SEGNI ARCHETIPI

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Nella differenza, Fermariello è della tempra del Dubuffet dei “valori selvaggi”, fondati sulla coscienza, e conoscenza, antropologica che consente di denunciare la miopia dell’Occidente. Non partecipa, certo della “stima e ammirazione” del maestro francese per quegli stati mentali che noi chiamiamo deliri”1, ancorati, datati, alla congiuntura, anche filosofica, che diede origine all’informale, al suo porsi come autre e che si svilupperà, quella predilezione, nell’anticulturalismo dell’Art brut, fino all’esaltazione dell’ “arte” dei bambini e degli alienati, con una scelta di campo di fatto ideologica (e come tale pur essa datata). Ma come Dubuffet - e si torna al leitmotiv di questa mostra e di queste pagine - nel rivolgersi a simboli e archetipi “primitivi”, Fermariello “aspira a un’arte che sia direttamente innestata nella nostra vita quotidiana, un’arte che parta proprio da questa vita, che della vera vita e dei nostri veri umori sia immediata emanazione”2. Similmente, l’artista napoletano “avverte l’incertezza della ragione e della logica, preferisce affidarsi ad altre strade per arrivare a una conoscenza delle cose” e crede “nel senso molto forte della continuità [...] tra l’uomo e il resto del mondo”, la natura tutta, con ogni suo essere3. Né è dissimile, nei due autori, la fiducia nella “pittura, più concreta delle parole scritte” come “strumento assai più ricco per comunicare ed elaborare il pensiero”4.
Proprio del resto dal radicamento nella contemporaneità, Fermariello deriva caratteristiche peculiari, che danno un senso attuale alla sua inclinazione non archeologica, non esotica nei confronti del mito e della sua formalizzazione archetipa. Anche qui mi pare opportuno affidarmi prima di tutto alle parole dell’autore, che in un testo recente5 parla di un proprio “ostinato consumo di un segno che nel suo proliferare, rischia di collassare e rimanda a un diverso ordine del discorso, a una strada che abbiamo di forza rimosso, per procedere verso la direzione di un controllo totale degli impulsi della natura”, per cui sembra che egli “provochi, che agiti sterilmente simboli, archetipi che l’umanità ha già consumato, superato”. E gli preme quindi “sottolineare il prezzo che l’umanità sta pagando per sostenere il suo costante progresso: l’alienazione di ogni sé del proprio gruppo e da se stesso, ovvero la demonizzazione di ogni aspetto negativo dell’esistente. Abbiamo accettato la logica del sorpasso, della separazione inconciliabile degli opposti”.
“Bisogna perciò”, afferma in un’altra testimonianza, redatta negli ultimi mesi6, “guardare
agli antichi, si farebbe un progresso e non a un presente che riconosce come fantastici solo aspetti positivi, apollinei dell’esistere e così ne limita l’esperienza. E' cosa ben diversa, nell’epoca dell’informazione satura, la profusione quotidiana di catastrofi in tempo reale, il terrore colpevolizzante diffuso via etere, il ‘cosiddetto male’ scongelato dal suo sogno e
offerto caldo sul piatto dello spettacolo. Le ‘fantastiche catastrofi’ di Andy Warhol, gli incidenti stradali, le sedie elettriche commiste alle serie di sorrisi estatici della Marilyn, alle star luminose del cinema (fissate nel fotogramma che precede l’esplosione) ci appartengono solo per cinque minuti, cinque minuti di successo, prima di scomparire nel ‘retrovisore della memoria’ (Baudrillard). Spettatori di nessun evento, saremmo tentati anacronisticamente di rifare la storia; nostalgici di un tempo mitico, ne registriamo la sparizione ma, una volta sparita la realtà, restano soltanto il terrore e il fantastico allo stato puro.
La risposta di Fermariello è ben diversa da quella di Cingolani, che, s’è visto, parte direttamente da quanto lo circonda, per travalicare il contingente, con un linguaggio, aggiungo, ricco di debiti, almeno fino a poco fa, nei confronti dell’imagerie contemporanea, anche povera, quella della pubblicità e dei fumetti. Mentre Fermariello non cerca mediazioni dirette col presente e riprende esplicitamente forme arcaiche. Non tuttavia come scelta solo stilistica, seppur alternativa, ma come conseguenza dell’adesione ai presupposti che quelle forme, solo apparentemente schematiche, motivano e originano. Con un raccordo non meramente estetico che gli consente di non ripetere manieristicamente il già fatto, ma di inventare proprie immagini, più prossime ai modelli antichi nella sostanza che, appunto, nella forma.
