SALVATORE DI GIACOMO
DI GIACOMO SALVATORE - Napoli, 12 marzo 1860 - 5 aprile
1934.
Il massimo Poeta nostro. Autore di tanti bei
lavori teatrali, trasformati anche in libretti per opere liriche. Storico
di utilissime e dense monografie sul teatro, sui musicisti, sui pittori,
sulla poesia e cento altre curiosità napoletane. Non solo non rimase
estraneo alla canzone, ma la canzone stessa prese ad aver dignità d'arte
proprio con lui. Prima esisteva, e come! ma pur sempre racchiusa
nell'ambito di un'emozione popolaresca, con delle sortite, è vero, che se
da un certo punto possono considerarsi anticipazioni di un più luminoso
avvenire, peraltro non alterano la sostanza della valutazione.
Con Di Giacomo si ha la certezza che si può ormai parlare non soltanto di
un testo da ricoprire di note, bensì di poesia in assoluto. Si sa,
infatti, che la poesia nella sua più bella dimensione, quella lirica, dà
un nuovo senso alla canzone napoletana, la stabilizza su un piano di più
ampio respiro, le apre definitivamente nuove vie. E' la parola stessa ch'è
musica, prima ancora che qualcuno si metta al piano, o strimpelli un
mandolino, alla ricerca di una melodia.
Tutta la poesia che Di
Giacomo riversa nelle canzoni é come se fosse stata scritta sul
pentagramma del cuore più bello, col tocco d'ala - suadente e leggero - di
un'anima soave, assetata di luce, di musica, di profumo.
Un'anima trasmigrata dal sereno e lontano Olimpo, qui, in questa plaga
meravigliosa, per ché vedesse, fermasse, cantasse - sotto il cielo più
bello del mondo ed in pagine da capolavoro - la piena dei sentimenti più
delicati, i reconditi motivi del cuore, con una voce nuova per quanto
antica, perché in se
reca tutta l'esperienza e la
raffinata perizia di precursori insigni.
Nel 1880, abbandonata l'Università, dove era iscritto alla facoltà di
Medicina, fu cronista dei maggiori giornali cittadini; poi collaborò alle
pagine letterarie dei quotidiani e delle riviste più in voga. Scrisse la
prima canzone nel 1882: Nannì!,
che il maestro Caracciolo si
rifiutò di
I SUCCESSI
Nannì!... (1882),
'A capa femmena (1883), Napulitanata (1884), Nun ce simmo,
Nannì! (1884), ' - Era de maggio (1885), Oje Carulì
(1885), Oje ' marenà (1885), Statte, Peppì (1885),
Marechiare '(1885), Maria Rò (1886), Oilì oilà
(1886), 'A re fit.
tirata (1887), Luna nova
(1887), Mena, mè! (1887), Munasterio (1887), A novena
(1888),. Bonnì! bonnì (1888), Dimane t"o ddico...
(1888), 'E ccerase (1888), 'E spingole frangese (1888),
Lariulà (1888), Canzona amirosa (1889), E vota e gira
(1889), Tiritì-tiritombolà (1890), All'erta sentinella
(1890), A Capemonte (1890), A ritirata d"e marenare (1890),
A signora luna (1892), Catari (1892),
Carcio
f f
olà
(1893), I' pe' te moro!
(1893), L'appuntamento (1894), A cammisa affatata (1895), A
speranzella (1895), 'E trezze 'e Carulina (1895), Matale
(1895), 'O punticcio (1895), 'O campaniello (1896), A
sirena (1897), Don Carluccio (1897), Serenata napulitana
(1897), 'E tre terature (1898), Dimane... chi sa? (1901),
Ma chi sa? (1905), Tu nun me vuò cchiù bene! (1906), Bella
ca 'e tutte 'e belle (1907), Palomma 'e notte (1907),
Canzone a Chiarastella (1912) Serenata a na vicina (1913),
Mierolo affurtunato (1931), Canzone mbriaca (1932), ed altre.
Ettore de Mura -
Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice IL TORCHIO, Napoli 1969
Caro
ricordo degli anni miei testardi
di Eduardo De
Filippo
Nel periodo
mio più acceso del mio amore per il teatro, quando la testardaggine della
giovinezza, quella dei 14, 15 anni, diventa un peso determinante per quel
che potrà essere di bene o di male il futuro dell’uomo, per le strade
di Napoli, vicoli e vicoletti compresi, camminavo giornate intere senza
una meta fissa, senza consultare l’orologio perché non lo possedevo...
