FRANCESCO D'ASCOLI

LE OPERE E I GIORNI
DI
ENZO BONAGURA

LA VITA
Le vicende biografiche di Enzo Bonagura non potevano essere che varie e imprevedibili. L'attività che egli si era scelta non gli consentì, come era naturale, di vivere giorni tranquilli come li vive un buon impiegato o un disarmato pensionato. Molti giovani oggi lo ignorano; ma gli anziani ricordano certamente i suoi trionfi, le sue affermazioni in campo artistico, di cui lessero in periodici e quotidiani. In notorietà egli senza dubbio raggiunse il livello di un altro napoletano genialissimo nato a Napoli e sballottato a Milano per un lungo arco di tempo: Giuseppe Marotta, che gli somigliava fisicamente e come lui diede all'arte il cuore e l'anima. E come Marotta amò la sua città natale e fece di essa l'oggetto dei suoi scritti migliori, così Bonagura amò questa plaga felice dell'oriente vesuviano e la città di Napoli, che celebrò nelle sue liriche e nelle sue canzoni in lingua e in dialetto.
In San Giuseppe Vesuviano vide la luce il 19 aprile del 1900. Pur essendo alieno dal «raccontarsi», come precisa la figlia Maria Cristina, tuttavia qualcosa scrisse in proposito e in poche battute illumina sufficientemente la sua stessa figura. «... nacqui alle falde del Vesuvio sul cominciar del secolo in una casa dai balconi pieni di gerani. Era scavata nell'arsa roccia la strada che conduceva all'azzurrissimo mare di Napoli... A sei anni visse momenti di panico, quando, aprile 1906, la rovinosa nota eruzione vulcanica lo costrinse a trovare scampo in un paese vicino con il padre, commerciante di vini vesuviani.
La sua carriera scolastica fu precaria e disordinata; frequentò scuole a Nocera Inferiore, a Sarno, nel collegio "San Tommaso d'Aquino" di Napoli, distinguendo si non tanto per l'attaccamento allo studio quanto per i «filoni», per le fughe «dalle finestre», per proteste di vario genere, per la partecipazione a cortei interventisti e, ovviamente, per qualche sonora bocciatura. Per anni fu «utente» pendolare della ferrovia Circumvesuviana e in capo a qualche anno conseguì la licenza liceale più per i buoni uffici dei vini del padre che per i propri meriti scolastici, come maliziosamente ricorda lui stesso. Insomma in collegio non si era comportato come uno studente modello. Anzi un bel giorno, per avere scritto e cercato di divulgare dei versi dedicati ad una Concettina dagli occhi neri», si buscò tre giorni di sospensione dalle lezioni. Altri tempi! Si iscrive alla Facoltà di Farmacia, ma arriva, 1919, la cartolina-precetto, ed è servizio militare: ottimo pretesto per accantonare gli studi universitari. Quando viene congedato lascia il grigioverde e indossa la camicia nera. E poiché sa parlare, sa scrivere, sa farsi stimare e ammirare, accetta presto la carica di Segretario Politico del partito fascista che lascia nel 1924 subito dopo il delitto Matteotti (10 giugno 1924) forse perché negativamente impressionato dal fatto e certamente perché credette in un primo momento che si trattasse di un «delitto di Stato». Senza dubbio su questo sganciamento influì anche il fatto che da qualche anno aveva preso a coltivare le Muse con impegno più che dilettantistico. Tornerà però all'incarico nel 1929 e vi rimarrà fino al 1936.
Su questo «ritorno» all'ovile si è molto discettato; ma a che serve? Bonagura aveva serietà, cuore, cervello e certamente non si fece condizionare in quella occasione né da motivi di servilismo, né da interessi pratici, tanto è vero che egli non cessò, nella sua produzione successiva, di spezzare qualche lancia in favore del Fascio: e questa sincerità lo onora.
Ormai aveva abbandonato l'Università, ma continuò a servire gli altri due padroni: la politica e l'arte. Nel '36, come accennato, lascerà anche la politica. Gli rimane l'arte, e all'arte si darà con tutta la passione e il trasporto possibili; per l'arte rimane a Napoli; per l'arte s'impiega in una farmacia di via dei Mille; per l'arte riesce a entrare in un ambiente nel quale non avrebbe mai sognato di entrare quando timoroso studentello frequentava il «San Tommaso d'Aquino». Conosce così da vicino personaggi di altissimo livello quali F.T. Marinetti, Roberto Bracco, Gino Doria, Giuseppe Toffanin - l'estroso professore di letteratura italiana dell'Università Federico 11. Ormai scriveva canzoni a profusione (che sarebbero arrivate al numero prestigioso di circa mille). Aspira ad entrare nel giro delle grosse aziende musicali (Bideri, Santoianni, Izzo, La Canzonetta, Gennarelli) ma passa dinanzi alle soglie di quelle case da tempo sognate senza osare di varcarle. Quando poi Peppino Ranieri musica i versi di «Sartina», Mario Cosentino, autore già affermato, per conto della Editrice Napoletana boccia la musica ma non i versi. La canzone tuttavia viene tenuta a battesimo sulla scena del Politeama da Gennaro Pasquariello e segna così l'avvio di una carriera destinata a raggiungere traguardi brillanti. Insomma l'esibizione del più grande interprete della canzone napoletana, quale tuttora viene ritenuto Pasquariello, era una garanzia per gli editori e per i musicisti in voga in quei tempi; come lo erano, nel campo femminile, Gilda Mignonette ed Elvira Donnarumma. Chissà che non sia possibile ascoltare un disco che contenga una canzone del nostro poeta cantata da quel grande melodioso artista che fu Pasquariello e del quale un figlio affettuoso ha recentemente pubblicato un'interessante biografia.
