BIOGRAFIA

sergio02.jpg (92309 byte)

Sergio Fermariello è nato a Napoli il 29aprile 1961. Vive e lavora a Napoli.

Mostre personali

1989 Galleria Protiron, Spalato.
         Galleria Lucio Amelio, Napoli.
1990 Galleria Il Capricorno, Venezia.
         Galeria Albrecht, Monaco di Baviera.
1991 Galleria Lucio Amelio, Napoli.
1992 Galleria Yvonne Lambert, Parigi.
   
      Galleria Il Capricorno, Venezia.
   
      La Commedia dell’Arte, Galleria Lucio Amelio, Napoli.
1993 XLV Esposizione Internazionale d’Arte Biennale di Venezia,
         Sala personale Padiglione Italia, Venezia.
   
      Galleria Il Capricorno, Venezia.
1995 Opus Alchemico, Galleria In Arco, Torino.
         Opificio d’Arte Contemporanea, Benevento.
         Sergio Tossi Arte Contemporanea, Prato.
1996 ContemporaneaComo 2, Villa Olmo, Como.
   
      Homo necans, Galleria Lucio Amelio, Napoli.
1997 Sergio Fermariello. Lavori 1990-1997,
   
      Istituto Italiano di Cultura, Colonia.
1999 Istallazione: Avviso ai Naviganti - Castel dell'Ovo, Napoli.
1999 Galleria Jan Wagner - Berlin.
2000 Galleria Ronchini - Terni.
2000 Galleria Scognamiglio & Teano - Napoli

invito16.jpg (19426 byte) invito18.jpg (11942 byte) invito19.jpg (14514 byte) invito14.jpg (14214 byte) invito17.jpg (7873 byte)
invito04.jpg (30317 byte) invito11.jpg (70651 byte) invito12.jpg (14206 byte) invito13.jpg (24749 byte) invito08.jpg (16208 byte)
invito09.jpg (19042 byte)

Principali mostre collettive

1989 Giovani artisti italiani. Primo Premio Saatchi & Saatchi,
   
      Palazzo delle Stelline, Milano.
   
      Tre vincitori del premio Saatchi & Saatchi, Sala I, Roma.
   
      Regina Blu, Frac, Marsiglia.
1990 Galleria Massimo Mmmi, Brescia.
   
     30° Anniversario, Fondazione Peter Stuyvesant, Amsterdam.
1991 Magico primario, Galleria Comunale A. Bonzaghi, Cento.
   
      Metropolis, Martin/Gropius/Bau, Berlino.
         AnniNovanta, Galleria Comunale d’Arte Moderna, Bologna.
   
      Intercity Tre, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia.
1993 Cadencias, Museo d'Arte Contemporaneo Sofìa Imber,
         Caracas / Museo MAM, Bogotà.
         Centro Culturale Recoleta, Buenos Aires.
   
      Les Pictographes. L’estliétique de l’icòne au XXème siècle,
   
      Musée de l’Abbaye Saint-Croix, Les Sables d’Olonne, Francia.
   
      III Biennale Internazionale d’Arte, Eczacibasi Art Museum, Instanbul.
   
      Terraemotus, Palazzo Reale, Caserta.
1993 Ecbatana. Immagini e scritture da una città invisibile,
   
      Associazione Dìoce, Torino.
         Profil dun Galerie, L.A.G., Sigean, Francia.
   
      Emergenze ’93, Galleria Civica d’Arte Contemporanea, Trento.
   
      La linea dell’immagine. Carte di pittura italiana,
   
      Associazione Culturale Piano Nobile, Ceppaloni.
   
