Associazione culturale onda lunga
a cura di Antonio Cigliano

ENRICO CARUSO
Una memoria negata
De Gregorio Editori

Ricordare è un dovere. "L'uomo dimentica" - scriveva Benedetto Croce - e si da la colpa al tempo. Ma troppe cose buone e troppe ardue opere si sogliono attribuire al tempo, cioé a un essere che non esiste". Queste parole mi ritornano in mente ogni volta che risento la meravigliosa voce di Enrico Caruso, restando affascinato da quella quasi innaturale capacità di coniugare un perfetto fraseggio con una straordinaria estensione vocale. Ma, al pari di questo ricordo, emerge la perplessità, la rabbia per come Napoli, o meglio, le sue istituzioni, abbiano letteralmente cancellato ogni traccia legata a uno dei suoi figli più illustri.
Ricordare è un dovere, dunque, perché senza memoria non si può costruire il futuro. E la memoria è un patrimonio delle persone sensibili. Nel caso di Caruso lo hanno dimostrato i napoletani, e soprattutto, concretamente, Antonio Cigliano, che da oltre vent'anni con straordinaria caparbietà porta avanti, nel nome del grande tenore, una battaglia per riannodare i fili della memoria e finalmente restituire a Caruso il posto che merita nella sua città.
Conosco Antonio Cigliano da vent'anni, ho sempre apprezzato la sua capacità politica, come amministratore, di andare in fondo alle cose, di dar corpo e vita ai progetti. E soprattutto di assumersi in prima personale le responsabilità dell'agire. Perché solo chi agisce concretamente cammina - inconsapevolmente o meno - su un terreno minato: la storia di questi ultimi anni ce lo ha insegnato.
E con una passione straordinaria, Cigliano ha saputo coniugare, nel ricordo del grande tenore, un progetto di rilancio per un'area della città, quella del quartiere San Carlo all'Arena, oggi tristemente condannata non solo a vivere marginalmente le direttive di sviluppo metropolitano, ma a pagare, forse, i tentativi fatti per riappropriarsi di una sua dignità territoriale, di ottenere un adeguato livello di vivibilità, dai servizi alle infrastrutture, all'arredo urbano.
Cigliano lo ha fatto, cogliendo e coordinando tutte le opportunità possibili, dai progetti per la ricostruzione alle occasioni, come la visita di Luciano Pavarotti alla casa natale del tenore, per dare una grande visibilità al quartiere. Partendo dalla strada che vide nascere Enrico Caruso, San Giovanniello, fino alla proposta di cambiare toponimo a Piazza Ottocalli, facendola diventare il polo di un itinerario museale e culturale che, nel nome del grande cantante lirico, riqualificasse l'intera area che gravita tra Calata Capodichino, i Ponti Rossi e l'Albergo dei Poveri. Suscitando, è bene dirlo, uno straordinario consenso da parte degli abitanti che, come testimoniano le oltre cinquemila firme sulla petizione, non hanno esitato, con una sensibilità tutta napoletana, nello schierarsi al suo fianco.
A pensarci bene, un sottile filo lega le due storie: Caruso e Napoli, Cigliano e la difesa della memoria. E nel riannodare un cordone ombelicale tranciato forse troppo traumaticamente, rimuovendo in maniera altrettanto veloce una memoria che ha lasciato spazio ad altrettanti interrogativi, Antonio Cigliano si è imbattuto in un problema analogo, nell'eterno alternarsi dei corsi e ricorsi storici: tutti i progetti, tutte le realizzazioni sono ora sommerse dalla polvere dell'oblio. O peggio, dall'immondizia, come tristemente testimonia la fontana sovrastata dal busto di Caruso, inaugurata con tanto entusiasmo e con altrettante indifferenza lasciata al degrado da chi, invece, dovrebbe essere istituzionalmente preposto alla difesa della cultura e della vivibilità cittadina. Leggete questo libro, è la storia di chi da anni si batte, nel nome di Caruso, per ridare dignità al quartiere e alla città. Leggete la sua lotta appassionata contro l'indifferenza e la burocrazia. Lascio a voi le conclusioni, posso solo aggiungere che è la storia di questi anni, caratterizzata, certo, da una difficile fase di transizione, ma dove, al di là degli schieramenti e delle idee, restano solo gli uomini, con la loro sacrosanta dignità.
E la storia, giova ripeterlo, è strettamente legata all'idea che ci facciamo degli eventi che la compongono e del ruolo, dello spessore dei suoi protagonisti. "La dimenticanza - aggiungerebbe Croce - non è opera del tempo, è opera di chi vuol dimenticare".

