PREMIAZIONE DEL 25 NOVEMBRE 2009
 - Reale Yacht Club Canottieri Savoia -

La IV edizione del Premio "Tutore del Patrimonio e delle Tradizioni Napoletane"
vede premiati con attestato di benemerenza consegnato da
S.A.R. il Principe Sergio di Jugoslavia:

Casa Ascione
Francesco Corcione
Ciro Capano
Franco Farina
Luigi Grassi
Maurizio Marinella
Patrizio Marrone
Gianni Molaro
Mario Portolano
Gianni Quintiliani

Alla memoria:
Aurelio Fierro
E.A. Mario
Massimo Troisi

Conduce la serata Adele Vian

  

Con l’adesione del Presidente della Repubblica

Con il Patrocinio Morale degli Enti locali

Premiati per l' Arte Sacra:

mons. Domenico Felleca
il maestro Luigi Grima
Antonio Porretta
il maestro Giuseppe Porretta
la conduttrice televisiva Teresa Iaccarino
il fondatore di Tele Capri Federico Costantino
Fabio Testa
la presidenza delle Unioni Cattoliche Operaie

Adele VIAN

Adele Mazzella, nipote del M° Antonio Vian, autore delle celebri canzoni "Luna Rossa", "Il Mare" e varie altre, ha cominciato a prendere lezioni di canto a vent’anni. Laureata in Ecomonia e Commercio gestisce, con la madre, l’azienda di famiglia "Hotel Luna Rossa". Come cantante si è esibita in manifestazioni prestigiose come "Maggio dei Monumenti" nella suggestiva cornice di piazza del Plebiscito; ha cantato in teatri storici come il Sannazzaro, il Gambrinus, il Politeama e altri. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive, il cui tema era la Canzone Classica Napoletana, ricevendo ampi consensi e riconoscimenti. Molto sensibile al tema della solidarietà ha dato la propria collaborazione a varie iniziative benefiche esibendosi anche in numerose edizioni di "Telethon". Ha inciso 2 CD e scritto canzoni in italiano ed inglese. Il suo repertorio spazia tra il jazz, il blues, canzoni di lingua inglese, francese, spagnola e naturalmente italiana, ma la sua passione resta la canzone classica napoletana. Per quanto riguarda il teatro, ha frequentato corsi di perfezionamento con il M° Guido di Paolo e il suo repertorio spazia da Molière a Eduardo de Filippo fino alla partecipazione a varie rassegne con lavori di autori contemporanei. Come presentatrice, ha esordito al Teatro delle Muse di Roma. È presente per la terza volta nella conduzione di questo Premio.

Aurelio FIERRO
(Montella 13/09/1923 - Napoli 11/03/2005)

Aurelio mostra, sin da piccolo, di possedere buone doti canore. Trasferitosi a Napoli, si laurea in ingegneria meccanica ma continua ad esibirsi, per diletto, nei classici della canzone napoletana. Il suo debutto risale al 1951, quando vince un concorso di Voci Nuove, classificandosi primo su seicento concorrenti; questo gli consentì di firmare un contratto con la Durium, con cui avrebbe poi inciso una serie di canzoni in lingua napoletana e in lingua italiana. Nel 1952 vince con il brano "Rose, poveri rrose!" il primo Festival di Castellammare di Stabia. Questo lo spinge a lasciare la professione di ingegnere per potersi dedicare unicamente alla musica. Il suo primo grande successo fu "Scapricciatiello". In seguito venne la celebre "Lazzarella", scritta da Domenico Modugno, che divenne anche un successo cinematografico. Si impone come nuovo re della canzone napoletana cosiddetta "smargiassa", cioè allegra e scanzonata, capace di dare intonazioni umoristiche anche a composizioni tutt’altro che liete. È questo un periodo di incontrastato successo, anche all’estero, dove compie numerose tournées. Da "Lazzarella" a "Destinazione Sanremo", interpreta poi, diversi film musicali, ma anche commedie spensierate o ingenui melodrammi, in cui appare in ruoli di fianco (in Caporale di giornata, 1958, di C.L. Bragaglia, lancia la canzone "Calipso ninna nanna"). Dagli anni Settanta decide di abbandonare la carriera di cantante professionista per dedicarsi alla politica e allo studio del dialetto napoletano senza, tuttavia, rinunciare ad esibirsi occasionalmente. Nel 1996 viene chiamato di nuovo sul set cinematografico dal regista Maurizio Nichetti, che gli fa interpretare, nel film "Luna e l’altra", il ruolo del padre della protagonista. L’apparizione risulta talmente efficace che sembra potergli aprire una nuova carriera come caratterista. Fierro ha partecipato a quattro edizioni del Festival della canzone italiana di Sanremo: nel 1958 con "Timida Serenata", nel 1959 con "Lì per lì", nel 1961 con "Tu con me" e nel 1962 con "Cipria di Sole". Naturalmente partecipò anche a diverse edizioni del Festival della Canzone Napoletana vincendo nel 1956 con "Guaglione", nel 1958 con "Vurria", nel 1961 con "Tu si’ ‘a malincunia", nel 1965 con "Serenata all’acqua ‘e mare" e nel 1969 con "Preghiera a ‘na mamma". Il suo celebre motivo "Guaglione" è stato tradotto in diverse lingue, anche grazie alle numerose tournée che il cantante compì in USA e Canada a beneficio delle numerose colonie di immigrati italiani alla fine degli anni Cinquanta. Questa canzone lo rese molto popolare anche nei paesi dell’Europa dell’Est e in Giappone. Uno dei suoi ultimi successi, famosissimo anche all’estero, sempre presentato a un Festival di Napoli in coppia con Giorgio Gaber, è: "’A Pizza". È stato anche discografico, fondando e dirigendo la casa discografica King. A Napoli aprì un fortunato ristorante, "’A Canzuncella", attualmente gestito dalla moglie Marisa e dai figli Fabrizio e Flavio che, soprattutto il sabato sera, si riempie di clienti in occasione dei "dinner show". Studioso della cultura e delle tradizioni napoletane, sempre a Napoli avrebbe voluto fondare un Museo della Canzone Napoletana con annesso piccolo teatro per i turisti, ma il progetto non andò in porto. Riuscì invece a pubblicare una "Grammatica della Lingua Napoletana" e, per la Rusconi Editore, un libro di Fiabe e Leggende napoletane. Per tutti gli anni anni ’90 fu impegnato nella stesura di una Enciclopedia storica della canzone in quattro volumi, che non riuscì tuttavia a dare alle stampe. Nel giorno del Trigesimo, la moglie Marisa gli scrive queste parole piene d’amore: "...mi piace ricordare la tua genuina commozione quando parlavi del tuo paese "Montella", legato ai tuoi ricordi di infanzia e soprattutto ai tuoi cari scomparsi. Hai saputo vivere il tuo successo, la tua gloria con profonda umiltà con spirito cristiano e solevi ripetere che S.Agostino diceva: "chi canta prega due volte" e noi cantiamo e preghiamo insieme a te per un mondo migliore." Questa poesia, che la moglie Marisa ha concesso in anteprima e non ancora pubblicata, è stata scritta da Aurelio nel giorno del suo ottantesimo compleanno.

E.A. MARIO
(Napoli 05/05/1884 - Napoli 24/06/1961)