      Del mistero della terra, Casina Vanvitelliana, Bacoli.
1994 Il circolo vizioso. Bresciani, Castellano, Fermariello,
   
      Galleria In Arco, Torino.
1995 Elogio della bugia, Galleria Mazzocchi, Parma.
         Un cuore per amico, Palazzo della Triennale, Milano.
         Dodici pittori italiani, Spazio Herno, Torino.
1996 Immagini italiane, Medienmeile am Hafen, Dusseldorf -
         Dumont Kunsthalle, Colonia.
         Il nibbio di Leonardo, Palazzo Pio, Carpi.
         Antologia, Trevi Flash Art Museum, Trevi.
         XII Quadriennale d’Arte di Roma «Ultime generazioni»,
         Palazzo delle Esposizioni, Roma.
1997 Galleria Civica, Siracusa.
         Il giardino dei segni, Galleria Alberto Valerio, Brescia.
         Terrae Motus, Artissima, Lingotto, Torino.
1998 Novecento Nudo, Museo del Risorgimento, Roma.
         Quels dessins?, Cloitre des Cordeliers, Tarascon, Francia.
         Mito velocità, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, San Marino.
         Opera in nero. Zorio, Nunzio, Fermariello, Rasma,
         Galleria Civica di Arte Contemporanea, San Martino Valle Caudina.
         Tracce significanti. Arte italiana oggi, The J. F. Costopoulos
         Foundation, Atene.
1999 Arte moltiplicata, Pinacoteca Comunale, Bagnocavallo.
1999 Sulla Pittura - Artisti italiani sotto i 40 anni - Città di Conegliano (TV).
2000 Arte in Giro - Ex Mattatoio, Roma
2000 Napoli/Weimar - Casina Pompeiana, Napoli
2001 "in riva al mare mai stanco" Odissea Berlino Napoli - Casina Pompeiana, Napoli
2001 Conversation/s - Provence-Alpes-Còte d'Azur

invito01.jpg (16786 byte) invito02.jpg (19370 byte) invito07.jpg (16163 byte) invito15.jpg (17768 byte) invito05.jpg (13604 byte)
invito03.jpg (18309 byte) invito10.jpg (31128 byte) invito20.jpg (31428 byte) invito21.jpg (15911 byte) invito22.jpg (22396 byte)
invito23.jpg (16183 byte)

Premi

1986 XIV Premio Diomira, Cassina (Milano).
1989 Premio Saatchi & Saatchi, Milano.

invito06.jpg (17362 byte)

a cura di Federica Guida
Tratto da: "Avviso ai naviganti" - 1999 Umberto Allemandi & C., Torino

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Scritti dell'artista

Sergio Fermariello, Opus Alchemico, Galleria In Arco, Torino 1995
Sergio Fermariello, Il cerchio rituale ovvero "il circolo vizioso", Galleria In Arco, Torino gennaio 1994

Cataloghi e saggi monografici

Demetrio Paparoni, Astratta, in "Catalogo della XLV Biennale di Venezia", Marsilio Editore, Venezia 1993
Gaia Salvatori, Le forze elementari, in "Arte Foyer", marzo 1993
Elio Cappuccio, Sergio Fermariello, in "Tema Celeste", n. 40, primavera 1993
Sergio Fermariello, in "Class", n. 8, 1995
Achille Bonito Oliva, Modulo modulare modulato, in "Sergio Fermariello", Edizioni Il Laboratorio, Nola 1995
Alberto Fiz, Il cortocircuito del linguaggio, in "Opus Alchemico", Galleria In Arco, Torino 1995

catalogo07.jpg (51003 byte) catalogo06.jpg (16896 byte) catalogo04.jpg (39865 byte)

Libri e cataloghi di mostre collettive

Phoebe Tait, Premio Saatchi & Saatchi, Milano gennaio 1989
Christos Yoachimides, Norman Rosenthal, Metropolis, Martin Gropius Bau, Berlino 1991
Flavio Caroli, Magico primario. Una revisione, Galleria d’Arte Moderna, Comune di Cento, Cento marzo 1991
Renato Barilli, Anni Novanta, Galleria d’Arte Moderna, Bologna, Mondadori, Milano 1991
Danilo Eccher, Emergenze ‘93, Galleria Civica d’Arte Contemporanea, Trento 1993
Luciano Caramel, Contemporanea Como 2. Mitologie e Archetipi. Mirko, Afro, Halley, Cingolani, Fermariello, Skira, Milano 1996
Ludovico Pratesi, Immagini Italiane, Medienmeile am Hafen Dusseldorf, Dumont Kunsthalle Kòln, 1996

catalogo08.jpg (37421 byte) catalogo01.jpg (44892 byte) catalogo05.jpg (27327 byte) catalogo03.jpg (16206 byte) catalogo02.jpg (15606 byte)
catalogo09.jpg (65759 byte) catalogo10.jpg (30197 byte) catalogo11.jpg (18040 byte) catalogo12.jpg (32717 byte) catalogo13.jpg (45239 byte)