Sergio De Gregorio

UN IMPEGNO PER IL MUSEO

Pavarotti non si è perso in chiacchiere: negli Stati Uniti, dove la memoria del grande tenore è ancora estremamente viva e dove proliferano le associazioni di amanti della lirica a lui intestate, ha raccolto l'interesse di importanti sponsor, affinché quel palazzotto color rosa, cadente e malridotto, possa ospitare un museo.
«Enrico Caruso - sottolinea Pavarotti - è il modello sul quale tutti noi tenori veniamo misurati. Non lo dico tanto per la sua voce, peraltro stupenda e tanto inconfondibile da rendere impossibile ogni confronto. No, lo dico perché col suo straordinario fraseggio e il suo incredibile istinto musicale è andato più vicino di qualunque altro alla "verità" della musica che cantava. Non ci sarà mai un altro come lui, con la sua personalità».
«Qualche volta mi chiedono - prosegue il tenore modenese - che effetto mi fa essere paragonato a lui, ma questo paragone con Caruso non è possibile, a meno che chi mi accosta a lui non intenda sottolineare che siamo simili nel nostro intimo. Entrambi, infatti, amiamo la gente, il nostro prossimo, e questa natura generosa la dobbiamo alla semplicità delle nostre origini. Siamo infatti figli di quella civiltà di "poeti contadini" che al teatro ha dato voci capaci di tradurre la poesia della musica, anche se siamo vissuti in momenti storici diversi. E a me, tra parentesi, sta bene cantare oggi, perché ieri cantava lui...»
«Al di là di queste considerazioni - aggiunge Pavarotti - credo che un museo a Napoli, nella sua città natale, che raccolga i ricordi di Caruso sia necessario perché sono convinto che valga la pena di indagare razionalmente e rigorosamente la sua vita e la sua carriera, per ripulirne il ricordo da tutte le incrostazioni della leggenda. In questo modo diventerà per noi più attuale, più autentico, più vero e quindi anche più vicino».

GLI ANNI DI SAN GIOVANNIELLO

Era nato lì, dunque, anche se le sue radici sono ai piedi del Matese, a Piedimonte d'Alife, paese d'origine dei genitori Marcellino e Anna Baldini, che nella Chiesa di Ave Gratia Plena si erano sposati il 21 agosto del 1866. Per sfuggire alla miseria di quelle montagne, marito e moglie furono costretti a spostarsi a Napoli, dove Marcellino, proprio nella zona di San Giovanniello, trovò lavoro come meccanico presso le officine svizzere della Meuricoffre.
Enrico, registrato all'Anagrafe come Errico, vide la luce il 25 febbraio 1873. Secondo la leggenda, sarebbe arrivato dopo ben diciassette neonati morti. La levatrice, donna Sabella, fu la stessa che in seguito prelevò i due fratelli di Caruso, Giovanni e Assunta.
A dieci anni il piccolo Enrico fu avviato alle Fonderie De Luca all'Arenaccia, alternando il suo apprendistato con la scuola serale di via Postica Maddalena, da padre Giuseppe Bronzetti.
A quel tempo la famiglia Caruso si era trasferita verso il mare, a i Sant'Anna alle Paludi. Intanto alle elementari, sotto la guida di Giovanni Gatti, Enrico cresceva assorbendo nozioni di geografia e j dimostrando una straordinaria sensibilità verso il disegno. Una costante, quella della bella grafia, che si riscontrerà lungo tutto l'arco della sua vita, nelle sue vignette satiriche (che non mancano mai di arricchire collezioni di cimeli ed esposizioni dedicate al tenore), così come nei suoi numerosissimi quadernetti e notes in cui andava annotando spartiti e parti liriche.

L'ULTIMO RITORNO A NAPOLI

E, dopo l'incontro con la giovane Dorothy (da cui avrà Gloria, la figlia "americana"), a Napoli volle tornare ancora una volta, già ammalato di quella pleurite che segnerà la sua fine.
Il 28 maggio 1921, scortato da un'immensa scorta, si imbarcò con Dorothy e Gloria sul piroscafo "Presidente Wilson". Sbarcato a Napoli, all'Hotel Vesuvio, volle subito trasferirsi:a Sorrento, all'Hotel Vittoria. Qui sembrò riprendersi, riuscì persino a recarsi a Pompei e a Capri, in visita all'amico Canessa.
Ma il male avanzava inesorabile: fu trasportato a Napoli, all'Hotel Vesuvio, e a nulla valse il consulto di medici come Giuseppe Moscati. Caruso si spense alle 9 e 7 minuti di martedì 2 agosto 1921. Sarà proprio il barone Saverio Procida, lo stesso che nel 1901, con la sua critica all'esordio sancarliano di Caruso, provocò l'insanabile ferita tra il tenore e la sua città, con la "fuga" artistica da Napoli, a ricordarlo in uno struggente epitaffio su "Il Mezzogiorno".
Caruso, prima di morire, chiese che le sue spoglie rimanessero a Napoli. Il rito funebre fu celebrato nella Basilica di San Francesco di Paola in piazza del Plebiscito: il rivale di tutta una vita, Fernando De Lucia, con la voce rotta dall'emozione intonò per Caruso la "Preghiera" di Stradella.