Ermete Giovanni Gaeta, noto a tutti come E. A. Mario, nacque il 5 maggio del 1884 a Napoli, in vicolo Tuttisanti, nel quartiere Vicaria. La sua famiglia di origini contadine, per ragioni economiche, si trasferì nella città partenopea dal paese natio: Pellezzano, in provincia di Salerno. A Napoli, suo padre Michele aprì una bottega di barbiere e sua madre Maria una merceria. Il piccolo Giovanni in gioventù riuscì ad iscriversi all’Istituto Nautico ma non completò gli studi perché non poteva pagarsi le rette scolastiche. La carriera artistica del poliedrico E. A. Mario iniziò quando un posteggiatore entrò nel negozio del padre e, all’uscita, dimenticò il suo mandolino. Giovanni, incuriosito da quello strumento, incominciò a scoprirlo suonandolo ad orecchio. Per perfezionare la sua tecnica acquistò tutti i numeri del settimanale "La Musica senza Maestro" (un antesignano dei moderni metodi di studio "non accademici"), ancora oggi custodito dalla figlia Bruna. All’età di 15 anni, si impiegò nelle Regie Poste Italiane di Napoli e fu proprio questo lavoro che gli portò un’immensa fortuna. Infatti un giorno Raffaello Segrè, noto compositore dell’epoca, entrò nell’ufficio postale; con molta disinvoltura Giovanni gli disse che i testi delle sue canzoni erano alquanto stupidi. Indignato ed offeso, il maestro Segrè sfidò l’impavido giovane impiegato, chiedendogli di scrivere per lui un testo in dialetto napoletano, e fu così che E. A. Mario, a soli 20 anni, scrisse la sua prima canzone, la celeberrima "Cara Mammà". Segrè lesse il testo e subito lo musicò, d’allora cominciò il loro sodalizio artistico ed umano. Giovanni Gaeta che iniziò la sua carriera artistica scrivendo in italiano, firmava le sue opere con il suo secondo nome "Ermes", quando il successo gli arrise scrivendo canzoni in dialetto decise di scegliersi un nome d’arte e dato che a quel tempo collaborava alla testata "Il lavoro" di Genova, il cui direttore si chiamava Alessandro Sacheri, firmava i suoi articoli sempre con il secondo nome Ermes. Contemporaneamente lavorava anche al giornale culturale "Il Ventesimo" diretto dalla giornalista polacca che si firmava Mario Clarvy. Dall’unione di questi nomi nacque il singolare pseudonimo: "E.A. Mario". Nel 1911 E.A. Mario iniziò anche a musicare autonomamente i suoi testi ed il primo grande capolavoro fu "Comme se canta a Napule" edita da Bideri. Gli anni passavano ed E.A. Mario con l’aiuto di tale editore pubblicò tante altre canzoni. Nel 1915 l’Italia entrava in guerra... la Prima Guerra Mondiale... la Grande Guerra. Giovanni Gaeta non vi partecipò come soldato perché orfano di padre e sostegno di famiglia, ma la sua "La Leggenda Del Piave" da lui composta il 24 giugno 1918 gli valse, tra i tanti, un grande riconoscimento, quello del Generale Armando Diaz che gli inviò questo scritto: "Mario, la Sua Leggenda del Piave al fronte vale più di un Generale!" Questa "Leggenda" racconta, in quattro strofe, tutti gli orrori della guerra, la stanchezza dei soldati e le vicende che portarono alla disfatta di Caporetto ed alla successiva cacciata degli austriaci da Trieste e da Trento fino alla vittoria finale... a Vittorio Veneto! Breve parentesi: questa celebre canzone, fu messa nella lista delle canzoni adatte a diventare inno nazionale italiano dopo la nascita della Repubblica Italiana nel ‘47. L’allora presidente del Consiglio dei Ministri On. Alcide De Gasperi convocò a Roma E. A. Mario e chiese al celebre compositore di scrivere un inno per la nascente "Democrazia Cristiana". E. A. Mario declinò l’offerta dicendo che egli non scriveva su commissione. De Gasperi, non gradì la spontaneità e il rifiuto del Maestro e decise di non appoggiare la candidatura della "Leggenda Del Piave" a inno nazionale. Nel 1919, Giovanni Gaeta convolò a nozze con Adelina e dalla loro felicissima unione nacquero tre figlie: Bruna che fu la sua pianista, affiancandolo artisticamente nei i suoi concerti e accompagnando al piano i più grandi cantanti dell’epoca come Pasquariello, La Donnarumma, Parisi e tanti altri; la dolcissima Delia, che ha raggiunto il padre in cielo il 15 ottobre di quest’anno e Italia che nel 1945 sposò Ottavio Nicolardi, figlio di Eduardo, autore di splendide poesie, che compose con il futuro consuocero E.A. Mario tante belle canzoni, tra le quali, nel 1944, la celeberrima "Tammuriata Nera", considerata come quella che chiude la lunga e gloriosa epoca della canzone classica napoletana... alla quale E.A. Mario fu sempre fedele non piegandosi mai alle sirene della allora nascente musica "industriale". Giovanni Gaeta si spense nella casa di Napoli al viale Elena n. 30, il 24 giugno 1961 amorevolmente assistito dalle amatissime figlie.

Massimo TROISI
(S. Giorgio a Cremano 19/02/1953 - Ostia 04/06/1994)

Massimo Troisi nasce a S. Giorgio a Cremano (Na) il 19 Febbraio del 1953. Cresce in una famiglia molto numerosa, composta dai genitori Alfredo ed Elena Andinolfi , cinque fratelli, gli zii con cinque figli ed i nonni. Massimo terrà sempre nel cuore la sua famiglia, tanto da "ricreare" nei suoi film quello stesso ambiente di casa sua. Diplomatosi geometra, inizia a nutrire passione per la poesia, ispirandosi al suo autore preferito Pasolini. Nel 1969 inizia a recitare in parrocchia con un gruppo di amici d’infanzia tra cui Lello Arena. Presto questo gruppo si sposterà in un garage della stessa cittadina nativa di Troisi e si chiamerà "Centro Teatro Spazio". Nel 1976, il gruppo teatrale formatosi dopo la venuta di Vincenzo Purcaro che, in seguito, cambierà il suo nome in Enzo De Caro, si chiamerà "I Saraceni" e, a distanza di un anno, il gruppo si chiamerà "La Smorfia". Questo trio vincente inizia ad avere sempre più successo non solo a livello locale ma anche nazionale. Iniziano con il cabaret romano "La chanson" ed in seguito vengono resi famosi dalla radio in "Cordialmente insieme", dove propongono i loro sketch più famosi e memorabili come S. Gennaro e Annunciazione.  Il grandissimo successo arriva con trasmissioni come "Non Stop" nel 1977, "La Sberla" nel 1978 e "Luna park" nel 1979. Con "Così è (se vi piace)" Troisi inizia ad emergere dal gruppo, con il suo modo comico ma indescrivibilmente drammatico di descrivere la situazione della società dell’epoca. Si distinguerà presto, infatti, nel suo primo film "Ricomincio da tre" dove è primo attore protagonista, sceneggiatore e regista. Questo film fu un esordio fra i più importanti nel mondo del cinema italiano, ottenendo due Nastri d’argento come miglior regista e due David di Donatello per miglior film e miglior attore. Trosi accetta di fare un programma televisivo comico su Rai Tre nella serie "Che fai Ridi?". Il titolo dello spettacolo era "Morto Troisi, viva Trosi" a questo spettacolo partecipano molti suoi amici altrettanto famosi: Carlo Verdone e Roberto Benigni. Nel 1982 gira con Lello Arena "No grazie, il caffè mi rende nervoso". Nel 1983 ottiene un altro grandissimo successo con "Scusate il Ritardo" in cui è sempre alle prese con la sua vita, la sua timidezza ed il solito suo amico Lello Arena. Nel 1984 fa coppia con Benigni in "Non ci resta che piangere" i due, completamente diversi in comicità e gestualità, formano una coppia incredibile, divertentissima e irripetibile.  Nel 1986 girerà "Hotel Colonial" nel quale interpreta un traghettatore. Il film in uno stile più drammatico, ha sempre quella bellissima vena comica che contraddistingue Troisi. Anche nel 1987 con "Le vie del signore sono finite" vince un altro nastro d’argento per la miglior sceneggiatura. Nel 1988 lavora con Marcello Mastroianni in "Splendor", il regista questa volta non è lui ma Ettore Scola e lo sarà anche per gli altri due film "Che ora è?" (1989) per il quale viene premiato con la Coppa Volpi alla Mostra del cinema di Venezia, e nel 1990 con "Il viaggio di Capitan Fracassa". Nel 1991 ecco un altro film che vede regista Troisi, "Pensavo fosse amore invece era un calesse", film interpretato con Francesca Neri. Nel 1994 Massimo inizia ad avere problemi alla valvola mitralica che i dottori trovano molto danneggiata (nel 1971 subì già una operazione) ma lui non vuole rinunciare ad iniziare le riprese del film "Il Postino" che sarà purtroppo il suo ultimo film. Per questo film Massimo ottenne un oscar dopo la sua morte. Muore il 4 Giugno del 1994, un giorno dopo la fine delle riprese del suo ultimo ma indimenticabile film, nella casa della sorella ad Ostia.
Il fratello Luigi scrive:
"COREMALATO" nun ce stà cchiù!
Destino ‘nfame se l’ha pigliato, proprio int’’o meglio ‘da giuventù.
Faceva ‘attore comico, sapeva recità, facenno fesso ‘a vita... ‘co ridere e ‘o pazzià.

Casa ASCIONE
(Torre del Greco 1855)