Articoli su quotidiani e periodici

Marco Pastonesi, Il gran premio dell’arte scova mille giovani artisti, in "La Repubblica", Milano 19 gennaio 1989
Ludovico Pratesi, in "La Repubblica", Milano 29 marzo 1989
Gabriella Grasso, in "Tema Celeste", n. 19, Siracusa aprile-maggio 1989
Mario Cappelletti, in "Proposte", marzo-aprile 1989
Gregorio Magnani, in "Arts Magazine", aprile 1989
Paolo Balmas, in "Paese Sera", 26 aprile 1989
Angelo Trimarco, in "Il Mattino", Napoli 14 novembre 1989
Carolyn Christov Bakargiev, in "Il Sole 24 Ore", Milano marzo 1989
Philippe Piguet, in "Art Press", gennaio 1990
Gabriele Perretta, Segnali da Napoli, in "Flash Art", n. 158, ottobre-novembre 1990
Mauro Panzera, in "Tema Celeste", n. 26, luglio-ottobre 1990
Angelo Trimarco, in "Art Forum", maggio 1991
Alberto Arbasino, in "Venerdì di Repubblica", Milano aprile 1991
Michele Buonuomo, in "Napoli e Dintorni", n. 23, Lucio Amelio, Napoli gennaio 1991
Angelo Trimarco, in "Il Mattino", Napoli 5 giugno 1992
Franco Mollica, Sergio Fermariello, in "Tema Celeste", n. 37-38, autunno 1992
Marilena Balbi, in "Economia Hoy", Caracas, 29 gennaio 1992
G. Anna Maria Hernandez, in "El Nuovo Pais", Caracas 3 febbraio 1992
Simona Barucco, in "Juliet", n. 60, Trieste, dicembre-gennaio 1993
Roberto Pinto, in "Flash Ari Daily", (inserto Biennale), Venezia giugno 1993
Chiara Bertola, in "Flash Ari", Milano dicembre 1993
Chiara Bertola, in "Flash Ari International", marzo-aprile 1994
Paolo Levi, in "L’Europeo", 10-16 marzo 1994
Antonella Maffei, in "La Repubblica", Napoli 18 febbraio 1995
Stella Cervasio, in "La Repubblica", Napoli 30 marzo 1995
Franco Mollica, in "Tema Celeste", n. 52, estate 1995
Giovanna Massoni, in "Il Giornale dell’Arte", Torino marzo 1996

a cura di Federica Guida
Tratto da: "SERGIO FERMARIELLO" - 1997 Istituto Italiano di Cultura - Kòln

