BIOGRAFIA
Sergio Fermariello è nato a Napoli il 29aprile 1961. Vive e lavora a Napoli.
Mostre personali
1989 Galleria
Protiron, Spalato.
Galleria Lucio Amelio, Napoli.
1990 Galleria Il Capricorno, Venezia.
Galeria Albrecht, Monaco di
Baviera.
1991 Galleria Lucio Amelio, Napoli.
1992 Galleria Yvonne
Lambert, Parigi.
Galleria
Il Capricorno, Venezia.
La
Commedia dell’Arte, Galleria Lucio Amelio, Napoli.
1993 XLV Esposizione
Internazionale d’Arte Biennale di Venezia,
Sala personale Padiglione
Italia, Venezia.
Galleria
Il Capricorno, Venezia.
1995 Opus Alchemico, Galleria In
Arco, Torino.
Opificio d’Arte
Contemporanea, Benevento.
Sergio Tossi Arte
Contemporanea, Prato.
1996 ContemporaneaComo
2, Villa Olmo, Como.
Homo
necans, Galleria Lucio Amelio, Napoli.
1997 Sergio
Fermariello. Lavori 1990-1997,
Istituto
Italiano di Cultura, Colonia.
1999 Istallazione: Avviso ai Naviganti - Castel dell'Ovo, Napoli.
1999 Galleria Jan Wagner -
Berlin.
2000 Galleria Ronchini - Terni.
2000 Galleria Scognamiglio & Teano - Napoli
Principali mostre collettive
1989 Giovani artisti
italiani. Primo Premio Saatchi & Saatchi,
Palazzo
delle Stelline, Milano.
Tre
vincitori del premio Saatchi & Saatchi, Sala I, Roma.
Regina
Blu, Frac, Marsiglia.
1990 Galleria Massimo
Mmmi, Brescia.
30°
Anniversario, Fondazione Peter Stuyvesant, Amsterdam.
1991 Magico primario,
Galleria Comunale A. Bonzaghi, Cento.
Metropolis,
Martin/Gropius/Bau, Berlino.
AnniNovanta, Galleria
Comunale d’Arte Moderna, Bologna.
Intercity
Tre, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia.
1993 Cadencias, Museo d'Arte Contemporaneo Sofìa Imber,
Caracas / Museo MAM, Bogotà.
Centro Culturale Recoleta, Buenos Aires.
Les
Pictographes. L’estliétique de l’icòne au XXème siècle,
Musée
de l’Abbaye Saint-Croix, Les Sables d’Olonne, Francia.
III
Biennale Internazionale d’Arte, Eczacibasi Art Museum, Instanbul.
Terraemotus,
Palazzo Reale, Caserta.
1993 Ecbatana. Immagini e
scritture da una città invisibile,
Associazione
Dìoce, Torino.
Profil dun Galerie,
L.A.G., Sigean, Francia.
Emergenze
’93, Galleria Civica d’Arte Contemporanea, Trento.
La
linea dell’immagine. Carte di pittura italiana,
Associazione
Culturale Piano Nobile, Ceppaloni.
Del
mistero della terra, Casina Vanvitelliana, Bacoli.
1994 Il circolo vizioso. Bresciani,
Castellano, Fermariello,
Galleria
In Arco, Torino.
1995 Elogio della bugia,
Galleria Mazzocchi, Parma.
Un cuore per amico,
Palazzo della Triennale, Milano.
Dodici pittori italiani,
Spazio Herno, Torino.
1996 Immagini italiane,
Medienmeile am Hafen, Dusseldorf -
Dumont Kunsthalle, Colonia.
Il nibbio di Leonardo,
Palazzo Pio, Carpi.
Antologia, Trevi
Flash Art Museum, Trevi.
XII Quadriennale d’Arte di
Roma «Ultime generazioni»,
Palazzo delle Esposizioni,
Roma.