Camminavo così, come a caso, ma con l’intima speranza di salutare
Ernesto Murolo in carrozzella, proveniente dalla sua abitazione di San
Pasquale a Chiaia. Spesso lo pizzicavo a via Calabritto o a Piazza dei
Martiri, ma il più delle volte a Toledo. Se riuscivo a farmi notare, m’invitava
a raggiungerlo. Io non aspettavo altro: «Arrivo!». Il traffico a quei
tempi era ragionevole; attraversavo la strada in un lampo, un salto, e mi
trovavo accanto all’autore di Pusilleco addiruso, la canzone che
a buon diritto mise il giovane scrittore all’altezza dei poeti più
amati e stimati dal popolo e dalla critica di Napoli. In seguito fu uno
dei protagonisti del Teatro d’Arte Napoletano, e anche in quel campo
fece centro: basterebbe citare l’atto unico Signorine, che ebbe
un travolgente successo con duecento repliche di esauriti al
Teatro Nuovo. Ora parla Ernesto Murolo, durante la nostra passeggiata in
carrozzella: «Eduardié, l’impresario del Teatro Nuovo si comprò Signorine,
dandomi un con penso di 200 lire, una tantum: tu capisci l’affare che
ho fatto?». Eduardo Nicolardi, l’autore di Voce ‘e notte, lo
andavo a trovare nel foyer del Salone Margherita, alla Galleria Umberto,
dove aveva il posto di lavoro. Scriveva articoli di terza pagina per il Mattino
e dello stesso giornale fu critico teatrale. «Caro don Eduardo, buon
giorno!». Risposta immancabile: «Gué, Eduardié, asséttate». Poggiava
la penna sul calamaio, piegava la sedia all’indietro per poi girarsi
verso di me, e l’insieme di quei gesti significava che m’accoglieva
volentieri, e che una mezz’oretta di riposo non avrebbe guastato il suo
lavoro. «Eduardié, che si dice? Col lavoro, che fai?». «Don Eduà,
diciamo: che penso di fare... ». Quella mezz’ora di
conversazione mi lasciava pago per una, due settimane, poi tornavo da lui
per arricchire sempre più il mio modesto bagaglio di cultura teatrale.
Rocco Galdieri, in arte Rambaldo, lo conobbi che avevo solo otto anni.
Egli frequentava quotidianamente la casa di Eduardo Scarpetta, allorché i
due eminenti uomini di teatro decisero di scrivere insieme L’Ommo
che vola!, una grande rivista di attualità che andò in scena nel 1909
al Teatro Bellini. La collaborazione Rambaldo-Scarpetta continuò l’anno
seguente con Cielo e Terra, e ancora nel 1911-12 con Babilonia e
nel 1912-1 3 con Babilonia com’era e com’é. Avevo raggiunto i
tredici anni e mezzo, mancava poco per varcare la
soglia degli anni «testardi», ma mi sentivo quasi maturo, e cosciente
di aver saputo assorbire da quei due grandi uomini di teatro gli elementi
indispensabili che mi avrebbero dato la quasi certezza di potere
intraprendere con successo la via del teatro.
Varcata quella
benedetta soglia, pensai immediatamente che tempo da perdere non ce n’era:
cominciai a dare la caccia ai grossi nomi del mondo del teatro in genere.
Il primo fra tutti che gettò uno sguardo di comprensione e simpatia sui
miei quindici anni appena compiuti, fu Libero Bovio: mi volle subito bene,
e io a lui. La sua amicizia mi fu di grande incoraggiamento durante le mie
esperienze. Avvicinai poi Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Capurro,
Viviani, Chiurazzi, Costagliola, E.A. Mario, Michele Galdieri e fui amico
fraterno di Lorenzo Giusso. Purtroppo, l’unico nome che non mi è dato d’inserire
tra gli scrittori che conobbi personalmente è quello di Salvatore Di
Giacomo. Colpa mia? Colpa sua? Di nessuno dei due. Fu colpevole la dannata
polemica che si accese, e che durò per anni, fra Eduardo Scarpetta e il
gruppo di scrittori dialettali che si formò in difesa del Teatro d’arte,
di cui Di Giacomo fu il più autorevole e accanito assertore.
Guai a me, se mi
fossi avvicinato al grande poeta! La controversia tra i due famosi
litiganti mi fece vivere giorni di amarissimo smarrimento. Si trattava di
una scelta: o mio padre o Di Giacomo. L’ammirazione e il rispetto che mi
legavano a mio padre mi facevano mettere da parte Di Giacomo, mentre il
fascino che esercitava su di me la poesia del Di Giacomo mi spingeva verso
una via traversa.., e a conti fatti, me la cavai bene.