Scritti dell'artista

Opus Alchemico

È sempre la stessa storia, cambiano i procedimenti formali, le tecniche, ma il pensiero, come il lavoro, deve rigorosamente girare attorno al proprio asse. È della ripetizione, dunque, che bisognerà accennare. Nel lavoro che qui presento sono cambiati alcuni aspetti formali (una percezione tridimensionale della tavola, da bassorilievo antico, dovuta all’uso di reiterate forme in stucco); ciò che non cambia è l’ostinato consumo di un segno che, nel suo proliferare, rischia di collassare e rimanda ad un diverso ordine del discorso, ad una strada che abbiamo di forza rimosso, per procedere verso la direzione di un controllo totale degli impulsi e della natura.
Sembra dunque che io provochi, che agiti sterilmente simboli, archetipi che l’umanità già ha consumato, superato.
Il discorso ci porterebbe lontano, ma ciò che mi preme sottolineare è il prezzo che l’umanità sta pagando per sostenere il suo costante progresso: l’alienazione di ogni sé dal proprio gruppo e da se stesso, ovvero, la demonizzazione di ogni aspetto negativo dell’esistente. Abbiamo accettato la logica del sorpasso, della separazione inconciliabile degli opposti.
A questa mi dichiaro malato; come nevrotico ricerco nella coazione ipnotica della ripetizione un veicolo di salvazione (penso, infatti, che solo regredendo potremo fare un passo avanti).
Simboli dinamici come il guerriero, fragile cavaliere errante che ha in sé il potere di distruggere come quello di salvare, oppure il simbolo neotenico dell’uomo prostrato nella posizione più umile, quella di aderire alla terra (larva umana che ha in sé la potenzialità di rompere la crisalide rinascendo in un nuovo essere) sono archetipi che, una volta attivati in un opus alchemico, restituiscono (nella forza come nella debolezza) il senso di appartenenza ad un destino maggiore, che non ci tradisce e che ci sintonizza con il sé di gruppo in un unico atto creativo.
(Galleria In Arco, Torino 1995.)

Intervista

Qual è l'idea guida per la tua installazione?
Ho lavorato sulla memoria della rappresentazione, come faccio ormai da qualche anno. Con questo mosaico a terra vorrei evidenziare che l’importante non è riempire lo spazio ma creare una dimensione dove vivere che permetta che le cose poi possano esistere. Il quando non deve essere un punto di arrivo ma la maniera di instaurare un rapporto con l’ambiente.

Quindi il presupposto era di rendere il quadro tridimensionale?
Era un modo per eludere, è una sorta di slittamento. C’è un’evanescenza, un non rispondere a quello che ci aspettiamo. Siamo impegnati a percorrere il quadro, oppure ad avvicinarci per leggere il particolare, questo richiede una cerimonia, questo è un percorso, una stanza che deve essere visitata come uno scavo di Pompei, come un riemergere della memoria che spesso calpestiamo.

O forse dimentichiamo...
Dimentichiamo, copriamo di cenere, voglio dire che questo mosaico pompeiano è anche un braciere giapponese, che veniva messo al centro e sotto alla cenere fredda celava sempre una brace calda. La cenere serve anche a preservare un calore sotterraneo quindi il nostro compito è anche quello di riscoprire questi valori caldi. Un legame con la fonte istintiva, la morte che non deve essere rimossa.., gli istinti di caccia, diciamo che questi sono gli elementi che ho elaborato in questi anni, che hanno un legame con le esigenze naturali, mi piace immaginarlo in una dimensione in bianco e nero, come se fosse giapponese o pompeiano, dove all’esterno ci siano dei giardini di riposo, di pace e di tranquillità. L’opera d’arte ama aprire un orizzonte, il quadro non come un sogno ma come una macchina per sognare, una macchina per creare spazi, prima avevamo parlato della stanza come possibilità non tanto per inserire il quadro; ma il quadro come possibilità di immaginare stanze.

E rispetto a quello che hai visitato già, a quello che gira intorno?
Si può osservare un ritorno ad una certa coerenza nel fare arte. Voglio dire che quando ci sono dei movimenti negativi, questi sono sempre dei momenti di crescita, e quindi voglio dire quando c’è una riduzione all’essenziale, una crisi, proprio anche di mercato, sono strozzature che portano ad una presa di posizione partigiana, cioè o sei da una parte o dall’altra, questo per me è positivo, c’è appunto più coerenza...