È quindi opportuno muovere dai “principi”, dove avviene la scelta di campo “anacronistica”, intenzionalmente “anacronistica” del nostro pittore. E anche qui vale la pena di far parlare direttamente Fermariello, che è tra l’altro teoricamente ben attrezzato, e direttamente informato sulle fonti, affrontate con una metodologia critica stimolata prima di tutto dalla frequenza dei corsi universitari di Scienze naturali e poi maturata da un canto attraverso lo studio di contributi scientifici e i viaggi, dall’altro da un’originale, personale meditazione sui due termini messi a confronto nel tentativo di rispondere a quel presente che, come si diceva all’inizio, aveva fatto scattare l’attenzione per un “primordio” appunto arcaico. Non però per il passato, perché - è un punto fondamentale, da non sottovalutare - ciò a cui Fermariello guarda, quello che fa proprio, non è qualcosa di definitivamente tramontato, da far rivivere, da resuscitare.
E' invece un atteggiamento intellettuale ed etico che continua ancora oggi, in regioni e in culture differenti, giacché - pure questo va considerato - Fermariello non si riferisce esclusivamente agli ideogrammi, e alle immagini, preistoriche o tribali, ma è nutrito delle linfe mediterranee (l’ha opportunamente sottolineato Bonito Oliva)7 e da quelle del lontano Oriente (la filosofia, il comportamento Zen).
L’insofferenza, prima di tutto, per una temporalità che tende a bruciare il passato nel presente e questo stesso nella tensione al futuro lo induce a ricercare "nella coazione ipnotica della ripetizione un veicolo di salvazione (penso, infatti, che solo regredendo potremo fare un passo avanti). Simboli dinamici come il guerriero
[...], oppure il simbolo neotenico dell’uomo prostrato nella posizione più umile, quella di aderire alla terra (larva umana che ha in sé la potenzialità di rompere la crisalide rinascendo in un nuovo essere) sono archetipi che, una volta attivati in un opus alchemico, restituiscono [...] il senso di appartenenza a un destino maggiore, che non ci tradisce e che ci sintonizza con il sé di un gruppo in un unico atto creativo8.
Un tempo non lineare, perciò, e invece circolare, che quindi comporta ritorni ciclici e persistenze attive: "Rituale come mestolo del tempo, il tempo del mito, che ci conduce dove già siamo, e ci fa intravedere l’ambivalenza dell’essere nella sua impossibilità di venire colto in maniera univoca. L’arte ha questa capacità, ed è il suo compito mantenere aperta la ferita"9. Ed è in siffatta dimensione di continuità, ma non di progresso, "come nella struttura della tragedia, dove l’eroe muore e minaccia di tornare" che "le immagini evocate (immagini di threnos funerari, donne in corteo, cavalieri in marcia) sono riprese nell’intento di far riemergere il rimosso e portare in superficie un passato non risolto". Ecco il manifestarsi dell’inconscio collettivo, oltre che nella dinamica della psiche, nel simbolismo del mito e dei riti, pur essi fissati in quei tempi lunghi e perciò inconciliabili con "i riti e i miti", mutevoli e dominati da una logica esterna, del nostro tempo.
E siamo alle forme, appunto archetipali, in cui il mito si concreta nelle opere di Fermariello: con una sua evoluzione, oltre che con l’originalità di cui si è detto. E s’è dapprima trattato di iterazioni segniche antropomorfe molto schematiche che invadevano totalmente le superfici, secondo un horror vacui primitivo (Senza titolo, del 1989, tra i dipinti in mostra), che ha poi allargato le sue maglie, consentendo una diversa, pausata sospensione degli ideogrammi, come nei Guerrieri del 1993, qui presentati e già esposti in quell’anno nella Biennale di Venezia. Quella sospensione, probabilmente, che ha fatto avvicinare alle "forchette" di Capogrossi i segni di Fermariello, che ne ha trattato nel testo Il cerchio rituale ovvero "il circolo vizioso", del 1984, cui già ci siamo riferiti, e che integralmente ripubblichiamo in questo catalogo.
In quella nota ci sono osservazioni utili all’accostamento anche di certe occlusive "scritture" di Fermariello, quando si sottolinea come "un linguaggio formato dalla ripetizione ossessiva di un unico segno non trasmette informazione, la sospende. Diventa dunque un metalinguaggio, impossibile da decodificare [...]. L’equivalenza di ogni sintagma produce un apparente annullamento di senso, e tuttavia, proprio la qualità di questo sintagma, la sua valenza arcaica, antropocentrica, fa emergere una comunicazione primordiale che affonda le radici nel nostro bagaglio collettivo"10.