1997 Galleria Civica, Siracusa.
Il giardino dei segni,
Galleria Alberto Valerio, Brescia.
Terrae Motus, Artissima,
Lingotto, Torino.
1998 Novecento Nudo, Museo del
Risorgimento, Roma.
Quels dessins?, Cloitre
des Cordeliers, Tarascon, Francia.
Mito velocità, Galleria
d’Arte Moderna e Contemporanea, San Marino.
Opera in nero. Zorio, Nunzio,
Fermariello, Rasma,
Galleria Civica di Arte
Contemporanea, San Martino Valle Caudina.
Tracce significanti.
Arte italiana oggi, The J. F. Costopoulos
Foundation, Atene.
1999 Arte moltiplicata,
Pinacoteca Comunale, Bagnocavallo.
1999 Sulla Pittura - Artisti italiani sotto i 40 anni - Città di
Conegliano (TV).
2000 Arte in Giro - Ex Mattatoio, Roma
2000 Napoli/Weimar - Casina
Pompeiana, Napoli
2001 "in riva al mare mai stanco" Odissea Berlino
Napoli - Casina
Pompeiana, Napoli
2001 Conversation/s
- Provence-Alpes-Còte d'Azur
Premi
1986 XIV Premio Diomira, Cassina
(Milano).
1989 Premio Saatchi & Saatchi, Milano.
a cura di Federica Guida
Tratto da: "Avviso
ai naviganti" - 1999 Umberto Allemandi & C., Torino
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Sergio Fermariello, Opus Alchemico, Galleria
In Arco, Torino 1995
Sergio Fermariello, Il cerchio rituale ovvero "il circolo vizioso",
Galleria In Arco, Torino gennaio 1994
Cataloghi e saggi monografici
Demetrio Paparoni, Astratta, in
"Catalogo della XLV Biennale di Venezia", Marsilio Editore, Venezia
1993
Gaia Salvatori, Le forze elementari, in "Arte Foyer", marzo
1993
Elio Cappuccio, Sergio Fermariello, in "Tema Celeste", n. 40,
primavera 1993
Sergio Fermariello, in
"Class", n. 8, 1995
Achille Bonito Oliva, Modulo modulare modulato, in "Sergio
Fermariello", Edizioni Il Laboratorio, Nola 1995
Alberto Fiz, Il cortocircuito del linguaggio, in "Opus
Alchemico", Galleria In Arco, Torino 1995
Libri e cataloghi di mostre collettive
Phoebe Tait, Premio Saatchi &
Saatchi, Milano gennaio 1989
Christos Yoachimides, Norman Rosenthal, Metropolis, Martin Gropius Bau,
Berlino 1991
Flavio Caroli, Magico primario. Una revisione, Galleria d’Arte Moderna,
Comune di Cento, Cento marzo 1991
Renato Barilli, Anni Novanta, Galleria d’Arte Moderna, Bologna,
Mondadori, Milano 1991
Danilo Eccher, Emergenze ‘93, Galleria Civica d’Arte Contemporanea,
Trento 1993
Luciano Caramel, Contemporanea Como 2. Mitologie e Archetipi. Mirko, Afro,
Halley, Cingolani, Fermariello, Skira, Milano 1996
Ludovico Pratesi, Immagini Italiane, Medienmeile am Hafen Dusseldorf,
Dumont Kunsthalle Kòln, 1996
Articoli su quotidiani e periodici
Marco Pastonesi, Il gran premio
dell’arte scova mille giovani artisti, in "La Repubblica",
Milano 19 gennaio 1989
Ludovico Pratesi, in "La Repubblica", Milano 29 marzo 1989
Gabriella Grasso, in "Tema Celeste", n. 19, Siracusa aprile-maggio
1989
Mario Cappelletti, in "Proposte", marzo-aprile 1989
Gregorio Magnani, in "Arts Magazine", aprile 1989
Paolo Balmas, in "Paese Sera", 26 aprile 1989
Angelo Trimarco, in "Il Mattino", Napoli 14 novembre 1989
Carolyn Christov Bakargiev, in "Il Sole 24 Ore", Milano marzo 1989
Philippe Piguet, in "Art Press", gennaio 1990
Gabriele Perretta, Segnali da Napoli, in "Flash Art", n. 158,
ottobre-novembre 1990
Mauro Panzera, in "Tema Celeste", n. 26, luglio-ottobre 1990
Angelo Trimarco, in "Art Forum", maggio 1991
Alberto Arbasino, in "Venerdì di Repubblica", Milano aprile 1991
Michele Buonuomo, in "Napoli e Dintorni", n. 23, Lucio Amelio, Napoli
gennaio 1991
Angelo Trimarco, in "Il Mattino", Napoli 5 giugno 1992
Franco Mollica, Sergio Fermariello, in "Tema Celeste", n.
