La leggenda del Piave
Leggenda del Piave (1918), l' inno che celebrò la riscossa delle truppe italiane sul fronte veneto nella prima guerra mondiale. Autore del testo e della musica: E.A. MARIO.
Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio;
l'esercito marciava per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera!
Muti passaron quella notte i fanti,
tacere bisognava andare avanti.
S'udiva intanto dalle amate sponde
sommesso e lieve il tripudiar de l'onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero.
il Piave mormorò: Non passa lo straniero!
Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento
e il Piave udiva l'ira e lo sgomento.
Ahi, quanta gente ha visto venir giù, lasciare il tetto,
poiché il nemico irruppe a Caporetto.
Profughi ovunque dai lontani monti,
venivano a gremir tutti i suoi ponti.
S'udiva allor dalle violate sponde
sommesso e triste il mormorio de l'onde.
Come un singhiozzo in quell'autunno nero
il Piave mormorò: Ritorna lo straniero!
E ritornò il nemico per l'orgoglio e per la fame
volea sfogare tutte le sue brame,
vedeva il piano aprico di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora!
No, disse il Piave, no, dissero i fanti,
mai più il nemico faccia un passo avanti!
Si vide il Piave rigonfiar le sponde
e come i fanti combattevan l'onde.
Rosso del sangue del nemico altero,
il Piave comandò: Indietro va, o straniero!
Indietreggiò il nemico fino a Trieste fino a Trento
e la Vittoria sciolse l'ali al vento!
Fu sacro il patto antico, tra le schiere furon visti
risorgere Oberdan, Sauro e Battisti!
Infranse alfin l'italico valore
le forche e l'armi dell'Impiccatore!
Sicure l'Alpi, libere le sponde,
e tacque il Piave, si placaron l'onde.
Sul patrio suolo vinti i torvi Imperi,
la Pace non trovò né oppressi, né stranieri!
LA STRANA STORIA DELLA "LEGGENDA"
E "IL PIAVE" NON FU INNO NAZIONALE
da: IL CERCHIO di Franz Maria D'Asaro
Il 24 giugno di quarant'anni fa, nel giorno del suo
onomastico, si spegneva nella propria casa di Viale Elena a Napoli, Giovanni
Gaeta, più famoso nel mondo con lo stravagante pseudonimo di E. A. Mario.
Aveva 77 anni. Autore della "Leggenda del Piave" - oltre che di molte altre
famosissime canzoni - era stato uno dei più applauditi e determinanti
protagonisti della generazione della Vittoria. Un ministro del tempo ebbe a dire
che "la Leggenda del Piave giovò alla riscossa nazionale molto più di un
generale, e valse a dare nuovo coraggio ai soldati, quanto mai demoralizzati per
la ritirata di Caporetto".
E.A. Mario, nonostante fosse autorevole e famosa espressione contemporanea della
canzone napoletana, con oltre duemila lavori anche di fama mondiale, da "Santa
Lucia luntana" (incomparabile dramma dell'emigrante) a "Profumi e balocchi", a
"Vipera", a "Rose rosse", a "O' Paese dò sole", era soprattutto il cantore dei
soldati e dei grandi eventi patriottici. Era il poeta dei marinai, dei
bersaglieri, dei fanti, il can-tore della "Canzone di trincea" (... "e le
stellette che noi portiamo..."), di "Ci rivedremo in primavera", della "Marcia
d'ordinanza della Marina " (rimasta immutata sino ai giorni nostri), di "Ho
sognato un bersagliere" e di tante altre composizioni popolari che tutta
l'Italia canticchiava.
Già nel 1904, scrivano postale appena ventenne, viveva con appassionata
partecipazione il clima napoletano del suo tempo, alimentato da grandi ingegni
musicali che si chiamavano Tosti, Segrè, Di Capua, Bovio, Di Giacomo. Un giorno
Raffaello Segrè si presentò allo sportello del giovane impiegato per spedire un
vaglia e si sentì così apostrofare: "Ma-estro; le vostre musiche sono belle, ma
le parole, scusatemi, sono una fetenzia". "E tu" - lo rimbeccò con tono di
prezzante sfida il risentito compositore - perché non ne scrivi di più degne?".