Differente il discorso da fare per le Lamentazioni, del 1993, anch’esse esposte in questa mostra di Como e pure presentate nella citata Biennale di Venezia. La figurazione, dislocata in sequenza ripetitiva, ritmica, si ricollega all’arte greca preclassica ed è dipinta su di una superficie "a ventaglio", cosicché, con lo spostarsi dello spettatore, l’immagine si modifica, permettendo di vedere solo i personaggi che si lamentano, da due angolazioni, e dalla terza la figura del defunto, orizzontale, tra due altre figure sedute, che nella positura delle braccia ripetono il gesto dei lamentatori. "L’esigenza di spiritualità che l’opera manifesta", evidenzia Demetrio Paparoni nel catalogo della Biennale,"11 "la pone al di fuori del tempo e dunque da ogni concetto di attualità. L’uso dell’ideogramma si rifà esplicitamente agli albori della civiltà e si esprime dunque nella sua natura di semplice segno pittografico. Nello stesso tempo Fermariello carica la lettura dell’ideogramma di implicazioni personali: ponendo alla sua base la volontà di regressione, riconduce il segno a quella sfera dell’infanzia in cui il senso delle cose è ancora sospeso tra il mostrarsi e il significato di ciò che è mostrato. Per altro verso questa ricerca lo porta a indagare sul senso poetico del linguaggio, avvicinandolo a quella stessa fase di riflessione cara ad Heidegger nell’evoluzione finale del suo pensiero". "La lamentazione funeraria", conclude Paparoni, "chiama a sé una lettura poetica che sappia riconoscere il potere evocativo dell’immagine archetipa: è il marciare della specie umana per milioni e milioni di anni, è il senso del cammino come trasformazione, come trasmutazione".
Sempre nel 1993 Fermariello dà un’altra prova del desiderio di rendere meno immobile il proprio lavoro in un mosaico collocato a terra in una sala della Prima mostra di arte contemporanea nella Fiera di Pordenone. Ne discorre egli stesso con Roberto Pinto:12  "Ho lavorato sulla memoria della rappresentazione [...]. Con questo mosaico a terra vorrei evidenziare che l’importante non è riempire lo spazio ma creare una dimensione dove vivere che permetta che le cose poi possano esistere." Mettendo il mosaico sul pavimento, non appendendolo alla parete, Fermariello vuole attuare "una sorta di slittamento con un non rispondere a quello che ci aspettiamo. Siamo impegnati a percorrere il quadro, oppure ad avvicinarci per leggere il particolare, questo richiede una cerimonia, questo è un percorso, una stanza che deve essere visitata come uno scavo di Pompei, come un riemergere della memoria che spesso calpestiamo". Quindi "il quadro non come un sogno, ma come una macchina per sognare, una macchina per creare spazi". E aggiunge un richiamo alla "coerenza" nel "mestiere", che non è senza significato, sul registro operativo da lui scelto, che appunto comportava siffatto accanimento febrile, in un rapporto dell’autore col fare e con il suo prodotto.
Si giunge così ai frutti degli ultimi due anni, in gran parte realizzati proprio per questa occasione. Si tratta di opere - ovviamente, dati i presupposti di poetica - strettamente connesse al prima, ma con novità iconografiche non irrilevanti. A cominciare dall’apparire di silhouettes a rilievo, in stucco, di figure prone, in atteggiamento orante, o di prostrazione adorante (si veda in mostra Falco, del 1995), disposte con regolarità sulla tavola, e con una certa eleganza, nonostante l’ombra allarmante del rapace, pur esso stilizzato, che incombe sulle figure, però come araldicamente smaterializzato, con effetti di arcana ritualità.
Di nuovo attraverso stucchi a rilievo su tavola, ma con l’interferenza di pittogrammi sovrapposti, è poi creata una situazione sospesa e misteriosa, e come lontanante, per le stesse notevoli dimensioni (230 x 230 cm), in Psyche, cui fa da pendant un analogo pannello, simile nella tecnica, ma felicemente innovativo nell’immagine di un Homo Necans che con l’arco è inserito in una fascia che attraversa la superficie in diagonale con animali. Dove si ripropone il senso dell’eleganza del segno e dell’effetto cromatico, come del resto nelle altre realizzazioni più recenti. Con la conseguenza di offrire delle evocazioni come proiettate, nonostante gli aggetti, o come sognate, in una spazialità sedimentata, in cui le figurazioni appaiono quasi incastonate, anche quando, come in Homo Necans, sono colte in positure dinamiche. Forse, anche, per un nuovo rapporto di Fermariello con il suo lavoro, oltre la condizione nevrotica pur denunciata nel testo Opus Alchemico redatto solo qualche mese fa, di cui s’è detto.