37-38, autunno 1992
Marilena Balbi, in "Economia Hoy", Caracas, 29 gennaio 1992
G. Anna Maria Hernandez, in "El Nuovo Pais", Caracas 3 febbraio 1992
Simona Barucco, in "Juliet", n. 60, Trieste, dicembre-gennaio 1993
Roberto Pinto, in "Flash Ari Daily", (inserto Biennale), Venezia
giugno 1993
Chiara Bertola, in "Flash Ari", Milano dicembre 1993
Chiara Bertola, in "Flash Ari International", marzo-aprile 1994
Paolo Levi, in "L’Europeo", 10-16 marzo 1994
Antonella Maffei, in "La Repubblica", Napoli 18 febbraio 1995
Stella Cervasio, in "La Repubblica", Napoli 30 marzo 1995
Franco Mollica, in "Tema Celeste", n. 52, estate 1995
Giovanna Massoni, in "Il Giornale dell’Arte", Torino marzo 1996
a cura di Federica Guida
Tratto da: "SERGIO
FERMARIELLO" - 1997 Istituto
Italiano di Cultura - Kòln
Opus Alchemico
È sempre la stessa
storia, cambiano i procedimenti formali, le tecniche, ma il pensiero, come il
lavoro, deve rigorosamente girare attorno al proprio asse. È della ripetizione,
dunque, che bisognerà accennare. Nel lavoro che qui presento sono cambiati
alcuni aspetti formali (una percezione tridimensionale della tavola, da
bassorilievo antico, dovuta all’uso di reiterate forme in stucco); ciò che
non cambia è l’ostinato consumo di un segno che, nel suo proliferare, rischia
di collassare e rimanda ad un diverso ordine del discorso, ad una strada che
abbiamo di forza rimosso, per procedere verso la direzione di un controllo
totale degli impulsi e della natura.
Sembra dunque che io provochi, che agiti sterilmente simboli, archetipi che
l’umanità già ha consumato, superato.
Il discorso ci porterebbe lontano, ma ciò che mi preme sottolineare è il
prezzo che l’umanità sta pagando per sostenere il suo costante progresso:
l’alienazione di ogni sé dal proprio gruppo e da se stesso, ovvero, la
demonizzazione di ogni aspetto negativo dell’esistente. Abbiamo accettato la
logica del sorpasso, della separazione inconciliabile degli opposti.
A questa mi dichiaro malato; come nevrotico ricerco nella coazione ipnotica
della ripetizione un veicolo di salvazione (penso, infatti, che solo regredendo
potremo fare un passo avanti).
Simboli dinamici come il guerriero, fragile cavaliere errante che ha in sé il
potere di distruggere come quello di salvare, oppure il simbolo neotenico
dell’uomo prostrato nella posizione più umile, quella di aderire alla terra
(larva umana che ha in sé la potenzialità di rompere la crisalide rinascendo
in un nuovo essere) sono archetipi che, una volta attivati in un opus
alchemico, restituiscono (nella forza come nella debolezza) il senso di
appartenenza ad un destino maggiore, che non ci tradisce e che ci sintonizza con
il sé di gruppo in un unico atto creativo. (Galleria
In Arco, Torino 1995.)