Giovanni Ascione nacque a Torre del Greco il 13 settembre 1834 da Domenico e Angela Scognamiglio. Quarto di nove figli, giovanissimo, decise di avviare con il fratello Domenico jr. un’azienda per la trasformazione del corallo grezzo in prodotto finito e fondò nel 1855 la ditta Ascione Giovanni e Fratelli. Il padre Domenico, era armatore di "coralline", le tipiche imbarcazioni usate nella pesca del corallo. L’apertura della ditta consentì pertanto di completare, in ambito familiare, il circuito produttivo del corallo: pesca, lavorazione e commercializzazione, riproponendo così un modello imprenditoriale già tentato con successo ai primi del secolo. All’interno dell’azienda, Giovanni assunse il ruolo non solo di imprenditore, con alle spalle già buoni studi commerciali, ma anche di preziosa guida dei suoi artigiani, potendo contare su una conoscenza profonda delle tecniche di lavorazione, acquisita durante l’apprendistato giovanile svolto in bottega. Ben presto l’azienda riuscì a qualificarsi come una delle più prestigiose e significative del settore, partecipando a numerose Esposizioni Nazionali e Internazionali dove ricevette attestati che premiavano la qualità e l’originalità dei suoi prodotti: non solo corallo lavorato a forma di grani di varie forme per fili e collane, ma soprattutto corallo inciso a bulino per realizzare una vasta gamma di prodotti che andava dai gioielli di lusso alla bijouterie. Attento al mutare del gusto e delle mode, elaborando in prima persona le principali linee di produzione, Giovanni aprì la lavorazione tradizionale a nuovi motivi decorativi. Proprio dal desiderio di realizzare all’interno della propria azienda gioielli finiti, con una scelta innovativa e coraggiosa nel contesto torrese, affiancò al laboratorio del corallo quello di oreficeria (attualmente Torre del Greco è il quarto centro per produzione orafa in Italia) e, in seguito, anche la produzione di cammei in conchiglia, di manufatti in madreperla, in tartaruga, diversificando ulteriormente le linee di lavorazione. Nella ditta crebbe rapidamente il numero di artigiani impiegati, fino a raggiungere alla fine del secolo le 50 unità circa. Gli anni ’70 segnarono la definitiva affermazione dell’ azienda. La domanda, sempre cospicua, sia di corallo inciso da destinare alla gioielleria, sia di liscio, vero nerbo dell’industria, proveniva dai più disparati mercati come Londra, Parigi, le province dell’Impero Austro-Ungarico, il nord Africa e l’India. Nel 1869 venne attivata anche una linea di vendita per corrispondenza attraverso cataloghi in stampa. Nello stesso anno, la manifattura divenne fornitrice della Sala Diomede, all’interno del complesso archeologico di Pompei, un negozio specializzato nella vendita di Souvenir. Giovanni decise anche l’apertura a Napoli di un negozio destinato alla commercializzazione dei prodotti realizzati nei laboratori di Torre del Greco: inizialmente avviato in via Toledo, dal 1874 si trasferì alla Riviera di Chiaia. Il primo riconoscimento ufficiale per la Casa giunse nel 1865, con l’assegnazione della medaglia d’oro in occasione dell’Esposizione Internazionale di Oporto. Da allora premi, diplomi, medaglie, si sono susseguiti numerosi nelle esposizioni sia nazionali che internazionali cui l’azienda fu invitata a partecipare. Nel 1875 Giovanni chiese e ottenne di poter fregiare dello stemma reale le insegne del negozio. Dal 1876 la "Giovanni Ascione e Fratelli" diventò "Giov. Ascione & Figlio", in seguito all’ingresso del primogenito Domenico. Nello stesso anno aprì a New York la sede "Giov. Ascione & Son", succursale chiusa nel 1880, dopo la prematura scomparsa di Domenico appena rientrato in Italia. Giovanni volle conferire alla propria azienda il carattere di impresa familiare che essa avrebbe mantenuto per le successive generazioni: dopo il figlio Domenico anche Francesco, Luigi, Giuseppe, Carlo e Giovanni Jr. La fine degli anni Ottanta portò a Torre del Greco una crisi economica violenta e grave, dovuta alla scoperta degli abbondanti banchi di corallo rinvenuti a Sciacca in Sicilia. Dinanzi a un mercato scosso dalla conseguente massiccia diffusione di manufatti molto commerciali, per distinguere il proprio prodotto e mantenere una fascia di mercato alta e qualificata, per Giovanni si rese indispensabile puntare non solo sulla qualità della materia prima ma soprattutto sulla qualità della lavorazione. La riconosciuta inadeguatezza del corallo di Sciacca spinse, sul finire degli anni Ottanta, Giovanni a diversificare la produzione: cammei in conchiglia, tartaruga, madreperle fecero sì che l’azienda mantenesse viva la propria attività. Quasi contemporaneamente un nuovo tipo di corallo veniva scoperto sui mercati in India: arrivava dai mari del Giappone e Giovanni fu tra i primi a importarlo. Di maggiore diametro, più consistente e compatto, il corallo del Giappone condizionò gli indirizzi della manifattura che, abbandonando le fasce piu basse e commerciali, si orientò rapidamente verso la gioielleria di lusso. Nel settore dell’incisione, il periodo a cavallo tra ’800 e ’900 registra la ripresa e la forte ibridazione dei principali indirizzi stilistici che avevano caratterizzato il XIX secolo. Vengono immessi sul mercato composizioni neorinascimentali, non di rado arricchite di motivi floreali e naturalistici, in linea con le suggestioni del nascente stile Liberty. Nel 1905, la manifattura Ascione riceveva da Vittorio Emanuele III il secondo brevetto reale. Nonostante i successi ottenuti nel lavoro e il pubblico riconoscimento di stima, Giovanni di carattere schivo e riservato, si tenne lontano dalla vita pubblica dedicandosi unicamente al lavoro e alla famiglia. Morì nel 1908 a Torre del Greco all’età di 75 anni, lasciando i suoi figli alla direzione dell’azienda. Ancora oggi, alla quarta generazione, Giuseppe, Mauro, Caterina, Marco e Giancarlo Ascione, esprimono la forza di una tradizione artigiana secolare, maturata nel solco di una solida e mai interrotta continuità familiare.

Ciro CAPANO

"Offrire più spazio allo spettacolo di tradizione, evitando di privilegiare unicamente la ricerca sperimentale, per non perdere di vista le identità e le radici culturali che fanno del teatro una delle più grandi espressioni del popolo napoletano". Ad affermarlo è Ciro Capano, il popolare attore e cantante partenopeo. Nato a Napoli il 13 agosto 1960, debutta nel 1974 al Teatro Stabile della Sceneggiata di Napoli, con Beniamino, Rosalia e Dante Maggio. Prosegue, nell’ambito della sceneggiata, con vari protagonisti della scena teatrale napoletana quali Mario Merola, Angela Luce, Tecla Scarano ed altri ancora. Nel 1981 viene scritturato dal Teatro Sannazzaro di Napoli e lavora al fianco di Luisa Conte e di Nino e Carlo Taranto interpretando, dal 1987, ruoli di Primo Attore Giovane. Voce importante nel panorama canoro napoletano, è considerato uno degli ultimi "cantanti di giacca". Diviso tra prosa e musica, per la regia di Raffaele Esposito, con il contributo dell’orchestra diretta da Tonino Esposito, mette in scena "M’arricordo" in cui Capano ripercorre le tappe salienti della sua carriera. Partendo dal tempio della sceneggiata moderna, il "Teatro 2000", che lo vide debuttare nel 1975, l’artista giunge, attraverso il ricordo delle esperienze con i Taranto e la Conte al Sannazaro, ai successi canori e teatrali di oggi. Con questo suo spettacolo, egli intende far rivivere i suoi oltre trent’anni di teatro, incontrando virtualmente coloro che hanno contribuito alla sua crescita artistica: personaggi come Riccardo Pazzaglia, che lo osservò tra gli interpreti della sua commedia musicale "Partenopeo in esilio", Roberto De Simone, Mariano Rigillo, Silvio Orlando, Mario Martone e Marisa Laurito, insieme alla quale ha partecipato al musical cult "Novecento Napoletano". La sua principale attività nel mondo del cinema è quella di interprete. Tra i lavori più interessanti la partecipazione nel film Tifosi (1999) di Neri Parenti, dove ha interpretato la parte della prima guardia carceraria e nel 1999, con la regia di Carlo Vanzina, interpreta la parte del napoletano nel film Vacanze di Natale 2000. In Televisione, partecipa in ruoli di gran rilievo a: Don Matteo, Il Commissario Montalbano e Teatro di Guerra. Versatile, poliedrico, instancabile ha ottenuto dal pubblico il riconoscimento dell’attore di teatro "vero" fatto con la gavetta, il sacrificio e la passione.
TEATRO
"Partenope in Esilio"; "Miseria e Nobiltà" con la Compagnia di Mario Scarpetta; "Novecento Napoletano" con Marisa Laurito; "Festa di Montevergine" di R. Viviani, regia di Armando Pugliese; "La Fortuna con la F Maiuscola" con Aldo e Carlo Giuffrè; "Agamennone" con Mariano Rigillo, regia di Roberto De Simone; "Gilda Mignonette" con Lina Sastri; "Masaniello" regia di Tato Russo; "La Pelle", "Eduardo al Kursaal" e "Masaniello" regia di Armando Pugliese; "M’Arricordo" testo e regia di Raffaele Esposito; "Novecento Napoletano" regia di Bruno Garofalo.
CINEMA
"I Guappi" regia di Pasquale Squitieri; "La Pelle" regia di Liliana Cavani; "Maccheroni" regia di Ettore Scola; "Simpatici e Antipatici" regia di Christian De Sica; "Teatro di Guerra" regia di Mario Martone; "Vacanze di Natale 2000" regia di Carlo Vanzina; "Tifosi" regia di Neri Parenti; "Quello che le Ragazze non Dicono" regia di Carlo Vanzina; "Ribelli per Caso" regia di Vincenzo Terracciano; "L’avvocato De Gregorio" regia di Pasquale Squitieri; "Il Seme della Discordia" regia di Pappi Corsicato; "Fortapasc" regia di Marco Risi.
TELEVISIONE
"Serata D’Onore" RAI con Pippo Baudo (cantante); "Maurizio Costanzo Show" Canale 5 (cantante); "Il Conte Di Montecristo" regia di Josée Dayan; "Seco Magic" (Spot Pubblicitario Rai); "Rosafuria" regia di Gianfranco Albano; "Luisa Sanfelice" regia di Paolo e Vittorio Taviani; "Salvo D’acquisto" regia di Alberto Sironi; "L’avvocato Guerrieri: Testimone Inconsapevole" regia di Alberto Sironi; "L’avvocato Guerrieri: Ad Occhi Chiusi" regia di Alberto Sironi; "Gente di Mare" regia di Alfredo Peiretti e Claudio Norza; "Questa è la Mia Terra" regia di Raffaele Mertes; "Don Matteo 5" regia di Giulio Base; "Un Ciclone In Famiglia 2" regia di Carlo Vanzina; "Il Coraggio Di Angela" regia di Luciano Manuzzi; "La Squadra" registi Vari; "Fortapasc" regia di Marco Risi; "Il Commissario Montalbano" regia di Alberto Sironi.