1. J. Dubuffet, Posizioni anticulturali, in J. Dubuffet, I valori selvaggi. Prospectus e altri scritti, a cura di R. Barilli, Feltrinelli, Milano 1971, p.77.
2. Ibidem.
3. Ibidem.
4. Ibidem, p79.
5. S. Fermariello, Opus Alchemico, In Arco,Torino 1995, s.p.; ripubblicato integralmente in appendice a questa sezione del catalogo.
6. S. Fermariello, Fantastico mitico, "Tema Celeste", n.55, inverno 1995, p. 6l; ripubblicato integralmente in appendice a questa sezione dei catalogo.
7. A. Bonito Oliva, Modulo Modulare Modulato, in Sergio Fermariello, Il laboratorio/Le edizioni, Nola 1995, s.p.
8. S. Fermariello, Opus Alchemico, cit.
9. S. Fermariello, Il cerchio virtuale ovvero "Il circolo vizioso", In Arco, Torino 1995, p. 41; ripubblicato integralmente in appendice a questa sezione del catalogo.
10. Ibidem.
11. D. Paparoni, Sergio Fermariello, in XLV Esposizione Internazionale d’arte. Punti cardinali dell’arte, catalogo Marsilio, Venezia 1993, p. 74.
12. R. Pinto, Sergio Fermariello, "Flash Art Dayly", inserto Biennale, Venezia giugno 1993, s.p.