Intervista
Qual è l'idea
guida per la tua installazione?
Ho lavorato sulla memoria
della rappresentazione, come faccio ormai da qualche anno. Con questo mosaico
a terra vorrei evidenziare che l’importante non è riempire lo spazio ma
creare una dimensione dove vivere che permetta che le cose poi possano
esistere. Il quando non deve essere un punto di arrivo ma la maniera di
instaurare un rapporto con l’ambiente.
Quindi il presupposto
era di rendere il quadro tridimensionale?
Era un modo per eludere, è
una sorta di slittamento. C’è un’evanescenza, un non rispondere a quello
che ci aspettiamo. Siamo impegnati a percorrere il quadro, oppure ad
avvicinarci per leggere il particolare, questo richiede una cerimonia, questo
è un percorso, una stanza che deve essere visitata come uno scavo di Pompei,
come un riemergere della memoria che spesso calpestiamo.
O forse
dimentichiamo...
Dimentichiamo, copriamo di
cenere, voglio dire che questo mosaico pompeiano è anche un braciere
giapponese, che veniva messo al centro e sotto alla cenere fredda celava
sempre una brace calda. La cenere serve anche a preservare un calore
sotterraneo quindi il nostro compito è anche quello di riscoprire questi
valori caldi. Un legame con la fonte istintiva, la morte che non deve essere
rimossa.., gli istinti di caccia, diciamo che questi sono gli elementi che ho
elaborato in questi anni, che hanno un legame con le esigenze naturali, mi
piace immaginarlo in una dimensione in bianco e nero, come se fosse giapponese
o pompeiano, dove all’esterno ci siano dei giardini di riposo, di pace e di
tranquillità. L’opera d’arte ama aprire un orizzonte, il quadro non come
un sogno ma come una macchina per sognare, una macchina per creare spazi,
prima avevamo parlato della stanza come possibilità non tanto per inserire il
quadro; ma il quadro come possibilità di immaginare stanze.
E rispetto a
quello che hai visitato già, a quello che gira intorno?
Si può osservare un ritorno
ad una certa coerenza nel fare arte. Voglio dire che quando ci sono dei
movimenti negativi, questi sono sempre dei momenti di crescita, e quindi
voglio dire quando c’è una riduzione all’essenziale, una crisi, proprio
anche di mercato, sono strozzature che portano ad una presa di posizione
partigiana, cioè o sei da una parte o dall’altra, questo per me è
positivo, c’è appunto più coerenza...
Nell’esplicitare
se stessi?
No, più coerenza
nell’essere mestiere. Fare questo lavoro come un mestiere, non come qualcosa
che può essere improvvisato. Mi piace tutto ciò che nell’antichità è
stato... trovo che nell’antichità ci siano molti elementi attuali che noi
abbiamo dimenticato con una finta immagine di progresso, ed è stato spesso
uno strumento che ci ha portato a regredire, non ci ha portato dei
miglioramenti. C’è una frase molto bella di Rilke, che a proposito delle
macchine diceva: se ci devono essere è bene che lavorino, devono servire,
dobbiamo essere noi i padroni della tecnica, non dobbiamo essere noi schiavi
della tecnica, spesso ci facciamo sommergere, come se fossero dei fìni e non
degli strumenti. Lo status symbol degli oggetti di cui noi ci circondiamo è
proprio il capovolgimento del fine con il mezzo, non ci servono per comunicare
o spostarci, ma a volte proprio come fini da raggiungere che poi ci portano
alla paralisi. Invece di rappresentare la realtà per le brutture e lo
sconforto che ci può dare dovremmo immaginare degli orizzonti, perché il
compito dell’artista è quello di creare motivi e aperture, non dico miti,
ma delle prospettive anche di sogno, anche di cose che non esistono. Quante
volte negli anni Ottanta abbiamo visto il feticcio di ciò a cui
quotidianamente assistiamo. (A cura di Roberto Finto, "Elash Art Daily",
inserto Biennale, Venezia giugno 1993.)
