole essere un atto di affermazione e non di contrapposizione, dell’avvenuta
consapevolezza del «non poter più non essere quel che si fa».
L. Capobianco A. Spinosa
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