Nell’esplicitare se stessi?
No, più coerenza nell’essere mestiere. Fare questo lavoro come un mestiere, non come qualcosa che può essere improvvisato. Mi piace tutto ciò che nell’antichità è stato... trovo che nell’antichità ci siano molti elementi attuali che noi abbiamo dimenticato con una finta immagine di progresso, ed è stato spesso uno strumento che ci ha portato a regredire, non ci ha portato dei miglioramenti. C’è una frase molto bella di Rilke, che a proposito delle macchine diceva: se ci devono essere è bene che lavorino, devono servire, dobbiamo essere noi i padroni della tecnica, non dobbiamo essere noi schiavi della tecnica, spesso ci facciamo sommergere, come se fossero dei fìni e non degli strumenti. Lo status symbol degli oggetti di cui noi ci circondiamo è proprio il capovolgimento del fine con il mezzo, non ci servono per comunicare o spostarci, ma a volte proprio come fini da raggiungere che poi ci portano alla paralisi. Invece di rappresentare la realtà per le brutture e lo sconforto che ci può dare dovremmo immaginare degli orizzonti, perché il compito dell’artista è quello di creare motivi e aperture, non dico miti, ma delle prospettive anche di sogno, anche di cose che non esistono. Quante volte negli anni Ottanta abbiamo visto il feticcio di ciò a cui quotidianamente assistiamo. (A cura di Roberto Finto, "Elash Art Daily", inserto Biennale, Venezia giugno 1993.)

Il cerchio rituale ovvero "Il circolo vizioso"

Un’osservazione: mi piacerebbe sgombrare il campo da alcuni equivoci che potrebbero nascere nell’accostarsi al mio lavoro. Spesso si associa il segno "guerriero" all’elegante "forchetta" di Capogrossi; segno di matrice arcaica, ripetuto nello spazio, teso a riorganizzarlo. In Capogrossi lo scambio dei simboli, la loro combinazione ritmica, rimanda ad un codice genetico segreto, alle sue infinite possibilità di trasmettere informazioni ed eventualmente mutazioni creative. Il guerriero parte quando questo spazio già è stato colmato, saturato. La matrice del quadro è semplice, formata da un’unica identità ripetuta, un’eco che non ripete che se stessa.
Facciamo un esempio: apriamo un giornale, le ventuno lettere nelle loro possibilità combinatorie ci offrono la lettura del mondo, lo decifrano; viceversa, un linguaggio formato dalla ripetizione ossessiva di un unico segno non trasmette informazione, la sospende. Diventa dunque un metalinguaggio, impossibile da decodifìcare e che ricorda un testo di Borges sulla crudeltà del deserto come labirinto. L’equivalenza di ogni sintagma produce un apparente annullamento di senso, e tuttavia, proprio la qualità di questo sintagma, la sua valenza arcaica, antropocentrica, fa emergere una comunicazione primordiale che affonda le radici nel nostro bagaglio collettivo.
Come nella struttura della tragedia, dove l’eroe muore e minaccia di tornare, così le immagini evocate (immagini di threnos funerari, donne in corteo, cavalieri in marcia) sono riprese nell’intento di far riemergere il rimosso e portare in superficie un passato non risolto. Rituale come mestolo del tempo; il tempo del mito, che ci conduce dove già siamo, e ci fa intravedere l’ambivalenza dell’essere nella sua impossibilità di venire colto in maniera univoca. L’arte ha questa capacità, ed è il suo compito mantenere aperta la ferita.
(Galleria In Arco, Torino gennaio 1994.)

Fantastico mitico

Spettatori di nessun evento, saremmo tentati anacronisticamente di rifare la storia. Ancorati alle memorie, nostalgici di un tempo mitico, ne registriamo la sparizione ma, una volta sparita la realtà, restano soltanto il terrore e il fantastico allo stato puro.