Il cerchio rituale ovvero "Il circolo vizioso"
Un’osservazione:
mi piacerebbe sgombrare il campo da alcuni equivoci che potrebbero nascere
nell’accostarsi al mio lavoro. Spesso si associa il segno
"guerriero" all’elegante "forchetta" di Capogrossi;
segno di matrice arcaica, ripetuto nello spazio, teso a riorganizzarlo. In
Capogrossi lo scambio dei simboli, la loro combinazione ritmica, rimanda ad
un codice genetico segreto, alle sue
infinite possibilità di trasmettere informazioni ed eventualmente mutazioni
creative. Il guerriero parte quando questo spazio già è stato colmato,
saturato. La matrice del quadro è semplice, formata da un’unica identità
ripetuta, un’eco che non ripete che se stessa.
Facciamo un esempio: apriamo un giornale, le ventuno lettere nelle loro
possibilità combinatorie ci offrono la lettura del mondo, lo decifrano;
viceversa, un linguaggio formato dalla ripetizione ossessiva di un unico segno
non trasmette informazione, la sospende. Diventa dunque un metalinguaggio,
impossibile da decodifìcare e che ricorda un testo di Borges sulla crudeltà
del deserto come labirinto. L’equivalenza di ogni sintagma produce un
apparente annullamento di senso, e tuttavia, proprio la qualità di questo
sintagma, la sua valenza arcaica, antropocentrica, fa emergere una
comunicazione primordiale che affonda le radici nel nostro bagaglio
collettivo.
Come nella struttura della tragedia, dove l’eroe muore e minaccia di
tornare, così le immagini evocate (immagini di threnos funerari, donne
in corteo, cavalieri in marcia) sono riprese nell’intento di far riemergere
il rimosso e portare in superficie un passato non risolto. Rituale come
mestolo del tempo; il tempo del mito, che ci conduce dove già siamo, e ci fa
intravedere l’ambivalenza dell’essere nella sua impossibilità di venire
colto in maniera univoca. L’arte ha questa capacità, ed è il suo compito
mantenere aperta la ferita. (Galleria
In Arco, Torino gennaio 1994.)
Fantastico mitico
Spettatori di nessun evento, saremmo tentati anacronisticamente di rifare la storia. Ancorati alle memorie, nostalgici di un tempo mitico, ne registriamo la sparizione ma, una volta sparita la realtà, restano soltanto il terrore e il fantastico allo stato puro.
"Nessun artista
dipinge il proprio sogno. È troppo potente potrebbe ucciderlo" (B.
Chatwin).
Il fantastico è il lampo intermittente di ciò che non è dato vedere.
Storicamente incanalato in contesti rituali per l’umanità, era
l’eccezione, la festa. Se il fantastico evoca l’apparire folgorante, il
fulmine, attributo di Zeus, che ha il potere di attivare come in un cielo
primordiale le basi aminoacide dei nostri archetipi, il principio di realtà
prenderà la forma della Madre Terra che nasconde, proteggendo, i suoi figli e
a cui si affida il compito di preservare l’umanità dalla voracità del
Padre Celeste. L’uomo ha sempre avuto paura di realizzare i propri desideri.
La forma più temuta di morte nell’antichità era la morte per fulmine: non
si aveva diritto alla sepoltura. Così modello del fantastico è lo scoccare
della folgore nel cielo sereno della nostra infanzia stupita.
Ma dopo il temporale, come forza riparatrice tra il cielo e la terra, il mite
dono dell’arcobaleno alle cui radici si cela un tesoro, ogni bambino lo sa.