Tratto da: Luciano Caramel - Mitologie e Archetipi - Skira Editore
 

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Le Opere e il Silenzio
Conversazione tra Sergio Fermariello e Ludovico Pratesi

I piccoli uomini neri corrono sulla tela. Un’armata di segni invade la superficie bianca, inghiotte in un vortice di lance, scudi, elmi, braccia. Sono i "Guerrieri" di Sergio Fermariello personaggi provenienti da riti primitivi che si impadroniscono del presente, per dare vi ad un’arte che utilizza un patrimonio antichissimo, denso di simboli e archetipi misteriosi, per trasformarlo in un linguaggio estremamente attuale. Una ricerca essenziale, che predilige il dialogo tra bianco e nero, luce ed ombra, per raccontare una storia arcaica, dove segno grafico si apparenta all’alfabeto della prima infanzia, e nel contempo alla figurazione veloce del graffito americano. Ma Fermariello ci tiene a mantenere le giuste distanze non guarda a Keith Haring, ma alla mitologia classica. Il suo mondo non è quello delle subway newyorchesi, ma i versi immortali della tragedia greca, magari rivissuta da Nietzsche. Non vuole che le sue immagini vengano consumate rapidamente, ma chiede all’osservatore di partecipare con una pausa di riflessione, per entrare davvero nel cuoi dell’opera, lì dove si annidano i significati più reconditi. Ed è significativo, a questo proposito, il passaggio dal ciclo dei "guerrieri" alle opere più recenti, che vengono presentate oggi per la prima volta. Qui il segno si fa rarefatto, diventa archetipo di se stesso, e il rapporto con l’attualità è reso più evidente dall’uso del materiale in cui viene bloccata l’immagine. Come nella filosofia zen, l’opera è il bersaglio che viene colpito dalla freccia ancora prima che venga scoccata dall’arco. Non più tautologia, ma necessità. L’opera si impadronisce del significato, lo fa suo. Il senso diventa l’essenza del lavoro, che non ha più bisogno di presentarsi come moltitudine, ma vive come unità. Al di là delle interpretazioni possibili, è or che siano le parole dell’artista a guidarvi oltre. Oltre ci sono soltanto le opere e il silenzio.

Ludovico Pratesi: In questa mostra hai scelto di presentare una serie di nuovi lavori, lega ti alla filosofia zen. Appartengono ad una nuova evoluzione della tua poetica?
Sergio Fermariello: Alla base di questa serie di lavori c’è il desiderio di confrontare tra loro materiali differenti. Il ruvido incontra il levigato, la porosità dell’esistenza si confronta con la superficie liscia, leggera e piacevole al tatto. Così queste opere propongono immagini antiche viste con uno sguardo contemporaneo.

L.P.: In che modo?
S.F.: Con la ricerca dell’autenticità delle forme. Ho recuperato la ruota, archetipo delle civiltà primitive, e l’ho resa attuale utilizzando un materiale contemporaneo. Nelle mi opere emerge ciò che è sempre stato e ritorna. Ciò che è antico si dimostra attuale e ciò che è contemporaneo si rivela antico.

L.P.: Il rapporto con le filosofie orientali era presente anche nelle tue opere precedenti, i "Guerrieri"?
S.F.: Si. Con la figura del guerriero ho sviluppato una sorta di scrittura ideogrammatica. Come il monaco zen coltiva un giardino con la sabbia, io coltivo il segno. Faccio mia l’espressione di un filosofo tedesco quando dice: "noi dobbiamo andare dove già siamo, io coltivo il medesimo affinché mi porti dove già sono" (Heidegger). E questa la coltivazione. Nel mio lavoro voglio andare dove già sono.

L.P.: Dunque il guerriero non è un’immagine, ma un segno.
S.F.: E' un ideogramma che evoca una struttura aperta. L’insieme dei guerrieri crea una visione abitata da una moltitudine, come avviene per gli oggetti, che sono composti da miliardi di molecole, ma un mio lavoro sarà sempre un frammento di una struttura che si presuppone aperta.
Con le mie opere si evoca una presenza-assenza: un lavoro come "Terraemotus" è una sorta di sacrario, come l’angolo dei Lari nelle case degli antichi romani.

L.P.: I tuoi dipinti sono animati dal rapporto che si instaura tra l’elemento singolo e l’insieme?
S.F.: Proprio così. Oggi si parla molto della reificazione dell’arte, secondo un processo reso universale dalla Pop Art. Per me ogni oggetto è la somma di tutto ciò che lo ha attraversato, di tutte le persone care che lo hanno toccato. La sua infinita storia vi aggiunge ulteriore significato.

Tratto da: "SERGIO FERMARIELLO - LAVORI 1990-1997"
Istituto Italiano di Cultura - Kòln
Lucio Amelio - Napoli