E così nacque "Cara mamma", un grande successo musicato proprio da Segré.
E qui prese forma il bislacco pseudonimo con il quale Giovanni Gaeta divenne
E.A. Mario. Ecco come il poeta ci spiega l'arcano: "Al momento in cui Segré mi
diede la splendida notizia che la mia prima canzone, per l'appunto 'Cara mamma',
sarebbe stata pubblicata da Ricordi, gli feci intendere che il mio nome non
volevo mettercelo. Perché? Perché a quel tempo pubblicavo versi in lingua, avevo
altre ambizioni, sognavo di scrivere poesie, insomma mi sembrava di
compromettermi. Occorreva uno pseudonimo. Ma che non fosse impegnativo, come
quando un nome fittizio diventa un "panache", un programma, un secondo nome
innestato all'atto di nascita. Un muretto per nascondermi volevo, e nulla più.
Scrivevo all'epoca anche articoli per "Il Lavoro" di Genova, e li firmavo con un
secondo petit-nom per sfuggire all'omonimia di un antipaticissimo Giovanni
Gaeta. Firmavo "Hermes", oppure "Ermes". Il redattore capo de "Il Lavoro" era il
poeta Alessandro Sacheri che era anche redattore capo di un giornale letterario
genovese al quale collaboravo: "Il ventesimo", diretto da una scrittrice polacca
che si faceva chiamare Mario Clarvy. Presi in prestito la "E" di Ermes, la "A"
di Alessandro Sacheri, il "Mario" della polacca, e così nacque "E.A. Mario",
questa complicata diavoleria che tanto ha fatto farneticare i curiosi".
Un giorno mi telefonò da Napoli per chiedermi di stargli vicino il giorno dopo.
Era stato "convocato"a Roma da "un altissimo personaggio che non posso dirvi per
telefono", per ragioni che mi avrebbe detto a voce. Era insolitamente
emozionato. E lo fu ancora di più la mattina successiva appena disceso dal
rapido alla Stazione Termini dove ero andato ad accoglierlo. Il personaggio era
il Presidente del Consiglio De Gasperi. Lusingato ma inquieto, il poeta era
tormentato dalla curiosità, non ave-va ben afferrato i motivi di quell'invito:
"ma che cosa mai può volere da me?" continuava a ripetere durante il breve
tragitto verso la Presidenza del Consiglio, che a quel tempo era sistemata al
Viminale, attuale sede del Ministero degli Interni.
Dall'incontro con De Gasperi, E.A. Mario uscì profondamente turbato. Lo
aspettavo nel vicino bar del "Super-cinema" e lo vidi arrivare corrucciato,
quasi stravolto, rosso in volto. Era accaduto che lo statista, in verità con
molto garbo, avesse sondato il cantore del Piave sulla sua eventuale
disponibilità a progettare un certo inno con certi connotati ideali.
Praticamente la sottintesa commissione di un inno per la Democrazia Cristiana.
Il Presidente del Consiglio aveva cercato le parole adatte, più allusive che
esplicite, si era espresso con rispetto per le idee dell'interlocutore che
sapeva non coincidenti con le sue, aveva fatto di tutto cioè per rendere
gradevole il difficile discorso. Ed aveva concluso dicendosi sinceramente molto
lieto di poter raccomandare che la "Leggenda del Piave" diventasse l'inno
ufficiale della Repubblica, in sostituzione dell'Inno di Mameli che era stato
frettolosamente adottato come "inno provvisorio" da suonare nelle cerimonie per
la fondazione della Repubblica, dopo il discusso esito del referendum
istituzionale (e provvisorio è rimasto, come tutte le italiche provvisorietà).
E.A. Mario, che era intuitivo e sospettoso, ebbe la sensazione che dietro il pur
gentilissimo discorso di De Gasperi si nascondesse l'insidia di un
patteggiamento, di uno scambio di favori. Se ne adombrò. " Eccellenza" - rispose
con tono affettato - "io sono molto onorato di sentirmi prescelto con tanta
fiducia per un così prestigioso incarico e sarei ben lieto, anzi felicissimo di
aderire al suo cortese invito, se non ci fosse un piccolo ma per me fondamentale
particolare ad impedirmi di scrivere un inno su ordinazione. Vede, eccellenza,
io le canzoni le scrivo con il cuore. Non se ne fa niente". E si congedò sotto
lo sguardo gelido e tagliente di De Gasperi.