Francesco CORCIONE

Nato a Napoli li 11/02/1952, ha frequentato l’Università Federico II di Napoli, dove si è laureato, nel 1976, con 110/110 e lode e successivamente si è specializzato, sempre col massimo dei voti, in Chirurgia Generale, nel 1981, ed in Chirurgia Endocrina nel 1984. Direttore dell’unità operativa complessa di chirurgia generale laparoscopica robotica dell’ospedale Monaldi, ha sempre privilegiato l’accesso mini invasivo nella pratica chirurgica. Il centro è uno dei pochi al mondo in cui la chirurgia laparoscopica è indicata dall’appendice alla chirurgia pancreatica, gastrica, rettale ed esofagea. Il centro dispone di due sale chirurgiche integrate dedicate esclusivamente alla chirurgia mininvasiva e dal 2002 del robot "da Vinci" iniziando così ad eseguire interventi in chirurgia robotica quale terzo centro in Italia ed undicesimo in Europa. L’equipe del prof. Corcione, con molto entusiasmo, ha affrontato questa avventura. La chirurgia robotica è applicata essenzialmente per campi specifici di intervento che potranno essere, nel futuro, sempre più estese anche grazie a tecniche ottiche. Dal 2008 il prof. Corcione ha organizzato la scuola di chirurgia avanzata laparoscopica.
ATTIVITÀ CLINICO-OSPEDALIERA
Dal gennaio 1977 al settembre 1998 ha frequentato l’Istituto di Clinica Chirurgica della Facoltà Federico II di Napoli, prima in qualità di medico interno, poi come ricercatore confermato e dal 1985 con mansioni di Aiuto. Dal 15 settembre 1998 a tutt’oggi dirige la Divisione di Chirurgia Generale dell’Azienda Ospedaliera ad alta Specializzazione V. Monaldi di Napoli, dove negli ultimi tre anni ha eseguito circa 2000 interventi come primo operatore. Da maggio 2002 ad oggi ha eseguito, presso l’U.O.C. di Chirurgia Generale dell’A.O. Monaldi, 132 interventi di Chirurgia Robotica. A giugno 2007 ha eseguito, primo in Italia e secondo nel mondo, l’intervento di colecistectomia laparoscopica per via transvaginale.
ATTIVITÀ DIDATTICA
Dal 2001 è docente alla Scuola di Specializzazione in chirurgia Generale dell’Università Federico II e in Cardiochirurgia della Seconda Università di Napoli. Egli riveste altresì il ruolo di docente presso: l’Istituto Internazionale EITS/IRCAD di Strasburgo; l’EICS di Amburgo; la Scuola di Chirurgia Laparoscopica ACOI. Dal 2008 è Direttore della Scuola di Chirurgia Laparoscopica Avanzata della SIC.
STAGES E CORSI DI PERFEZIONAMENTO
Ha partecipato, durante la sua attività, a numerosi stages e corsi di perfezionamento. Tra gli altri: dall’ottobre 1981 all’ottobre 1982 ha frequentato la Clinique Chirurgicale di Reims in qualità di "attachè ètranger retribuè"; nel 1985: Corso di Perfezionamento in Laparoscopia Diagnostica presso il prof. Dagnini (Padova); nel 1987: Corso di Perfezionamento in Chirurgia Parietale ad Amiens (Prof. R. Stoppa); nel 1989: Stage di Chirurgia Laparoscopica a Lione (Prof. Ph. Mouret); nel 1992: Stage di chirurgia Laparoscopica a Digione (Prof. G. Begin). Nell’aprile 2002: Corso teorico-pratico di chirurgia robotica con esercitazione su cadavere presso l’Università di Bruxelles. Nel 2004 gli è stato conferito il premio internazionale Sebetia-ter per la Chirurgia. Nel 2006 vincitore premio Leonardo Da Vinci per la Scienza e la Tecnologia
PARTECIPAZIONE A SOCIETÀ SCIENTIFICHE
Il Prof. F. Corcione è stato: Vicepresidente S.I.C.E. (Società Italiana di Chirurgia Endoscopica e Nuove Tecnologie) 2000-2003; Consigliere S.I.C.A.D.S. (Società Italiana di Chirurgia Ambulatoriale e Day Surgery) 1998-2002; Presidente EHS (European Hernia Society) 1998-2001; Consigliere A.C.O.I. (Associazione Chirurghi Ospedalieri Italiani) 2002-2005. Il Prof. Corcione è: Presidente della S.I.C.E. (Società Italiana di Chirurgia Endoscopica e Nuove Tecnologie); Accademico Corrispondente della Accademia Romana di Chirurgia; Membro d’onore della Società Rumena di Chirurgia; Socio Fondatore LAPCLUB; Vice-Presidente EATS. Socio: SIC (Società Italiana di Chirurgia); SICE (Società Italiana di Chirurgia Endoscopica e Nuove Tecnologie); EHS (European Hernia Society); AFC ( Association Française de Chirurgie); SCFL (Societè Française de Chirurgie Laparoscopique); SICADS (Società Italiana di Chirurgia Ambulatoriale e Day Surgery).
ATTIVITÀ SCIENTIFICA E CONGRESSUALE
Ha partecipato, in qualità di relatore, a numerosi Congressi in Italia e all’estero (75) e, in numerose occasioni, ha eseguito anche interventi in diretta, prevalentemente per via laparoscopica. Ha organizzato a Napoli, negli ultimi 10 anni, 15 Congressi di interesse internazionale, tra cui il Congresso Europeo dell’EHS (nel 1997). E’ autore di 225 pubblicazioni , di cui molte su riviste internazionali (Coelio-Chirurgie, Surgical Laparoscopy and Endoscopy, EuroSurgery, Hepatobiliarygastroenterology, Hernia). Fa parte del comitato Scientifico delle riviste scientifiche "Le journal de coelio-chirurgie" ed "Hernia". Ha partecipato alla stesura di numerosi testi didattici (Zannini, UTET; Mazzeo, PICCIN; Battocchio, UTET; Corcione - Chirurgia Videoassistita - Ed. De Nicola; Web - Surgery - Marescaux; Valeri - Chirurgia del surrene; De Giuli - Chirurgia del cancro gastrico). È autore del libro "New procedures in open hernia surgery", Springer-Verlag. È autore di due testi atlante di chirurgia laparoscopica editi dalla c.ed. Gnocchi.

Franco FARINA

Nel 1943 a Napoli nel popolare quartiere di Barra (piazza Crocella) sotto l’eco dei bombardamenti nasce Franco Farina da Adolfo e da Nunzia Caruso. Erano anni difficili quelli del dopoguerra, ancor più per le famiglie di artigiani, come quella di Franco. Immaginiamoci quindi la gioia insperata quando egli ricevette in dono, in tenera età, una fisarmonica acquistata con grandi sacrifici dai genitori per fargliene dono nel giorno della befana nei lontani anni ’50. Da quel momento, il piccolo Franco non se ne separa più e, da autodidatta, prende confidenza anche con i tasti del pianoforte; successivamente, grazie ai proventi di una borsa di studio, ne acquista uno. Si diploma all’Istituto Tecnico Alessandro Volta di Napoli ma, la sua passione per la musica, lo porta ad iscriversi al Conservatorio "D. Cimarosa" di Avellino, dove si diploma in solfeggio. Nato e vissuto a Barra, da figlio del popolo, sente moltissimo l’atmosfera trascinante della famosissima "Festa dei Gigli" e compone, per quell’occasione, moltissime "marcette" di accompagnamento ai festeggiamenti che annualmente si tengono a Barra, Nola e Brusciano. Ancora giovanissimo, entra a far parte della prestigiosa orchestra dei Fratelli Desidery e, qualche anno dopo, esegue numerosi concerti con il noto trombettista Nini Rosso, esibendosi con lui anche in Giappone. Con la stessa passione, si dedica inoltre, alla letteratura ed alla pittura vincendo anche qualche premio di riconoscimento. Da direttore d’orchestra, ha collaborato con diversi e noti cantanti napoletani ed attualmente partecipa a varie trasmissioni televisive di note emittenti napoletane, tra cui Tele Akery. Nell’estate 2009, su richiesta dell’Associazione Regina Elena (AIRH), ha accompagnato il bravissimo Ciro Capano in un recital di canzoni napoletane nel Chiostro dei Girolamini dei Padri Oratoriani in Napoli, alla presenza di Mons. Antonio Tredicini e di Sua Eminenza il Cardinale di Napoli Crescenzio Sepe.