COSA RIMANE DEL "MITO"

L'ORECCHIO E L'ARTISTA
A completamento di questo volume, dettato dalla passione e dalla grande devozione per il grande tenore, può essere interessante aggiungere, in appendice, delle note "tecniche" per approfondire quello che gli studiosi chiamano "il fenomeno Caruso ".
La voce d'oro del cantante è il punto di partenza dello studio di Alfred Tomatis, riportato, poi, nello straordinario volume "L'Orecchio e la Voce" (ed. Baldini e Castoldi).
Allora, Caruso: un enigma o una miniera? " Un enigma - spiega Tomatis - e ci limitiamo a considerarlo un superdotato, un gigante del suo genere. E lo fu senz'altro, perché seppe sfruttare brillantemente l'eccezionale coloritura della sua voce. Caruso era un uomo dotato di un talento particolarmente affinato e di un intuito molto spiccato per l'arte del canto. Sapeva stare nella linea melodica senza eccessi, ma sapeva anche modulare, con una coloritura che riusciva a modellare come nessuno, la giusta intensità, sostenendola fino al parossismo. Dotato di una particolare padronanza della voce, riuscì a eccellere per un periodo di molti anni, dal 1903 al 1914, addirittura nel 1916. Doveva infatti essere nella pienezza dei suoi mezzi fra il 1906 e il 1911-1912".
La voce d'oro di Caruso: come giunse tecnicamente a questo tipo di espressione così caratteristica?
"L'emissione carusiana - scrive ancora Tomatis - è una tecnica in sé, connessa alla morfologia del cantante, alla solida ampiezza facciale, al suo viso voluminoso. Si potrebbe anche parlare del suo parlato, che pare fosse notevolmente bombato, della sua laringe asimmetrica, del suo torace incredibilmente sviluppato... Richiamarli come fattori ausiliari della qualità
vocale di quel grande artista non può tuttavia mettere in ombra il fatto che era dotato di un ascolto, più precisamente di un autoascolto, eccezionale". Dopo aver dimostrato che la laringe non emette con fedeltà e con continuità se non ciò che l'orecchio è in grado di controllare, ovvero un soggetto che tenta di emettere un suono non può deliberatamente produrlo se non nei limiti del proprio autocontrollo, Tomatis approda a quello che definisce un "circuito cibernetico ", il cui funzionamento è stato più volte verificato il laboratorio. "Questo circuito - spiega l'Autore -accerta fedelmente un fenomeno che viene chiamato controreazione dell'udito sulla formazione. Ogni emissione di voce deve necessariamente essere controllata uditivamente dall'individuo che l'ha emessa. Era dunque facile stabilire quale fosse l'udito di un cantante, bastava essere in grado di analizzare la sua voce nei diversi elementi frequenziali ".
Tra il 1946 e il 1947 Tomatis, con l'aiuto di un ingegnere elettronico, realizzò un analizzatore, niente di simile per l'epoca...
"Disponendo della riproduzione delle note emesse dalla voce di Caruso - continua l'Autore - un po' alla volta fui in grado di ricostruire la sua maniera di cogliere i suoni, proprio come faceva lui attraverso l'udito, con il suo personale modo di sentire, con il suo stesso ascolto. Avevo un numero rilevante di tracce registrate, così arrivai a conoscere, giorno dopo giorno, l'udito del grande cantante e a capire come, nel corso del tempo, fosse riuscito ad alterarne la curva di risposta nel momento in cui per la controreazione la qualità della voce cambiava. Infatti la sua voce aveva subito dei mutamenti, diventando prima molto più ampia, e poi molto di bocca. Era subentrata un'alterazione della vocalizzazione. La perdita del controllo osseo risultò evidente a partire dal 1916: la voce, ancora bella quanto a coloritura, rivelava sicure perdite nella tecnica, preludio di gravi problemi destinati a peggiorare con l'affezione polmonare sopravvenuta in seguito".
Tomatis riuscì a cogliere elementi di ricerca molto interessanti riguardo all'emissione, ricostruita attraverso le registrazioni, le quali lasciavano trasparire, nonostante le difficoltà di riproduzione, le splendide qualità della voce di Caruso nella pienezza dei suoi mezzi, la morbidezza dei suoi timbri è rimasta ineguagliata. Non mi è mai capitato - sottolinea - di rilevare in laboratorio una ricchezza frequenziale così ampia, così alta nella gamma degli acuti, a dispetto delle registrazioni perfezionate di cui attualmente disponiamo ".
"Nessuna nota emessa da un altro cantante - ricorda Campagnola, tenore amico di Caruso e spesso suo sostituto - può far dimenticare la bellezza della sua voce". Era esattamente ciò che era stato rilevato nei fonogrammi di Caruso, ovvero le riproduzioni della voce ottenute sul tubo catodico di un analizzatore che spazia dalle frequenze dei gravi verso quelle degli acuti, mettendo particolarmente in risalto le fasce dei suoni alti.
"Negli spettrogrammi e nei fonogrammi di Caruso - spiega Tomatis - è ben distinta la zona delle fasce alte da quella dei suoni fondamentali, con un'assenza di frequenze quasi costante fra i 500 e i 2000 ha. Inoltre, la pen denza della curva di analisi mostra una caduta di più di 12db/ottava a partire da 2000 db fino ai gravi, cosa davvero notevole. Le note più acute arrivano a dare 18db/ottava di differenza. Questo fatto è tanto più importante se si considera che non mi è mai capitato di trovarlo in altri cantanti. E' qualcosa veramente peculiare della voce di Caruso ".
Dunque, solo l'orecchio destro controllava il canto: le curve di inviluppo dei fonogrammi riproducono le curve di risposta dell'orecchio destro.
"In funzione della forte pendenza dimostrata - questa è la straordinaria conclusione dello studioso - Caruso era sordo dall'orecchio destro riguardo alla trasmissione dei suoni gravi!"
Oltre alla testimonianza del Carmagnola, Tomatis segnala almeno altri tre artisti che cantarono con lui: Caruso chiedeva sempre loro di mettersi alla sua sinistra perché sentiva male dal lato destro.
Nell'analisi della letteratura sul grande cantante, alla ricerca di una spiegazione, non si sapeva niente della vita personale di Caruso al di fuori del suo itinerario artistico: alla fine del 1902 - inizio 1903, aveva subito in Spagna un intervento chirurgico al lato destro della faccia.
"Di cosa si trattava? - si chiede Tomatis - Una tromba di Eustachio ostruita? Qualcosa che riguardava il naso? Mistero. Eppure, proprio a partire da quel momento, compare nel suo canto quella coloritura così bella, connessa a un'intensa vibrazione ossea interna, che rappresenta il massimo in materia di ricerca della tecnica. In lui questa particolarità era diventata una cosa naturale".
Ciò non significa che basta farsi operare all'orecchio per poter cantare bene: si tratta solo di educarlo per comprendere e sperimentare il modo in cui Caruso si ascoltava mentre cantava. "Assumendo la su modalità di controllo - spiega l Autore - si può ritrovare il suo modo di cantare. Questo non significa, beninteso, avere la sua stessa voce, la quale dipende da vari fattori anatomici, ma la tecnica, questa sì, si può acquistare ed essere simile a quella di Caruso ".
"Volendo definire questo fenomeno con una battuta - conclude Tomatis - possiamo affermare che Caruso cantava bene in quelle condizioni perché non sentiva più i suoni di cattiva qualità ".