Come nel mito-favola di Incubo: nell’antica Roma, dopo un brutto sogno, si
poteva avere la fortuna di vedere apparire il soave terrifico folletto,
Incubo, derivazione del Pan arcadico, in atto di indicare la via per
raggiungere un tesoro, nelle vicinanze del posto in cui ci si era
addormentati. In chiave endopsichica, vicinanza dell’anima è l’incubo
stesso, tesoro rivelato che, restituendo al suo aspetto solare la propria
controparte notturna, sintonizza l’anima con il Numen, il numinoso al di là
degli antenati. Il fantastico alle origini è anche il Terrifico. Le forze
paniche (vi è un legame tra il divampare incontrollato delle fiamme e
l’epidemia contagiosa del panico), le angosce sono la radice, l’aderire
alla terra. "Quell’occulto colpevole dio fiume del sangue" (Rilke)
ci appartiene già prima della nascita: si rivelava all’uomo nelle feste
misteriche, nel dolore dell’iniziazione. Bisogna guardare agli antichi, si
farebbe un progresso, e non a un presente che riconosce come fantastici solo
aspetti positivi, apollinei dell’esistere e così ne limita l’esperienza.
È cosa ben diversa, nell’epoca dell’informazione satura, la profusione
quotidiana di catastrofi in tempo reale, il terrore colpevolizzante diffuso
via etere, il "cosiddetto male" scongelato dal suo sogno e offerto
freddo sul piatto dello spettacolo. Le "fantastiche catastrofi" di
Andy Warhol, gli incidenti stradali, le sedie elettriche commiste alla serie
di sorrisi estatici della Marilyn, alle star luminose del cinema
(fissate nel fotogramma che precede l’esplosione) ci appartengono solo per
cinque minuti, cinque minuti di successo, prima di scomparire nel
"retrovisore della memoria" (Baudrillard).
Spettatori di nessun evento, saremmo tentati anacronisticamente di rifare la
storia; nostalgici di un tempo mitico, ne registriamo la sparizione ma, una
volta sparita la realtà, restano soltanto il terrore e il fantastico allo
stato puro.
Non ricordo come appresi la storia, né chi sia l’autore: è la storia di
due giovani soldati che durante una lontana guerra erano rimasti feriti e, in
conseguenza di una paralisi, costretti a trascorrere tutta la vita in un
grigio ospedale, nella stessa stanza. Quando si dice la fortuna. La sorte
aveva voluto che solo a uno dei due fosse concesso di guardare fuori dalla
finestra, vuoi perché nella stanza ce n’era una soltanto, vuoi perché
all’altro bruciava constatare una vita mancata; preferiva chiudersi in sé,
nel suo angolo e, al limite, farsi raccontare dal primo soldato la vita che
passava: il cambio delle stagioni, una lite fra ubriachi, una stella cadente,
tutto questo gli sembrava sufficiente a farsi un’idea del mondo. Una volta
era persino riuscito ad innamorarsi di una donna che non aveva mai visto, ma
dalle descrizioni aveva imparato a conoscerla nei dettagli. Ne sapeva le
abitudini, le preferenze, ne intuiva i desideri. La vita passava e ai tram si
sostituivano le macchine. Ma un giorno tutto cambiò. Era successo che il
primo soldato era morto e che si era liberato il posto-letto proprio accanto
alla finestra. Ormai il secondo soldato non desiderava neanche più di essere
trasferito: ci si abitua alle proprie ferite e a volte conviene non guarire.
Ma il trasferimento avvenne. E fu duro per il soldato scoprire che la finestra
dava su un cortile interno e che un alto muro impediva il cambio delle
stagioni.