Luigi GRASSI

L’Ospedale delle Bambole di Napoli, è un luogo particolarmente denso di memoria dove esperti artigiani si prendono cura delle bambole "malate". L’Ospedale non ha l’aria della bottega antiquaria: è invece un coloratissimo negozio di giocattoli. Qui le bambole in plastica o gli orsacchiotti di pezza tornano a vivere. Nel retro del negozio, si trova la sala operatoria per bambole e orsacchiotti: una vecchia macchina per cucire e tutti i ferri del mestiere, forbici, uncini, aghi e spaghi vari. Un vero e proprio angolo a sé nella caotica e sempre suggestiva "SpaccaNapoli". Qui sembra che il tempo, ma soprattutto il progresso tecnologico, non abbia minimamente alterato il lavoro che è rimasto fedele nello spirito e nella tecnica al modello arcaico, conservando i metodi, ma soprattutto la passione che da sempre accompagna gli artigiani di questa famiglia che generazione dopo generazione si sono susseguiti. "Spesso riparo bambole per uomini e donne non più giovani, non ha importanza il loro valore economico, ma soltanto quello affettivo", dice don Luigino, conosciuto nel popolare quartiere San Lorenzo come il "medico delle bambole". Nella struttura, un piccolo locale di Via San Biagio dei Librai 81, inaugurato nel 1899, accorrono da ogni parte d’Italia nostalgici, possessori e collezionisti di antichi e moderni balocchi. L’idea fu del nonno di don Luigino, scenografo al San Carlo di Napoli che iniziò, come passatempo, a riparare bambole di cera o di pezza e, raramente di porcellana. Poi suo figlio Michele, scultore di statue e statuine da presepe, ne fece un vero lavoro aprendo bottega nei pressi della Via dei Pastori. Ne è continuatore l’attuale titolare, con la collaborazione della figlia Tiziana e l’interesse degli ultimi tre nipotini. Sparse un po’ ovunque sugli scaffali, nell’attesa di essere riparate, bambole d’epoca dall’espressione triste e qualche pezzo mancante. Pastori del Settecento e Ottocento, l’epoca d’oro del presepio napoletano, sono in mostra alla rinfusa insieme a Pupi Siciliani e Madonne antiche di rara bellezza. Alle pareti attestati di stima, copie di giornali ingialliti e guide straniere che parlano dell’attività dell’unico restauratore di pupattole. Prima dell’avvento di Barbie, la bambola era privilegio di pochi, a volte trastullo di principesse e regine, costruite con gran maestria in Italia, Germania, Francia, con il legno, poi con la cera, più tardi con la cartapesta e la porcellana. In Val Gardena coinvolgeva intere famiglie: chi si occupava dei corpi, chi degli arti, chi intagliava le teste e chi le decorava. All’inizio dell’Ottocento il legno fu soppiantato da altro materiale. Le teste avevano lineamenti e acconciature che obbedivano alla moda del momento. In altre erano inseriti occhi di vetro e piccoli denti di bambù. Con il biscuit, si seguì il metodo messo a punto per la cartapesta. Anche in questo caso, la pasta morbida della porcellana era pressata nelle due metà dello stampo, fatta essiccare, dipinta e cotta in appositi forni a temperature elevate. Verso la fine dell’Ottocento, Parigi con le sue ditte più note (Gautier, Barrois, Jumeu, Bru, Steiner) decretò l’affermazione del "bébé" francese. Quei balocchi furono muniti di meccanismi per parlare, camminare, mangiare e bere. Dai maestri artigiani si è passati agli industriali di oggi, ai "designers" attenti a produrre secondo concetti consumistici e concorrenziali, a scapito inevitabilmente della qualità. L’Italia è uno dei maggiori produttori di bambole. Basti ricordare la Lenci, la Furga e la Alma di Torino. La storica bottega dell’Ospedale delle Bambole ancora oggi continua a vivere grazie all’entusiasmo di Tiziana, depositaria di una tradizione che si perpetua da ben quattro generazioni. L’ultimo progetto dell’esuberante scultrice napoletana è quello della futura musealizzazione dell’antico Ospedale delle bambole. L’obiettivo è quello di salvaguardare un’attività artigianale del tutto unica che rischia di estinguersi con la moderna produzione industriale di giocattoli che, confezionati in serie, non consentono la sostituzione delle eventuali parti danneggiate. Inoltre, come ella spiega, l’idea di realizzare un museo delle bambole nel centro storico di Napoli è anche un modo per avvicinare i bambini del quartiere ad un’entità museale fatta di giochi. L’anno 2000 vede l’inizio del progetto per la fondazione del Museo dell’Ospedale delle Bambole. Cento anni di attività testimoniati dalla presenza di centinaia di oggetti d’arte. L’obiettivo è di mettere a disposizione di tutti un patrimonio artistico di cui pochi sono tuttora a conoscenza. Il Museo risiederà all’interno di un locale del centro antico, a pochi passi dalla bottega dell’Ospedale delle Bambole, cornice ideale per un luogo davvero fuori dal comune.

Maurizio MARINELLA

"La cravate est l’homme" come si legge nel Corriere delle Dame del 30 maggio 1835. Si tratta di un accessorio certamente essenziale dell’abbigliamento classico maschile ma sicuramente privo di funzionalità. D’altronde proprio la sua "inutilità", l’ha resa quanto mai emblema di distinzione sociale: tramite essa l’uomo può esternare la propria indole ed i propri umori quotidiani. Il termine "cravatta" (in antico "corvatta") si fa generalmente derivare dal francese cravate, adattamento della parola croata hrvat (croato) e dunque significherebbe "croata". Secondo alcuni studiosi il vocabolo non avrebbe orgini croate ma si collegherebbe al turco kurbac e all’ungherese korbacs, termini che designano entrambi oggetti lunghi, come lo scudiscio e la frusta. D’altronde "cravache" in francese vuol dire frusta ed in Francia il termine "cravate" veniva già usato nel XV secolo per definire un pezzo di stoffa lungo e sottile. In Italia il termine cravatta fu adoperato nel corso del ‘500 come testimonia Cesare Vecellio nel libro "Degli abiti antichi e moderni in diverse parti del mondo" (1590), in cui a proposito del focale (antica sciarpa romana) Vecellio scrive che era "una specie di cravatta". Nel corso dell’Ottocento la cravatta cominciò ad assumere l’attuale fisionomia. L’affermazione dell’abito scuro favorì l’apertura di questo accessorio al colore ed una più vasta gamma di tessuti. Alla fine del secolo fece finalmente la sua comparsa la cravatta "moderna" la cui fortuna fu contemporanea alla moda della camicia con il collo inamidato alto e rigido. Le sue caratteristiche fondamentali si stabilizzarono in una precisa tipologia e solo taglio e larghezza continuarono a variare secondo le mode. È agli inizi del XX secolo che Eugenio Marinella getta le basi di quella che sarebbe divenuta una delle più favolose "storie di successo" napoletane. Nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, Eugenio decise, dimostrando un’innegabile dose di coraggio e intraprendenza, di aprire bottega in Piazza Vittoria sull’elegante Riviera di Chiaia di Napoli, allora come oggi, uno dei più bei lungomare d’Italia. La posizione si rivelò strategica per una botteguccia di soli 20 metri quadrati, davanti alla quale passeggiava l’alta società napoletana. Dopo aver effettuato i lavori di ristrutturazione e acquisito i due atelier, uno molto grande per la fabbricazione di camicie e un altro più piccolo per le cravatte, don Eugenio intraprese il suo primo viaggio a Londra per incontrarvi i futuri fornitori. Il negozio diventa presto un piccolo scrigno prezioso in cui si possono trovare autentici tesori di raffinatezza e di gusto, un piccolo angolo di Inghilterra a Napoli. In un’epoca in cui lo "stile inglese" è molto di moda, Marinella è il solo a proporre, a Napoli, una vasta gamma di prodotti esclusivi provenienti da Londra, esigendo dai fornitori inglesi l’esclusività. All’inizio, l’attività principale della bottega non è la cravatta ma la camicia, regina del guardaroba maschile. Al fine di essere al top della moda e della qualità, Eugenio induce alcuni artigiani camiciai di livello senza pari a trasferirsi da Parigi per insegnare ai suoi operai l’arte del taglio. Per quanto riguarda le cravatte, sono realizzate esclusivamente in sette pieghe: il quadrato è piegato sette volte verso l’interno così da dare alla cravatta una consistenza incomparabile. È solo molto dopo che fa la sua comparsa la cravatta attuale con la struttura interna. La storia della famiglia Marinella comincia con il capostipite Eugenio Marinella che a 34 anni e dopo quindici anni nel settore dell’abbigliamento maschile, decise che era giunto il momento di cambiare lo stile ed il modo di vestire di un uomo che conta. È lui il fondatore della "filosofia Marinella": più che un punto vendita un salotto dove le relazioni umane si basano su disponibilità, cortesia e rispetto. Dopo di lui il figlio Luigi ed oggi il nipote Maurizio hanno portato avanti la sua filosofia facendo delle cravatte Marinella un vero e proprio simbolo di eleganza. Negli anni che precedettero la sua morte, don Eugenio, aveva imposto al nipote Maurizio, che all’epoca aveva circa dieci anni, di trascorrere ogni giorno qualche ora nel negozio perché potesse respirarne l’aria; Maurizio ricevette così due insegnamenti: quello del nonno delle relazioni con la vecchia clientela e quello del padre che gestisce l’avvento del boom economico. Maurizio ha saputo coniugare lo spirito imprenditoriale con la disponibilità verso la clientela: nel periodo natalizio, per esempio, dove le code davanti al negozio sono interminabili, offre sfogliatelle e caffè alle persone in attesa per farle pazientare. Se il piccolo negozio di Napoli è, oggi come ieri, il luogo di incontro delle persone eleganti di tutto il mondo, lo si deve alle tre generazioni Marinella che non hanno mai voluto tramutare il nome in un grande marchio ma hanno preferito associargli l’immagine di piccolo negozio che oggi, come nel 1914, propone prodotti di qualità in un ambiente discreto e conviviale ma al contempo informale. Ancora oggi, come all’inizio del secolo, le cravatte di Maurizio Marinella sono al collo degli uomini più eleganti e famosi: il libro delle firme, custodito gelosamente in bottega, annovera gli autografi di molte teste coronate e presidenti di stato, alti esponenti della politica e dell’imprenditoria, della cultura e dello spettacolo. "Honny soit qui mal y pense!" Questa frase, insieme ad uno stemma reale sormontato da una corona con un unicorno da un lato ed un leone dall’altro, appare su un lussuoso posacenere di ceramica blu appoggiato su un mobile scuro, accanto ad un vecchio orologio di legno, con le lancette che segnano le 17.00, ora del tè in Inghilterra. L’orologio, il mobile ed il posacenere si trovano in un piccolo angolo di "Old England": il negozio di Marinella. Marinella infatti da cent’anni è fornitore ufficiale della Casa Reale inglese ed è insignito di questo prestigiosissimo fregio.

