FUNTANE E FUNTANELLE

Voleva che vedessero la luce queste poesie sfuggite alle precedenti raccolte, da «Acqua Chiara» del 1918 a «Pampuglie» del 1951, ed unite alle altre scritte negli ultimi suoi tempi e potrei dire negli ultimi suoi istanti di vita, poi che le residuali battute, fioche ed afone, le soffiò in sussurri ritmici.
E me le affidò una sera in segreto testamento. E per ventitré anni  - tanti ne sono trascorsi dalla sua scomparsa (24 Giugno 1961)
- le ho portate in un peso d’ansia, nel tormentato dubbio di non imboccare la giusta strada editoriale.
Vado fiero e mi rilasso finalmente ora che Mario Gili -
titolare delle «Edizioni Nazionalmusic» di Milano - per onorarne con me la memoria in occasione del primo centenario della sua nascita - nacque a Napoli il 5 Maggio 1884 - se n’è assunto l’ònere della pubblicazione.
Ritenne
- e fu un vaticinio - di compiere l’estrema sua fatica letteraria (lo aveva egli stesso esplicitamente dichiarato nell’ultima edizione di «Acqua Chiara», Fausto Fiorentino Editore, il 5 Maggio 1959) raggruppando in volume le poesie d’amore cui dette il titolo: «Funtane e Funtanelle».
Era rimasto giovane nello spirito fin quasi al tramonto dell’età ed aveva, pur negli anni avanzati, considerato l’amore unico legame alla vita e questa lo scopo primario dell’amore.
D’altronde non accadde neppure ad Orazio di dover  arrossire nel riandare i suoi amori, ancora amando, oltre il cinquantasettesimo anno di sua vita.
Ma «Funtane e Funtanelle», d’origine onirica, rappresenta del Poeta l’erogazione del sentimento
- il più recondito e antico - il gettito vibrante e vibrato degli aneliti d’un uomo che donò se stesso per l’affermazione di una componente letteraria della cultura che, se è, com’è, di comune scienza, resta rara nella sua identità personificata.
Per essere riconosciuto poeta aveva scritto, in lingua e in dialetto, numerosi libri di versi, ma i critici
- ve n’erano in quell’epoca? ne avevano ignorato il desiderio. Eppure sarebbe bastata una disamina delle sue canzoni per con ferirgli l’alloro.
E se ne andò
- come se ne vanno tutti coloro che, avendo dato tanto, nulla hanno ricevuto - privo di quella che egli considerava un’intima «soddisfazione».
E, come sempre accade, dopo la sua scomparsa, dai «qualificati» ai «non», un coro unanime di riconoscimenti e lodi si levò come un inno, ond’è che se esiste un’altra vita, chi là, avrà - ed a giusto motivo - deplorata questa, non per la sua essenza che anzi bramò ed amò oltre ogni dire, ma per gli atteggiamenti dei suoi protagonisti e propriamente di quelli che, per mera rivalità, lo osteggiarono nell’attuazione pratica della difesa di un’Arte, intesa come sana e onesta manifestazione del fatto letterario concreto.
E se ne andò col suo temperamento fiero -
da autentico battagliere - a cui la cultura nazionale - quella seria, naturalmente - deve ciò che di bello e di buono è rimasto, dopo la sua dipartita, nel mondo poetico-canzonistico che egli alimentò e nel quale difese le opere d’altri purché nate dalla preparazione, dalla sincerità dalla onestà dell’autore. Il mondo degli analfabeti, rinnovando di Fedro la favola della volpe e l’uva, disse che egli possedeva «un caratteraccio».
Se fosse stato uno statista sarebbe oggi più agevole biografarne l’assieme; ma egli non avrebbe potuto mai essere un politico, imbevuto com’era di arte e di letteratura, di musica, di poesia e di profonda umanità; in altri termini: di cultura. Ed era una cultura tutta sua, acquisita, voglio dire, indipendentemente dai canoni scolastici, persino attraverso libri ricopiati su quaderni, di suo pugno, poi che le risorse economiche non gli offrivano il metro dell’acquisto ma tutt’al più il tempo dell’affitto quando non era possibile il prestito grazioso.
«Funtane e Funtanelle» è l’atteggiamento del Poeta di fronte al sentimento d’amore dominato dal problema spirituale antico e moderno della impellente necessità di amare, sempre. Donde, l’inutilità d’uno snodarsi cronologico dei componimenti e quindi di una documentazione di date. E perfino l’inutilità di ricercare, nella pedissequità del tempo, volti e nomi delle ispiratrici sotto gli allegorici sensi.
La poesia, in genere, non offre spiegazioni di sorta
- tutt’al più potrà ricercarsi il momento psicologico dell’autore all’atto del suo concepimento - perché essa è la manifestazione esteriore di un pathos e come tale, in linea di massima, obbedisce agli effetti interiori di una tragedia, in netta contrapposizione all’ethos che è la conseguenza della commedia.
Per la concezione aristotelica, la poesia è figlia e ministro della filosofia. E questa, si sa, è un’attività dello spirito che interpreta e definisce i modi dell’agire umano. E Massimo di Tiro, rètore e filosofo, sostenne che poesia e filosofia sono una cosa «doppia bensì di nome, non però in fatto, differente di sostanza
».
Accantonati ho detto in principio, parlando di versi sottratti alle altre raccolte ed uniti a quelli degli ultimi suoi tempi per il fatto che i numerosi volumi da lui stampati in precedenza: «Sonetti a Loubet», «Sonetti Rossi», «Rime Chiocce», «La Canzone di Mazzini», «La Canzone di Carducci», «La Canzone di Capony», tutti in lingua, e, in dialetto napoletano: «Custiera Amalfitana», «Vangelo», «Cerase », «Albero Piccerillo», «‘E Figlie», «Luce d’ ‘a Sera», «Poesie sul Sesto Rigo», «Acqua Chiara», avevano richiesto una distinzione per lunghezza metrica, come anche: «Pampuglie», «‘O Quarantotto» e «Masaniello».
Dunque, «Funtane e Funtanelle» - raccolta conclusiva d’una collana interrotta dal fato - è il volume in cui sono proiettati tutti gli atteggiamenti delle varie età del poeta. E forse è per questo che egli teneva più d’ogni altro alla sua stampa che ora, finalmente, è da considerare luce reale e concreta.

Ottavio Nicolardi
Morano Editore, Napoli 1984


Copyright (c) 2002 [Interviù]. Tutti i diritti riservati.
Web Master: G.C.G.