I gruppi degli
amatori del teatro digiacomiano reclutavano a dozzine i ragazzi di ogni
quartiere di Napoli e provincia, ed erano numerosissimi, centinaia. Uno di
questi gruppi fu messo su da Michele Mercurio, discendente della prolifera
famiglia Mercurio, che a sua volta dettava legge nel campo della tecnica
di palcoscenico; da lui mi venne affidato il ruolo di Epaminonda Pesce,
che appare nel solo primo atto di Assunta
Spina, con in più l’obbligo
di presentarmi alla ribalta, a fine spettacolo, per declamare qualche
poesia del poeta.
Dopo circa due
mesi di prove, l’unica rappresentazione di Assunta
Spina, con relativa
declamazione di poesie a fine recita, ebbe luogo in uno stanzone d’un
appartamento al terzo piano di un antico palazzo sito in via Pietro
Colletta, dove abitava un certo De Bonis, il quale si guadagnava la vita
come suggeritore e come affittuario dell’improvvisato teatrino, messo su
alla buona. Lo stanzone, però, non riuscì mai ad assumere l’aspetto d’un
vero teatro, sebbene vi fosse un tendone che fungeva da sipario, una
pedana alta una settantina di centimetri, due quinte a destra e due a
sinistra per le entrate e le uscite dei personaggi, e una boccascena di
tela di sacco tinta di rosso, che segnava il limite tra il «palcoscenico» e lo spazio per il pubblico.
I frequentatori
del teatrino di De Bonis, saranno stati non più di cinquanta o sessanta
persone, erano gli inquilini del palazzo, infatti i manifesti che
annunciavano gli spettacoli si attaccavano soltanto per le scale, dal
primo al quarto piano... Nella sala non c’erano né panche né sedie,
questo gli inquilini lo sapevano, e così ognuno di loro si portava dietro
una sedia da casa.
Questo fu il mio
primo incontro clandestino con il grande don Salvatore. Gli fui accanto
per circa sessanta giorni di prove, e lo evocai orgogliosamente durante la
rappresentazione di Assunta
Spina, e mentre declamavo, a fine recita, Lassammo fa’ a Ddio. Quell’unico
spettacolo domenicale dato nello stanzone di casa De Bonis, è rimasto uno
dei ricordi più commoventi della mia lunga vita di teatro. Difficilmente
si può provare un’emozione più sconvolgente di quella che io provai
quando, dopo gli applausi rivolti all’autore e a noi ragazzi, arrivò
fino a me il vocio degli inquilini che commentavano lo spettacolo. Ancora
qualche applauso, e tra il rumore dello spostamento delle sedie che
venivano riportate via, mi parve di riconoscere la voce di don Salvatore
che diceva: «Eduardié, bravo! Si l’appura pàtete, staje fisco...»
Caro don
Salvatore, posso dirvi sinceramente che la vostra stretta di mano non mi
è mai mancata; di questo vi sono grato e mi permetto di chiedervi un
abbraccio... Vostro
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Storia delle 200 canzoni di Salvatore Di Giacomo corredata da due dischi |
Salvatore Di Giacomo La vita, la poesia, le canzoni, la prosa |
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Salvatore Di Giacomo
Nacque a Napoli nel 1860. Si iscrisse alla facoltà di medicina, ma smise subito per dedicarsi al giornalismo e alla letteratura. Iniziò con delle novelle fantastiche inviate al Corriere del mattino dalla Germania,dove risedette per qualche mese. Fu un narratore discontinuo, un po' grezzo, ma dai tratti delicati e toccanti: Minuetto settecentesco (1883), Pipa e boccale (1893), Novelle napoletane (1914), L'ignoto (1920). Le sue opere teatrali più famose: 'O voto (1889), Assunta Spina (1909), A San Francisco, ricavato da un gruppo di sonetti scritti da lui. Dalle sue raccolte : 'O Funneco verde(1886) e Ariette e Sunette (1898), sono state estratte e musicate le più belle canzoni napoletane. Salvatore Di Giacomo si spense a Napoli nel 1934.
ANEDDOTI
"Marechiaro"
Salvatore di Giacomo andò
a Marechiaro solo molti anni dopo aver scritto la celeberrima canzone. In
un articolo di giornale scrisse "In un giorno d'Aprile, con una
piccola barca a vela sono stato per la prima volta laggiù, su quei lidi
che, senza conoscerli, ho cantato e celebrato". Il poeta si recò in
quel luogo per accompagnare una giovane studentessa inglese, sua ospite.
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