Patrizio MARRONE

Nato a Napoli, si è diplomato in Pianoforte con Massimo Bertucci e in Composizione con Bruno Mazzotta. Nel 1988 è stato ammesso alla Hochschule fur Musik di Karlsruhe per un Kontactstudium con Wolfgang Rihm, frequentando, poi, i "Corsi speciali di Composizione" con Giacomo Manzoni presso la Scuola Musicale di Fiesole e alcuni seminari tenuti da Franco Donatoni. La sua carriera di compositore lo ha portato nei principali teatri italiani, Milano, Roma, Venezia, Firenze, Bologna, Bergamo, Livorno, Forlì, Verona, ed a collaborare con importanti enti quali l’Ente Lirico di Cagliari, il Teatro San Carlo, l’Ensemble Modern di Francoforte, Worlsdsax 2006 (Lubiana), Festival Jusqu’aux Oreilles" di Montreal, Parlamento Europeo, Settimane di Musica d’Insieme dell’Associazione Alessandro Scarlatti, L’Orchestra Nuova Scarlatti, il Festival 900 Europeo, Estate Musicale Sorrentina, Festival di Ravello, il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. All’estero è stato ospite del Conservatory of Cincinnati negli Stati Uniti, al Teatro dell’Opera di Rouen e al Festival di Belfort in Francia. Ha anche partecipato, in più occasioni, a programmi radiofonici trasmessi da: Rai, Radio Vaticana, Radio France. Nella sua vasta produzione figurano numerose composizioni cameristiche e sinfoniche come Recitativo e Contrappunto, Conversazioni con le cose senza nome, Kammerkonzert, Adagio per archi, Quartetto per archi, La marriee mise a nu, Tre studi per Kammermusik, Sestetto, Divertimento, Adagio e allegro, Polittico, Studi per pianoforte, De "Ave Maris Stella", concertino in forma di passacaglia per corno e corni, imeditazioni su Tannhauser Sinfonietta per fiati, Sinfonia per archi, Terza sinfonia, Concerto per trombone e archi, Questa non è una carezza, i balletti quali La Bella e la Bestia,Valzer e bucolico, Le Troiane, Magnificat, Adagio a tre voci, Rossini Circus, nonché una commedia musicale per bambini, Il Respiro del Bosco. Il suo interesse per i capolavori letterari lo ha spinto alla creazione di originali forme di teatro musicale cameristico quali Cantata per Cirano, Memorie di una Maschera, Don Chisciotte, mentre nella sua produzione un aspetto molto importante assumono le musiche di scena per: La Tempesta, Sogno di una notte di mezza estate, Il Candelaio, Romeo e Giulietta, Commedia degli equivoci, Amleto, tanto per citarne solo qualcuna. Ha composto inoltre l’opera musical Masaniello. Nel 2003 ha composto la commedia musicale "Annata Ricca"che ha debuttato al teatro Politeama di Palermo. Molto attiva la sua attività di elaboratore musicale:ha infatti rielaborato "La Vedova Allegra," canzoni italiane degli anni 30 e 40, numerose colonne sonore cinematografiche. È docente di Composizione al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli dove, dal Marzo 2000 al Settembre 2004, ha ricoperto il ruolo di Vicedirettore; presso la stessa istituzione, è stato "coordinatore del progetto relativo alle revisioni e prime esecuzioni di opere inedite custodite presso la Biblioteca San Pietro a Majella" curando, nell’ambito di tale progetto, la revisione dei mottetti per le quarant’ore di "Erasmo di Bartolo", monumentale opera sacra del XVII secolo. Patrizio Marrone è stato "composer in residence" del festival internazionale "Estate Musicale Sorrentina" ed è attualmente "composer in residence" degli "Incontri internazionali di Cornisti Guelfo Nalli". Da novembre 2008, è Direttore del conservatorio San Pietro a Majella di Napoli.

Gianni MOLARO

Gianni Molaro, dopo un’iniziale attrazione verso la teologia, si dedica allo studio dell’arte e dell’architettura. Inizia il suo percorso artistico a venti anni con piccole esposizioni di tele dipinte, fino alla realizzazione del suo primo atelier pieno di gingilli, stoffe, piccoli oggetti, dove pittura e sartorialità si fondono definitivamente in un’unica grande passione. Nel 1989 presenta alla Mostra d’Oltremare di Napoli la sua prima collezione ispirata ai fiori e al loro linguaggio, con abiti imbastiti di tele con supporti rigidi che si animano di foglie, steli e petali. Nel 1990 la sua innata passione per l’arte ispira la realizzazione dell’abito con gli occhi, un abito "vedente" che prendendo spunto alla pop-art, sottolinea, andando controcorrente, la sua piena autonomia dal corpo. Lo studio per le opere d’arte, lo conduce a esplorare sempre di più le grandi strutture architettoniche per trarne ispirazione. Così nel 1994 crea una collezione dove gli abiti interamente ricamati, riproducono il fregio dei cinque gigli dell’obelisco della Madonna di Piazza di Spagna a Roma e quello dei preziosi capitelli della Reggia di Versailles. Poiché l’ironia e la trasgressione sono la spinta del suo eccesso che spazia fino al kitsch, inteso sempre come espressione artistica di sottile presa in giro di regole e convenzioni, per tre volte stravolge l’abito da sposa, realizzandone uno con un velo di 326 metri, un altro con un diametro di 13 metri, ed infine l’abito più prezioso mai ricamato, tempestato di 7000 diamanti. Nel 1999 debutta nel calendario Ufficiale dell’Alta Moda Italiana con una collezione ispirata alle antiche tradizioni religiose della Campania. La caratterizza usando solo tre colori, il rosso, l’oro, l’azzurro. E dallo studio delle tele di Lèopold Luis Robert e di Gaetano Gigante sul pellegrinaggio dei "Fujenti", devoti alla Madonna dell’Arco, trae ispirazione per rappresentare tutta la spiritualità napoletana attraverso trenta abiti ex-voto dove l’immaginazione e il culto si fondono l’uno con l’altro. Segue una seconda collezione dedicata agli affreschi di Pompei e ai suoi segreti, dove la carnalità e la sfrontatezza delle donne viene portata all’esasperazione. Una terza, omaggio alle opere di Salvador Dalì. Ed è proprio a quel mondo surreale dove il sogno e l’ironia ridisegnano con mano fantastica una realtà enigmatica ed eccentrica, che Gianni Molaro gioca con emozioni ed illusioni, lontane da ogni schema commerciale. Orologi deformati dalla follia del tempo, chiavi, nuvole, finestre, enigmi di un mondo onirico ed inaccessibile, sono impressi dovunque. Stupire, osare, eccedere per Gianni Molaro queste sono sempre le regole del gioco. Inizia per lui un viaggio-ricerca sulle opere pittoriche e sui tesori d’arte del Quirinale, coadiuvato da giovani pittori scelti tra gli Istituti d’arte della Campania, coniugando la sensibilità della pittura alla manualità dell’artigianato. Il mondo dell’arte è la sua unica meta. Abiti scultura, maestosi, contorti, racchiusi in se stessi o immortalati nel movimento, sono resi mobili da costruzioni e ricostruzioni di materiali, dai tessuti al metallo fino ai cristalli. II punto d’inizio sono le sculture di Rabarama per abiti che poi diventano una trasposizione dell’animo umano e del suo evolversi. L’abito è il medium per eccellenza, trasmette messaggi, comunica la propria dimensione interiore, oltre che la propria fisicità, esce dagli schemi convenzionali dell’Haute Couture. Gianni Molaro e la sua unica artista Rabarama scendono la scalinata di Piazza di Spagna per "Donna sotto le stelle" 2003. Le sue sfilate non sono una promozione commerciale ma un evento d’arte e di spettacolo. Gianni Molaro vive a Pompei e lavora a San Giuseppe Vesuviano e Napoli, in studi-laboratorio dove dipinge e crea progetti sartoriali. Gianni ricerca attraverso simboli ed archetipi, schegge di energie e frammenti di morte, dilatandoli all’eccesso in grandi immagini amplificate. Dalle nebulose dell’universo astrale inizia la sofferenza della metamorfosi, la materializzazione dell’idea, la tematizzazione della forma. La materia, disordinata. caotica, informe, attraverso le emozioni dell’uomo artista prende respiro, abbandona lo stato embrionale, si riveste di carnalità. E il vestito perde la sua funzione ancestrale di copertura, di protezione, di nascondiglio, dimentica il suo ruolo di narciso vanitoso e diviene mezzo per scandagliare le oscurità dell’anima, per delineare i lineamenti e i sussulti dell’inconscio. E’ l’immensa impalcatura della memoria quella che sostiene volti, che racconta attraverso l’artifizio pittorico di espressioni mimiche e facciali, lo spavento, la tristezza, la speranza, il pianto di un mondo in cui la nascita e la morte non riescono più a definire la linea di confine tra il bene e il male, il potere di Satana e quello di Dio. Volti contratti. distorti, alterati, stravolti, viziosi, indefinibili per età, razza, sessualità. E la sartorialità diviene fondamenta essenziale di nevrotiche sculture di tessuto, che vitalizzano il corpo senza mai vestirlo, senza mai contaminarlo, malgrado i segni vistosi di malattie e sofferenze impresse su di loro. E se la simbologia è un linguaggio avulso da morale e religione perché non respinge, ma custodisce l’inconscio istinto umano, allora non vi è nulla di dissacrante né di blasfemo in quel volto su cui è impresso il dolore del mondo e che ha posto sopra il capo una banconota da un dollaro. Un percorso, quello di Gianni Molaro, che assorbe emozioni dal crudo stile pittorico di Edvard Munch, dove il corpo è sopraffatto dalla forza dell’energia psichica che esplode in un possente grido, mai liberatorio; è dall’ira e dal dolore di Picasso. A Guernica, con la sua visione di corpi sfatti e visi stravolti, rivolge lo sguardo quel grande occhio solitario che Gianni Molaro disegna al centro della schiena, al centro della spina dorsale, al centro della propria coscienza. Gianni Molaro è lo stilista d’alta moda che con i suoi abiti estrosi e le sue creazioni artistiche porta alto il nome di Napoli nel Mondo.