IL "FENOMENO CARUSO"

Tra i maggiori studiosi di Caruso, Riccardo Vaccaro ha dedicato molto tempo alle 266 incisioni discografiche del grande tenore per la realizzazione di un'opera mastodontica sulla vocalità, sull'unicità e sull'umanità dell'artista.
"Caruso - sostiene Vaccaro - ha avuto la capacità eccezionale di saper concentrare tutta la pienezza delle sue emozioni in una frase musicale, anche la più banale. Questo lascia soggiogati... »
Educazioni musicali migliori, anche voci migliori ce ne sono state. Perché dunque solo» Caruso è immortale?
«Il suo animo si riverbera totalmente nel suo canto. Questo colpisce. Un museo a Caruso certo è bellissimo, come è bello un museo egizio. Ma sarebbe più bello se magicamente un Faraone potesse sorgere dalla tomba. Per Caruso il Faraone redivivo sono i suoi dischi. Io, dietro quell'imbuto di cartone dal quale esce la voce, vedo veramente lui. Più che in un cimelio, lo seguo nella linea del canto, in ogni respiro che prevede, nei rubati, nei filati. Il suo unico punto terreno era dover riprendere fiato, perché già questo è qualcosa che indica un limite umano. Per lui il canto doveva essere un'unica filatura, e solo così apparteneva agli angeli. Cantando compie miracoli che sono solo suoi, in modo da effondere nella voce ogni suo sentimento. E' un'orchestra intera che canta con Caruso».


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