"Nessun artista dipinge il proprio sogno. È troppo potente potrebbe ucciderlo" (B. Chatwin).
Il fantastico è il lampo intermittente di ciò che non è dato vedere. Storicamente incanalato in contesti rituali per l’umanità, era l’eccezione, la festa. Se il fantastico evoca l’apparire folgorante, il fulmine, attributo di Zeus, che ha il potere di attivare come in un cielo primordiale le basi aminoacide dei nostri archetipi, il principio di realtà prenderà la forma della Madre Terra che nasconde, proteggendo, i suoi figli e a cui si affida il compito di preservare l’umanità dalla voracità del Padre Celeste. L’uomo ha sempre avuto paura di realizzare i propri desideri. La forma più temuta di morte nell’antichità era la morte per fulmine: non si aveva diritto alla sepoltura. Così modello del fantastico è lo scoccare della folgore nel cielo sereno della nostra infanzia stupita.
Ma dopo il temporale, come forza riparatrice tra il cielo e la terra, il mite dono dell’arcobaleno alle cui radici si cela un tesoro, ogni bambino lo sa. Come nel mito-favola di Incubo: nell’antica Roma, dopo un brutto sogno, si poteva avere la fortuna di vedere apparire il soave terrifico folletto, Incubo, derivazione del Pan arcadico, in atto di indicare la via per raggiungere un tesoro, nelle vicinanze del posto in cui ci si era addormentati. In chiave endopsichica, vicinanza dell’anima è l’incubo stesso, tesoro rivelato che, restituendo al suo aspetto solare la propria controparte notturna, sintonizza l’anima con il Numen, il numinoso al di là degli antenati. Il fantastico alle origini è anche il Terrifico. Le forze paniche (vi è un legame tra il divampare incontrollato delle fiamme e l’epidemia contagiosa del panico), le angosce sono la radice, l’aderire alla terra. "Quell’occulto colpevole dio fiume del sangue" (Rilke) ci appartiene già prima della nascita: si rivelava all’uomo nelle feste misteriche, nel dolore dell’iniziazione. Bisogna guardare agli antichi, si farebbe un progresso, e non a un presente che riconosce come fantastici solo aspetti positivi, apollinei dell’esistere e così ne limita l’esperienza.
È cosa ben diversa, nell’epoca dell’informazione satura, la profusione quotidiana di catastrofi in tempo reale, il terrore colpevolizzante diffuso via etere, il "cosiddetto male" scongelato dal suo sogno e offerto freddo sul piatto dello spettacolo. Le "fantastiche catastrofi" di Andy Warhol, gli incidenti stradali, le sedie elettriche commiste alla serie di sorrisi estatici della Marilyn, alle star luminose del cinema (fissate nel fotogramma che precede l’esplosione) ci appartengono solo per cinque minuti, cinque minuti di successo, prima di scomparire nel "retrovisore della memoria" (Baudrillard).
Spettatori di nessun evento, saremmo tentati anacronisticamente di rifare la storia; nostalgici di un tempo mitico, ne registriamo la sparizione ma, una volta sparita la realtà, restano soltanto il terrore e il fantastico allo stato puro.
Non ricordo come appresi la storia, né chi sia l’autore: è la storia di due giovani soldati che durante una lontana guerra erano rimasti feriti e, in conseguenza di una paralisi, costretti a trascorrere tutta la vita in un grigio ospedale, nella stessa stanza. Quando si dice la fortuna. La sorte aveva voluto che solo a uno dei due fosse concesso di guardare fuori dalla finestra, vuoi perché nella stanza ce n’era una soltanto, vuoi perché all’altro bruciava constatare una vita mancata; preferiva chiudersi in sé, nel suo angolo e, al limite, farsi raccontare dal primo soldato la vita che passava: il cambio delle stagioni, una lite fra ubriachi, una stella cadente, tutto questo gli sembrava sufficiente a farsi un’idea del mondo. Una volta era persino riuscito ad innamorarsi di una donna che non aveva mai visto, ma dalle descrizioni aveva imparato a conoscerla nei dettagli. Ne sapeva le abitudini, le preferenze, ne intuiva i desideri. La vita passava e ai tram si sostituivano le macchine. Ma un giorno tutto cambiò. Era successo che il primo soldato era morto e che si era liberato il posto-letto proprio accanto alla finestra. Ormai il secondo soldato non desiderava neanche più di essere trasferito: ci si abitua alle proprie ferite e a volte conviene non guarire. Ma il trasferimento avvenne. E fu duro per il soldato scoprire che la finestra dava su un cortile interno e che un alto muro impediva il cambio delle stagioni.