Mario PORTOLANO
(Napoli 1895)

Il guanto è un simbolo, un’importante protezione, un prezioso accessorio, una parola in codice. Lettera credenziale di messi e ambasciatori, pegno di un obbligo personale, simbolo di sfida e di seduzione, il suo significato assume valenze diverse in ogni periodo storico, ma sempre importante è stato il suo valore espressivo. Egiziani, Greci, Romani, Longobardi, li usavano come segno di prestigio. Il Medioevo li consegnò ai nobili ed al Clero. Alla Corte Francese ne fecero un culto, tanto che nel 1600 a loro era attribuita la migliore fattura del guanto. Nel 1700 con Napoleone, quest’arte venne portata in Italia e nel 1737 Re Ferdinando IV chiamò da Vienna a Napoli il più grande maestro guantaio: Luigi Balastron. Da allora Napoli è al primo posto nel mondo nella produzione di guanti in pelle, per eleganza, stile e qualità. La storia del marchio "Mario Portolano" ha origine nel 1895. Da oltre cento anni questa Azienda produce, nel solco delle migliori tradizioni napoletane, guanti di grande qualità e di raffinata fattura. Questa produzione affonda le sue radici nella cultura artigianale napoletana e tramanda, attraverso i tempi, la passione, l’esperienza e la sapiente manualità della lavorazione. La scelta delle diverse qualità di pelle, la massima cura dei particolari e delle rifiniture, il perfetto equilibrio tra originalità ed eleganza, rende i guanti di Mario Portolano un prodotto di pregio e molto apprezzato. La produzione, che ha un marchio proprio di alta fascia e linee in alleanza con gli stilisti e le maison di alta moda e prêt-à-porter, è a ciclo completo: dalla fase della concia delle pelli a quella della tintura sino alla lavorazione finale dei guanti. Ogni guanto è il risultato di una lunga serie di trasformazioni affidate ad altrettante fasi di lavorazione, ognuna compito esclusivo di esperti maestri artigiani. Ogni passaggio viene realizzato a mano e con l’uso di speciali macchine e richiede cura, attenzione, esperienza, manualità e dedizione. È questa un’arte unica che deve essere preservata e tramandata per evitare che vada irrimediabilmente perduta. Negli anni ’60 vi erano centinaia di famiglie, migliaia di uomini e donne che lavoravano la pelle per la realizzazione di guanti di ogni tipo, concentrati in diverse zone della Napoli antica, quasi come fossero piccoli distretti industriali, a partire dal borgo Vergini, via Sanità, via Capodimonte, via Fontanelle e su fino al rione Materdei. Un’intera fetta di economia campana il cui prodotto era destinato oltre che al mercato interno, ai vari mercati esteri. Merito della Mario Portolano è quello di mantenere sempre alto il livello, la qualità e lo sviluppo dell’arte guantaia napoletana nel mondo. La sua produzione è ben rappresentata nello Show-Room di Napoli in Via Chiaia 140.

Gianni QUINTILIANI

I posteggiatori, voce indelebile di quella poesia in musica chiamata canzone napoletana, sono figure inscindibili dalla storia e dalla cultura di Napoli: per sette secoli menestrelli, musici e cantori hanno vissuto tra il Vesuvio e il mare, spesso viaggiando in paesi lontani per poi tornare ricchi di bei ricordi ma sempre poveri di risorse economiche. Le origini e lo sviluppo della canzone napoletana sono legati a filo doppio con l’arte "di strada" dei posteggiatori, umili e sconosciuti propagatori di poesie e melodie non di rado destinate all’immortalità. La loro arte ha punteggiato i secoli d’oro della canzone di Napoli. Certo i posteggiatori napoletani furono gli strenui rappresentanti di una tradizione che ha un posto incancellabile nella storia delle espressioni poetiche e musicali della cultura popolare dell’Europa mediterranea". Il giornalista Mimmo Liguoro, nel suo volume "I posteggiatori di Napoli", così tratteggia questi protagonisti della cultura partenopea. "L’arte dimora nell’emozione, quella che ogni sera giunge allo spettatore attento": a parlare è Gianni Quintiliani, tra i più conosciuti ed apprezzati posteggiatori di Napoli. I suoi spettacoli diventano un vero appuntamento con la melodia vesuviana, quella palpitante, senza mediazioni, da ascoltare solo con il cuore e la voglia di lasciarsi trasportare nell’universo di un intramontabile pentagramma. Lui, ha sempre respirato la musica napoletana, fin da quando era ragazzo. Pietro, il padre, ha interpretato i più grandi successi della tradizione canora napoletana. Ben presto, Gianni lascia da parte la sua occupazione per esaltare quel dono, quell’ugola d’oro che si ritrova. Ma il segreto del suo successo non è dovuto solo alla voce. Ben presto, Quintiliani si ritaglia un suo spazio, soprattutto per la fedeltà con cui ripropone quei versi, per la meticolosa attenzione alle parole pronunciate. Ne comprende il vero significato, l’emozione, l’intenzione dell’autore. L’affascinante miscela viene riproposta al pubblico ed è immediato successo. Narra di quando Arnoldo Foà ascoltava estasiato "’O cunto ’e Mariarosa", di quando Mia Martini gli disse: "Grazie dell’emozione che mi hai fatto provare questa sera", di quando ascoltò alla radio "Napule che se ne va", interpretata da "Ciccio ’o conte", al secolo Francesco Coviello, e ne ravvisò un errore nel testo: l’indomani , in Galleria, lo svelò al cantante che esclamò "Nun me ne so accorto manco io. In questa attività diventerai un grande". La memoria di Gianni Quintiliani offre manciate di gustosi aneddoti, di preziosi squarci sulla cultura della posteggia. ‘A Pusteggia, da "puosto" (posto), era un modo di guadagnarsi la giornata, di spargere a Napoli e dintorni il profumo della melodia. Insomma, era una vocazione artistica, espressa soltanto in quel modo di cantare e suonare per banchetti, tavolate o sotto ai balconi per le serenate. I musici d’occasione - e un tempo ne sciamavano davvero tanti - non amavano l’appellativo di "posteggiatori". Preferivano quello di "professori", quasi a rivendicare la nobiltà di dottori del pentagramma. Come fece generosamente Giovanni Gaeta (il famoso E.A.Mario) nella sua canzone "Dduje paravise". Dalle taverne del seicento alle osterie, dalle trattorie ai ristoranti, ai salotti privati per proporre le melodie classiche della canzona napoletana. Nel loro repertorio trovavano spazio anche le divertenti "canzoni di macchietta". Questi suonatori erano mossi da passione, ma soprattutto dalla necessità di portare a casa qualche spicciolo. Nel 1569, una Corporazione di musici ambulanti fu riconosciuta dall’Eletto del Popolo. I cantori girovaghi consociati potevano fruire di una indennità di malattia, premi di nuzialità e perfino il diritto di sepoltura a spese dello stesso sodalizio. La loro sede era nelle vicinanze della chiesa di San Nicola alla Carità. La storia ci rimanda alcuni nomi: Masto Roggiero, Cumpà Junno, Muchio, Mase, Ciullo ’o surrentino, Giovanni Leonardo Primavera detto Giallonardo dell’Arpa, l’apprezzatissimo Sbruffapappa, lo Cecato de Potenza. Altra caratteristica dei posteggiatori fu la "Parlèsia". Quintiliani la evoca: "Nell’Ottocento, i musici impegnati in questo duro lavoro inventarono una lingua, un codice tutto loro per poter liberamente parlare davanti ai clienti senza dare loro nessuna possibilità di essere compresi. Le ‘bbane’ erano i soldi, "spunisce ’o jammo" significava: va’ da chi ci ha chiamato e fatti pagare, così ce ne andiamo", ’a cummarà invece era la chitarra, e così via". In breve, questi artisti puri si muovevano negli antri del popolo, dove si mangiava per pochi soldi e per una manciata di monete si poteva assistere al teatro della vita napoletana, con tanto di sottofondo musicale. Non di rado, si assisteva a scenate di gelosia, a risse in nome dell’onore. Ed allora, la cosa da salvare, prima ancora della pelle, era lo strumento. Con quella chitarra, con quel mandolino, campava una famiglia intera. Oltre a divertire i convenuti, i posteggiatori divennero anche procacciatori di clienti per il locale che li ospitava. Avevano una conoscenza essenziale delle sette note. Spesso le melodie venivano improvvisate, con accordi a dir poco spavaldi. Ma sulla voce, nessuna leggerezza. O meglio, si cantava con un filo di voce, questo sì, ma l’intonazione doveva essere perfetta, con tanto di cuore palpitante. Ora, Gianni Quintiliani ci saluta, con l’affabilità tipica dell’anima napoletana. Ci da appuntamento ad uno dei suoi affollati spettacoli. Lì, si potrà rivivere, ancora ed ancora, la vera emozionante musica napoletana.