Cina, VI secolo d.C., il monaco buddista Bodhidarma venuto dall’India rimase
per otto lunghi anni davanti a un muro, seduto a meditare. Oggi sarebbe
entrato nel Guinness dei primati, ma allora la cosa fu presa molto sul
serio e si organizzò intorno al primo patriarca una corrente di pensiero che
dalla Cina sarebbe passata, dopo molto tempo, in Giappone sotto forma di
buddismo Zen. Come pratica del "qui e ora" lo Zen applica un
paradossale concretismo. Ancora oggi bisogna evitare di chiedere a un maestro
Zen il suo pensiero a proposito del Fantastico, perché il rischio è quel
famoso colpo di bastone che necessita per aprire la mente dell’allievo
cocciuto. Stesso rischio in cui può imbattersi qualche malcapitato amico che
mi dovesse chiedere cosa penso della fantasia, perché non usarla di più o
perché non usare più colori in un quadro. E se come via per raggiungere
l’illuminazione il maestro Zen dovesse indicare il semplice ritorno al
lavoro quotidiano e alla meditazione, l’ora et labora della
tradizione cristiana, anche noi non da meno saremmo costretti a suggerire a
tutti coloro che si accingono a imprese eroiche, fantastiche, un po’ di
moderazione. Bisogna concentrarsi nel lavoro. Un lavoro, però, che fa di
tutto per concentrarsi e sparire e che solo si lascia sedurre da performance
da primato, da imprese da Guinness che ammiccano agli indici
d’ascolto. In una realtà dopata, su tutto si fa promozione, si alza il
volume.
Così come il paesaggio nei quadri di natura bucolica è entrato ufficialmente
nella storia dell’arte nell’Inghilterra d’inizio diciannovesimo secolo
proprio mentre il paesaggio si andava guastando per gli effetti
dell’industrializzazione, le immagini mozzafiato dei media, le réclames
suadenti, le imprese no-limits proliferano, in proporzione diretta
con l’aumentare della nostra indifferenza, e vanno a sfiorare il nostro
disincanto. Effetto di un’epoca disoccupata, il fantastico organizza il
nostro tempo libero ed è il motivo, scriveva Flaiano, per cui tante persone
si avvicinano all’arte, diventano artisti.
È una vita che mi affaccio alla finestra: guardo la strada vuota, la gente
passare. Sono io quello che aspetta il messaggio dell’imperatore; pare che
sul punto di morire egli lo abbia consegnato a un suo suddito e, dopo
esserselo fatto ripetere all’orecchio abbia lasciato partire il messo alla
volta delle remote regioni del suo regno, dove abito io; e nel verso dove il
messaggero indirizza i suoi poderosi passi (a volte in sogno mi sono apparsi
già vicini). Tutto è avvolto nel "sembra" e nel "pare",
ma è certo che per questo viaggio non bastano comuni doti umane, è
un’impresa ardua, e forse non è sufficiente una vita per compiere il
viaggio, come quella che è passata sperando che si sovvertisse la logica
nell’attesa di sentire i pugni del messaggero, bum bum bum, sulla porta.
Questa sera doveva essere una sera come un’altra: si sono presentati in
tanti, i messaggeri (forse centinaia di migliaia, non so contare);
l’impressione è che continuino ad aumentare: ognuno è lì, sotto la
finestra, che agita il proprio messaggio. La cosa mi infastidisce. Io ne
aspetto uno solo e ora, ecco, una miriade di formiche alate, di guerrieri in
parata ad agitare il proprio segreto. La cosa mi sorprende, non posso proprio
riceverli; e poi, chi dovrei favorire? Ognuno sostiene di essere stato mandato
direttamente dall’imperatore; e perché non credervi. Solo che non so che
farmene di mille segreti, ormai uno vale l’altro, e dopo un po’ ne
dimenticherei il contenuto; la sensazione è che non sarebbe esatto pensare
che sono troppi, probabilmente, sono di troppo. Oggi posso dire che rimpiango
il tempo speso alla finestra convinto di aver smarrito il messaggio.
In fondo, aver perso la strada era stata una soluzione.
Tratto da: "Mitologie e Archetipi" - 1996 Skira editore, Milano