Cina, VI secolo d.C., il monaco buddista Bodhidarma venuto dall’India rimase per otto lunghi anni davanti a un muro, seduto a meditare. Oggi sarebbe entrato nel Guinness dei primati, ma allora la cosa fu presa molto sul serio e si organizzò intorno al primo patriarca una corrente di pensiero che dalla Cina sarebbe passata, dopo molto tempo, in Giappone sotto forma di buddismo Zen. Come pratica del "qui e ora" lo Zen applica un paradossale concretismo. Ancora oggi bisogna evitare di chiedere a un maestro Zen il suo pensiero a proposito del Fantastico, perché il rischio è quel famoso colpo di bastone che necessita per aprire la mente dell’allievo cocciuto. Stesso rischio in cui può imbattersi qualche malcapitato amico che mi dovesse chiedere cosa penso della fantasia, perché non usarla di più o perché non usare più colori in un quadro. E se come via per raggiungere l’illuminazione il maestro Zen dovesse indicare il semplice ritorno al lavoro quotidiano e alla meditazione, l’ora et labora della tradizione cristiana, anche noi non da meno saremmo costretti a suggerire a tutti coloro che si accingono a imprese eroiche, fantastiche, un po’ di moderazione. Bisogna concentrarsi nel lavoro. Un lavoro, però, che fa di tutto per concentrarsi e sparire e che solo si lascia sedurre da performance da primato, da imprese da Guinness che ammiccano agli indici d’ascolto. In una realtà dopata, su tutto si fa promozione, si alza il volume.
Così come il paesaggio nei quadri di natura bucolica è entrato ufficialmente nella storia dell’arte nell’Inghilterra d’inizio diciannovesimo secolo proprio mentre il paesaggio si andava guastando per gli effetti dell’industrializzazione, le immagini mozzafiato dei media, le réclames suadenti, le imprese no-limits proliferano, in proporzione diretta con l’aumentare della nostra indifferenza, e vanno a sfiorare il nostro disincanto. Effetto di un’epoca disoccupata, il fantastico organizza il nostro tempo libero ed è il motivo, scriveva Flaiano, per cui tante persone si avvicinano all’arte, diventano artisti.
È una vita che mi affaccio alla finestra: guardo la strada vuota, la gente passare. Sono io quello che aspetta il messaggio dell’imperatore; pare che sul punto di morire egli lo abbia consegnato a un suo suddito e, dopo esserselo fatto ripetere all’orecchio abbia lasciato partire il messo alla volta delle remote regioni del suo regno, dove abito io; e nel verso dove il messaggero indirizza i suoi poderosi passi (a volte in sogno mi sono apparsi già vicini). Tutto è avvolto nel "sembra" e nel "pare", ma è certo che per questo viaggio non bastano comuni doti umane, è un’impresa ardua, e forse non è sufficiente una vita per compiere il viaggio, come quella che è passata sperando che si sovvertisse la logica nell’attesa di sentire i pugni del messaggero, bum bum bum, sulla porta.
Questa sera doveva essere una sera come un’altra: si sono presentati in tanti, i messaggeri (forse centinaia di migliaia, non so contare); l’impressione è che continuino ad aumentare: ognuno è lì, sotto la finestra, che agita il proprio messaggio. La cosa mi infastidisce. Io ne aspetto uno solo e ora, ecco, una miriade di formiche alate, di guerrieri in parata ad agitare il proprio segreto. La cosa mi sorprende, non posso proprio riceverli; e poi, chi dovrei favorire? Ognuno sostiene di essere stato mandato direttamente dall’imperatore; e perché non credervi. Solo che non so che farmene di mille segreti, ormai uno vale l’altro, e dopo un po’ ne dimenticherei il contenuto; la sensazione è che non sarebbe esatto pensare che sono troppi, probabilmente, sono di troppo. Oggi posso dire che rimpiango il tempo speso alla finestra convinto di aver smarrito il messaggio.
In fondo, aver perso la strada era stata una soluzione.

Tratto da: "Mitologie e Archetipi" - 1996 Skira editore, Milano