Le vicende private restano tuttavia come coperte da veli sottilissimi attraverso i quali non è possibile veder tutto; anche perché egli fu restio a parlare di sé, a narrare in prima persona i suoi successi, qualche delusione, qualche dolore, le tante tantissime soddisfazioni che gli diede l'arte. Ma per fortuna un certo prof. Enrico Polichetti, un nocerino che viveva nel Veneto, ed occupava incarichi molto autorevoli nell'amministrazione della sanità pubblica, avendo frequentato con lui per un certo tempo l'Università di Napoli, ne ha tramandato qualche più concreto ricordo. Il Polichetti racconta: «Incontrai Enzo nel 1919-1920 frequentando l'Università di Napoli. Alcuni corsi in comune ci avvicinarono, data anche la conoscenza dei suoi conterranei vesuviani miei colleghi in medicina (A. Catapano, G. Pappalardo, A.G. Boccia). Divenimmo intimi abitando a Napoli la stessa casa di via Trinità Maggiore, ora via Benedetto Croce, il filosofo che viveva nell'attiguo palazzo «Filomarino».
L'amicizia durò nel tempo: «Mi chiamava 'O fra' e spesso m'invitava ai varietà (Umberto, Fenice, Eden, Orfeo) dove mi divertivo tanto anche per il libero ingresso, specialmente se cantavano le sue canzoni». Alla chiusura dei locali si usciva e con le ragazze del varietà si dava l'assalto al carrettino dei datteri e dei fichi d'India che, illuminato all'acetilene, stazionava in piazza San Domenico Maggiore. Quando Enzo incassava e si poteva disporre di più cospicue somme, allora i due amici, seguiti da un codazzo di nottambuli, irrompevano nella pizzeria Mattozzi dalla quale in ore piccole si usciva un po' tutti brilli. Non era una novità la tendenza del poeta alla vita di bohémien e di scapigliato, né lo era la sua liberalità. Erano anche i tempi in cui egli aveva intrecciato rapporti di amicizia con i maggiori ingegni del tempo, come prova una fotografia nella quale egli compare in un gruppo con Salvatore Di Giacomo, Raffaele Chiurazzi, Diego Petriccione, Roberto Bracco, Libero Bovio, Edoardo Nicolardi, Salvatore Ragosta, Enrico Cannio, Gennaro Ottaviano, Pacifico Vento, Aniello Costagliola, Arturo Trusiano, Decio Carli, Francesco Buongiovanni, ed altri non bene identificati. Con Di Giacomo s'incontrava spesso e gli chiedeva lumi e consigli su problemi di poesia e parlata dialettali.
Egli sapeva bene che scrivere il dialetto non era facile, ma lo sapeva anche Di Giacomo che non rare volte viene trascinato in qualche incongruenza dall'on da stessa dell'ispirazione. Perché si possa creare è infatti necessario non solo scrivere, ma anche pensare e sentire in una lingua. Molti, allora come oggi, pensavano in toscano e il pensato traducevano in napoletano. E ovviamente ciò non significa far poesia, non significa far vera poesia. Per Enzo il problema non si pone: egli s'immedesimò talmente nei suoi sogni e nei suoi fantasmi poetici che fu allora considerato poeta genuino e sincero.
Il prof. Polichetti un bel giorno prese la sua strada, si unì in matrimonio con una ragazza conosciuta in casa di Enrico De Nicola e «una sera del Carnevale del 1927 al teatro Goldoni a Venezia, quasi non credendo ai miei occhi, lo rividi in palcoscenico nella parte di attore giovane della celebre compagnia di Memo Benassi ed Emma Gramatica. Ci facemmo tante feste ed io lo presentai ai miei amici e amiche della Venezia bene; fece furore anche canticchiando i suoi motivi in privato».
Poco più tardi il poeta sposò Carmelita Barontini, una giovane di Macerata, e fu sposo felice. In quella città visse per un certo tempo con la moglie, che gli diede tre figli: Stefano, Luca e Maria Cristina. Ma il destino era in agguato, e lo colpì quando viveva una stagione di successi e di felicità; perdette il figlio quindicenne Stefano al quale un tuffo nel mare di Falconara procurò la frattura della cervice e lo portò alla tomba. Il povero padre fece fatica a riprendersi.
Ma ecco ciò che il medico nocerino scrive del carattere dell'amico: «Profondamente buono, affabile, era comprensivo, docile. La sua ingenuità bambinesca, di compagnone, traspariva dal viso sorridente, espressivo, aperto e sincero, mai pretenzioso. Aveva stile, tratto accogliente, eleganza sobria anche nel vestire: preferiva il blu». Aggiunge ancora, per completare il ritratto, che il poeta, quando camminava, aveva un portamento «ammartenato», come si dice a Napoli, insomma si dondolava lievemente come fanno i giovani che si danno delle arie; ma in Enzo quel portamento non era voluto o manieroso: era perfettamente naturale.
Scrisse ancora canzoni in lingua e in dialetto e musicò i suoi versi come meglio poté, non essendo un musicista. Un'emiplegia lo colpì poco dopo il 1970 e una bronchite lo finì il 17 marzo del 1980. La sua mente fu lucida, fino alla fine, ma la sua voce ormai si era già spenta dai primi anni settanta. Aveva manifestato il desiderio di essere sepolto nel cimitero di Ottaviano; ed ora lì riposa, nella cappella di famiglia.

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