 R.Y.C.C. SAVOIA
Reale Yacht Club Canottieri Savoia

Il Circolo Canottieri Sebezia è stato fondato il 15 luglio 1893 - da lì a due anni sarebbe diventato lo Yacht Club Canottieri Savoia - da undici soci del Circolo Canottieri Italia che, di comune accordo, si staccano dall’attiguo sodalizio rosso-blu fondato quattro anni prima e costituiscono così una alternativa agonistica al loro vecchio circolo con i nuovi colori bianco-celeste. La Canottieri Sebezia, duramente colpita da un luttuoso evento e sull’orlo dello scioglimento, si rivolge alla Casa Regnante. Umberto I e l’erede al trono Vittorio Emanuele, Principe di Napoli, fanno sì che il circolo prenda nuovo slancio. Per gratitudine i soci della Canottieri Sebezia cambiano la denominazione del Circolo inserendo il nome Savoia e, per ricordare gli amici scomparsi, sostituiscono il colore celeste della maglia con il colore nero. Il Circolo è poi affettuosamente vicino alla Corte per il lutto causato dal regicidio di Monza (29 luglio 1900) e il nuovo Re, Vittorio Emanuele III, nello stesso anno della sua ascesa al trono concede al Savoia la patente di Circolo Reale e ne assume la Presidenza Onoraria, presidenza detenuta per ben quarantasei anni fino al giorno della sua partenza per l’esilio di Alessandria d’Egitto. Nello stesso anno, per dare ancora una volta un segnale concreto alla gratitudine per Casa Savoia, i colori sociali cambiano nuovamente e il nero è sostituito dal definitivo blu savoia. La vita sportiva e sociale del Club dal 1895 in avanti ha uno sviluppo frenetico riscuotendo molti successi. Tra le due guerre i colori del Savoia ottengono vittorie di grande prestigio sia nella vela che nel canottaggio. Dal dopoguerra fino ai giorni nostri molti titoli italiani e europei e mondiali sono conquistati da equipaggi del Savoia. Nel 1960 il Savoia viene scelto quale centro operativo delle Olimpiadi della Vela di Napoli. Nel corso degli anni Ottanta il Savoia soffre di una crisi che ai più sembra irreversibile, il numero dei soci più che dimezzato e le attività sportive e sociali ridotte al lumicino. Nel 1991 la svolta: un colpo di vento spazza via le carte da giuoco, allontana per sempre le decine di anziane signore che occupano tutti i pomeriggi la sede sociale, riaccende l’entusiasmo e riafferma l’orgoglio dell’appartenenza. Il Savoia riprende a vivere. Le vecchie regole della vita sociale mai codificate da Statuti e Regolamenti del club vengono rispolverate. Si cena sempre con giacca e cravatta sia d’estate che d’inverno, i telefonini rigorosamente spenti e le signore sempre accompagnate, specialmente al ristorante, la politica tenacemente tenuta fuori dal Circolo. Oggi il Circolo ha soci inseriti ai più alti livelli della vita politica, scientifica, industriale, amatoriale, artistica e non solo nazionale. Ai successi sportivi del Club si affiancano ogni giorno eventi sociali che fanno del Savoia il centro prestigioso della più bella attività culturale e mondana di Napoli. Nel 1997 su iniziativa del presidente Dalla Vecchia, l’Assemblea dei Soci decide di ritornare alla vecchia denominazione riappropriandosi così dell’appellativo di "Reale" scomparso nel 1946 dopo l’esito del referendum istituzionale. Nel 1993 il maxi yacht "Blu Emeraude" vince con Raffaele Raiola il Campionato del Mondo dei Maxi Yacht. Il socio Vincenzo Onorato vince negli Stati Uniti nell’anno 2000 il Campionato del Mondo "Mumm 30" e, a seguire, quello degli IMS. Nel 2001 Vincenzo Onorato lancia la sfida per conto e nome del Circolo Savoia al Royal New Zealand Yacht Club di Auckland per l’America’s Cup 2002-2003. Nel mese di gennaio 2002 il CONI conferisce al Circolo Savoia - unica società velica italiana - il Collare d’Oro al Merito sportivo, la massima onorificenza riservata alle società sportive centenarie. Molti altri successi nell’ultimo periodo hanno arricchito il palmarès del Circolo Savoia. In questi ultimi anni il Savoia è diventato il Circolo di rappresentanza della Regione Campania e del Comune di Napoli. Capi di Stato, Primi Ministri, Ambasciatori, Premi Nobel, grandi nomi della cultura mondiale in visita ufficiale nella città sono accolti nei Saloni del Circolo. Al Circolo Savoia nel marzo del 2003 è stata organizzata la Cena di Gala in onore di Vittorio Emanuele e della sua famiglia in occasione del ritorno a Napoli dopo il lungo esilio. Il Circolo Savoia oggi annovera 850 soci ed è presieduto dal dott. Giuseppe Dalla Vecchia, in carica dal 1991.

Pippo Dalla Vecchia, eletto e rieletto all’unanimità presidente del Circolo, da diciotto anni "governa" il club del Borgo Marinari rendendolo l’ultimo autentico salotto della città come lui l’ha voluto, "in una mirabile fusione del passato e dell’avvenire". Con la tenacia e la pazienza, di uno che inseguiva un sogno per ricostruire il Savoia e farne la sede degna di attività sportive, sociali e culturali in una atmosfera di eleganza e di luce, iniziò sfrattando dalla banchina antistante, cozzicari, barche, reti da pesca e famiglie di luciani che vi sostavano, per annetterla al Circolo, creando così la stupenda terrazza del club. Dalla Vecchia non solo ha ricostruito il Circolo, portandolo agli splendori odierni, ma continua ad arricchirlo con la sua puntuale e ardente attività di rabdomante eternamente in cerca di mobili, dipinti, arredi e oggetti che fanno del Savoia un museo di cose di mare e di storia napoletana. Così ha trasformato il Circolo in una dimora, come ama dire, una casa di amici e non un club di perditempo buono per giocarci a carte e prendere il sole. Gli amici si sono moltiplicati negli anni. Il personale della Casa esegue tutto alla perfezione, guai a sgarrare, il Presidente sa essere terribile! Grazie alla sua prestigiosa e fattiva direzione, il Savoia è un salotto dove ospiti illustri hanno trascorso giornate radiose, dalle mogli dei capi di Stato in occasione del G7 a Napoli, agli alti ufficiali delle marinerie d’Italia, Spagna, Grecia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Canottiere egli stesso ai suoi tempi, al canottaggio Dalla Vecchia guarda con occhio e cuore particolari. Con lo slogan "il mare per salvare i giovani da un futuro difficile", apre la scuola di vela, seguendone i corsi e sorvegliando le barche nell’hangar vicino al Circolo. "Non solo uno sport, ma una scuola di vita", egli dice. Impresario di mare e di fantasia, ultima sua "creatura", il libro "Il Circolo Savoia. La Casa" è un inventario sentimentale di 400 pagine. Un volume elegante e suggestivo con tutte le riproduzioni delle gouaches, dei ritratti, degli acquarelli e degli oli su tela di navi, piroscafi e yachts nel golfo di Napoli, e poi oggetti, cimeli, arredi, modellini, trofei, quadri e stampe a colori di una Napoli e del suo mare che sfumano nella favola.

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RASSEGNA STAMPA

SERGIO DI JUGOSLAVIA, FIGLIO DI MARIA PIA DI SAVOIA E NIPOTE
DELL’ULTIMO RE D’ITALIA, UMBERTO II, PREMIA I NAPOLETANI FAMOSI
(di Enzo Di Micco)

NAPOLI - Una targa ricordo per attestare stima e rispetto, professionalità e ringraziamenti per quanto divulgato da ognuno ormai diventato famoso nel cinema-teatro, nella poesia, l’arte in genere e imprenditoria. Pubblico, applausi, scroscio, hanno decretato una magnifica serata. Il tutto all’interno del Circolo Reale Yacht Club Canottieri Savoia, situato nella suggestiva cornice del Borgo Marinari, sul lungo mare partenopeo, meglio noto come via Caracciolo. Qui, in una “mirabile fusione del passato e dell’avvenire” cui presidente è Pippo Dalla Vecchia, il principe Sergio di Jugoslavia ha premiato alcuni cittadini napoletani nell’ambito di uno specifico ruolo secondo il proprio merito professionale, nell’arco della propria vita, tutelando, conservando e divulgando il patrimonio culturale e tradizionale napoletano, in Italia e nel mondo. Sotto l’egida dell’Associazione Internazionale Regina Elena, che dal 2007 ha istituito il premio “Tutore del Patrimonio e della Tradizioni Napoletane”, la IV edizione di una significativa manifestazione ha visto consegnare targhe di riconoscimento Sergio di Jugoslavia, figlio di Maria Pia di Savoia e nipote dell'ultimo re d'Italia, Umberto II. Iniziativa che rientra nei programmi dell’Associazione Internazionale Regina Elena, attiva in Francia dall’autunno del 1985 e presente in cinquantasei Stati. Il sodalizio riunisce migliaia di persone per attività caritatevoli,spirituali e culturali sull’esempio della Regina Elena, Rosa d’Oro della Cristianità definita “Regina della Carità del Papa”. Il discendente di casa Savoia ha così premiato anche le memorie storiche come il cantante Aurelio Fierro, l’attore Massimo Troisi , Ermete Giovanni Gaeta, noto come  E. A. Mario, oltre che al bravo Ciro Capano, noto attore di teatro, cinema e televisione; il chirurgo endocrinologo, Francesco Corcione; il maesto Franco Farina; per non parlare del famoso titolare dell’ospedale delle bambole, Luigi Grassi; l’imprenditore Maurizio Marinella noto per le cravatte di gran classe, uomo dallo spirito allegro e ospitale al punto di essere entrato nel cuore dei suoi clienti: ogni anno, durante il periodo natalizio offre caffè e sfogliatelle alle persone in attesa, fuori dal negozio, per farle pazientare; il maestro di panforte Patrizio Marrone; lo stilista Gianni Molaro, famoso per le sue collezioni dedicate agli affreschi di Pompei; il guantaio Mario Portolano la cui azienda ha origine nel 1895, nella produzione artigianale di guanti di grande qualità e di raffinata fattura. Ma non è mancata nel corso della serata la figura inscindibile della storia e della cultura di Napoli, Gianni Quintiliani. La serata è stata condotta dalla brava Adele Vian.


PREMIAZIONE DEL
11 OTTOBRE 2008

 - Reale Yacht Club Canottieri Savoia -

11 OTTOBRE 2008


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