Era amareggiato e dispiaciuto anche perché avvertiva un'istintiva solidarietà
per il Presidente del Consiglio a quel tempo oggetto di ingenerose critiche per
le sue simpatie giovanili filo-austriache. E saggiamente non diede seguito né
pubblicità a quel curioso incontro, tanto più curioso se si pensa che la prima
canzone di guerra di E. A. Mario, "Serenata all'Imperatore", era stata dedicata,
con toni non certo amichevoli, a Cecco Peppe.
E.A. Mario era di una generosità esemplare. Per la "Leggenda del Piave" non
volle mai percepire un soldo di diritto d'autore. Le prime cento medaglie d'oro
che aveva ricevuto dai Comuni del Piave, da associazioni combattentistiche e da
singoli privati, le donò "alla patria" - come si diceva allora - nel novembre
del 1941, insieme con le "fedi" matrimoniali sua e della moglie. Tutte le altre
medaglie d'oro - molte -, la commenda in oro che gli aveva personalmente
consegnato Vittorio Emanuele III, ed altri preziosi cimeli, furono razziati da
ladri tredici anni dopo la sua morte, nel maggio 1974, in casa della figlia che
si chiama, naturalmente, Vittoria.
Mite e forte, permaloso ma non collerico, romantico ma solidamente ancorato alla
realtà, crepuscolare per temperamento ma gioioso testimone di una stagione che
sapeva sarebbe finita con il suo tempo, E.A. Mario era disponibile al dialogo
con chiunque, anche con il più ostico e prevenuto degli avversari, ma rigoroso,
ai limiti dell'intransigenza, sui principi di fondo. Sempre pronto a mediare, a
trovare punti d'incontro, ma altrettanto tenacemente impegnato a lanciare
appassionati avvertimenti sui pericoli spiritualmente involutivi di certo
dilagante modernismo massificatore e disumanizzante.
Un esempio. Anche e soprattutto questo nostro tempo di opulenza che genera
perdita di valori, egoismo, solitudine e disperazione.
Inno al Milite Ignoto
- E. A. Mario -
Il Carso era una prora
prora d'Italia volta all'avvenire
immersa nell'aurora
col motto in cima:"VINCERE O MORIRE".
E intorno a quella prora si moriva
quando alla nave arrise la vittoria
ma il nome di ogni fante che periva
passava all'albo bronzeo della storia.
Soldato ignoto e Tu
sperduto tra i meandri del destino!
Mucchio senza piastrino
eroe senza medaglia
il nome tuo non esisteva più.
Finita la battaglia fu chiesto inutilmente
nessun per Te poteva dir:"PRESENTE".
Il Piave era una diga
file di elmetti e siepi di cucili
zappe e chitarre in riga.
No generali e fanti non son vivi!
La morte li freddò coi suoi miasmi
li strinse mille tra le ossute braccia
li rese inconoscibili fantasmi
ne disperdeva fin l'ultima traccia.
Soldato ignoto e Tu
sperduto tra i meandri del destino!
Mucchio senza piastrino
eroe senza medaglia
il volto tuo non esisteva più.
Finita la battaglia tua madre inutilmente
tra i morti intatti ricercò l'assente!
La gloria era un abisso
che si estendeva dallo Stelvio al mare
ma l'occhio ardente e fisso
non si distolse si dovea passare.
E la chiodata scarpa vi passava
tritò l'impervio Carso a roccia a roccia
pigiò nel Piave sacro che arrossava
sangue nemico tratto a goccia a goccia.
Soldato Ignoto e Tu
ritorna dai meandri del destino!
Brilla il tuo bel piastrino
fregiato della palma
Tu sei l'eroe che non morrà mai più!
E solo la tua salma che volta ad oriente
da Roma può rispondere:"PRESENTE!"
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